FRUIT SOUP - American Culture

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Indice :

1 FRUIT SOUP - una rubrica newyorkese

2 FRUIT SOUP - Residency Events

3 FRUIT SOUP - Il Metropolitan

4 FRUIT SOUP - Dia Foundation

5 FRUIT SOUP - Art Basel Miami

6 FRUIT SOUP - American Culture




Mark Ryden - Hexagon



Visitatori mostra Ryden



Jim Shaw - New Museum



Jim Shaw - aerografo e graffite



Noi - New Museum



Archimbal Motley - Whitney Museum

“Questa è la maxi storia di come la mia vita è cambiata, capovolta, sottosopra sia finita”.

♪Willy Smith


Tanto per continuare la citazione smithiana, apriamo il nuovo capitolo con questa frase reppata dal protagonista nella sigla del celebre telefilm"Il principe di Bel Air" che lo rese famoso fin dagli esordi.

Mito, sogno e realizzazione, sono gli ingredienti per un’America che apre le porte della “possibilità”, che si nutre di entusiasmo e voglia di intraprendenza.

E allora rieccoci da New York, centro delle nuove speranze tra cui sicuramente anche le nostre, per aggiornarvi sulle attività che la città propone, come un meteo in diretta tv.

Il clima è mite, c’è il sole e una sciarpa pesante è sufficiente a sopportare le correnti che soffiano nelle aperte strade di Brooklyn così come nelle traverse di Chelsea.
Dopo un leggero affievolimento del numero degli eventi artistici, dovuto alla preparazione per Art Basel e ancor prima all’avvento del Ringraziamento, le gallerie riprendono la normale attività invadendo le quotidiane newsletter che le App del nostro Iphone ci offrono.
See Saw e Artcards sono, infatti, le agende che ogni mattina consultiamo per organizzare le serata fra i vari opening, incontrando di volta i volta anche “lecture”, molto di moda in questa città, happening e performance.
L’idea di un ipotetico TUTTO rappresenta la quintessenza del mito americano, un’interazione di differenti linguaggi unitamenti rivolti a sottolineare la costante americana: l’epopea del contemporaneo.

Tra gli opening di maggior rilievo quello del candido, macabro e ombroso Marc Ryden.
Padre fra gli altri della Lowbrow, le sue pitture minuziosamente realizzate, intrecciano la cultura americana e la tradizione pittorica occidentale in un immaginario dark, una sorta di fantasioso inconscio, luogo del sogno e territorio alchemico, che ha conquistato i cuori di molti fans scatenando un vero e proprio movimento estetico che ricorda le interminabili code degli ammiratori di alcuni famosi gruppi pop-rock per cui tra l’altro a volte disegna le cover degli album, come ad esempio “Dangerous” di Michael Jackson.
L’altra sera, infatti, fuori dalla galleria Paul Kasmin, una fila di persone con strane acconciature, abitini color pastello o barbe bizzarre, occupavano il marciapiede in attesa dell’apertura della mostra “Hexagon”, pronta ad accoglierli con l’ultima serie di tavole immancabilmente abitate da principessine col ventre squartato, bambine dai lunghi capelli neri e lo sguardo inquietante, creature marine aleggianti in torbide acque.
Abramo Lincoln è idrocefalo; la Barbie è una santa; Cristina Ricci, la principessa gotica del grande schermo, una musa ispiratrice.

Sulla scia “american culture”, ma probabilmente per noi più incisiva e complessa, la mostra di Jim Shaw offre uno sguardo cinico e al limite con l’assurdo sull’iconografia americana e il suo subconscio, riempiendo le sale del New Museum sito nei pressi del tricolore della Little Italy.
Lunghe sequenze di disegni a matita, sciami di quadri e oggetti appesi alle pareti, o enormi scenografie, si destreggiano nell’allestimento molto ben orchestrato di “The end is here” mettendo in risalto l’indubbia abilità tecnica e la mole di lavoro che lasciano lo spettatore stupefatto e avvolto nella caramellosa presenza di nuovi Dei.
La mostra si sviluppa su tre piani del museo creando una sorta di percorso visionario: iniziando dalla maestria di alcuni grandi disegni realizzati con aerografo e grafite, per arrivare in un teatro simil-illustrativo in cui la pittura ha però un ruolo fondamentale.
Al terzo piano dell’edificio, il secondo della mostra seguendo la numerazione del posto, una enorme raccolta di quadri di varia natura, riviste e oggetti di propaganda religiosa, parte di un personale bagaglio dell’artista in cui ogni singolo pezzo è stato acquistato nei mercatini vintage o thrift shop, impongono la propria presenza sottolineando l’attenzione per la totalità del concetto di immagine nella società contemporanea.

Cambiando zona si incontra il Whitney Museum nella nuova sede nel Meatpacking District con una grande collezione di nomi qui autenticamente americani.
L’architettura offre ampi spazi molto luminosi caratterizzati da cristalli, a partire dalla Hall in cui è collocata la biglietteria, e balconate a terrazza da cui si può ammirare la skyline circostante e scorgere in lontananza la Statua della Libertà.
Curatissimo nei dettagli, bello anche il materiale di rivestimento degli ascensori.
Al top floor una bellissima mostra di Archimbald Motley che racconta con la sua pittura il mondo Jazz dell’inizio del novecento, altra componente naturalmente fondamentale dell’ambiente americano.
Di notevole invenzione stilistica, le colorate ambientazioni squillano nelle sale e ci raccontano di serate fumose nei primi club, di feste di quartiere e balli fino a notte tarda, con il sottofondo continuo e poco fugace della musica, la Musica, che in ogni aspetto della vita quotidiana ricopre un ruolo fondamentale.
La pacata compostezza delle figure ritratte in gioventù si scontra a tratti con la vivacità della sapiente pennellata multicolor della maturità.
Inconfondibile lo stile afroamericano chiassoso e rigoroso al tempo stesso, quasi fosse un’armonia aritmica o un solfeggio scomposto.
Il profumo inequivocabile del pianoforte con la tromba ci accompagnano verso l’uscita soddisfatti di così tanta energia malinconica in un tipico sfumato jazz.





































FRUIT SOUP - rubrica newyorkese a cura di Monica Mazzone e Mattia Barbieri