Le opere di Doris Bloom sono concepite come alleate del tempo e dello spazio e il luogo fisso dell'individuo viene inserito in uno spazio pubblico. Ogni giorno è un giorno-Bloom inserito in altri innumerevoli giorni e la storia è infinita, proprio come una frase di James Joyce.
Pur cercando di evitare la dimensione dell'intimità come la peste, Bloom è consapevole che nessuno può sfuggire a se stesso o all'etica sociale. Così gli elementi essenziali delle sue opere sono la memoria e la sua rivisitazione, la tempesta del tempo che trasporta i relitti del passato verso un mare sconosciuto e il corpo che è protagonista e trasmettitore di quella esperienza.
Doris si volge a osservare il suo tempo perduto e lo incamera dentro di sé, in modo oggi molto più soggettivo di prima, nella speranza che il microcosmo di una singola esistenza si possa riflettere nel macrocosmo. Lavorando intorno al passato, si libera e rinasce.
Il punto fondamentale del suo lavoro è ritrovare il paese dell'infanzia, che torna proprio quando nasce l'immagine. Bloom lascia espandere paesaggi famigliari, saturi di colore, in immagini di memoria che prima non si era mai permessa di rievocare. Ciò che ricorda si confonde con ciò che ha represso. Doris pone duri interrogativi che riguardano le sue origini, la sua gente, luoghi e pensieri che oscillano fra la fattoria in Africa e il suo studio a Copenhagen. Il luogo, una volta immobile nel tempo, si confronta con ciò che rimane fissato sulla tela.
Una volta che l'esperienza viene rappresentata, la memoria è denudata agli occhi del mondo. Per Bloom i colori mimano la digestione, la consumazione del cibo e la sua espulsione mentre l'immagine prende forma. La memoria ha qualcosa di animalesco, selvaggio.
Il Sudafrica, nella memoria più profonda, si dipinge col rosso del sangue degli animali che vanno al macello. Negli strati appena superiori alla memoria primordiale, tra la vita e
la morte della fattoria, ecco che scopriamo l'
apartheid, il razzismo, verità così intrecciate alla storia del Sudafrica.
L'opera di Bloom, negli anni, ha sempre affrontato la relazione fra la storia e la natura effimera dell'identità, ha cercato compromessi possibili. Lo sforzo dell'artista di ricostruirsi una nuova vita in Danimarca è stato però influenzato dalle esperienze indelebili della sua infanzia in Sudafrica. Attraverso quella lente, si è compiuta la sua visione del mondo e allo stesso tempo è stata esorcizzata.
Doris Bloom è nata nel 1954 a Vereenigieng, in Sudafrica e dal 1976 vive e lavora tra Copenhagen e il suo paese di origine. Ha partecipato a numerose mostre internazionali e ha rappresentato la Danimarca alla Biennale di Johannesburg del 1995, presentando un progetto insieme a William Kentridge. Si muove tra pittura, fotografia e performance e con le sue immagini indaga tra le fessure, gli spazi vuoti che si formano tra il ricordo e la realtà. Il suo lavoro sull'apartheid, che lei ha vissuto bambina (tra i bianchi), si è sviluppato nel tempo come una serie di frames congelati che immortalano scene di violenza e brutalità rimaste impresse nella sua mente. È voluta la distanza temporale e la lontananza dal luogo dei (mis)fatti per ricostruire quel passato di orrori. La liaison tra Europa e Africa avviene dunque in soggettiva. Bloom racconta così, foto dopo foto, un quotidiano di soprusi e miseria, come in una sceneggiatura di un film (le immagini sono ricostruzioni a posteriori, apparentemente oggettive), una pellicola indelebile appiccicata dentro la sua infanzia. Nei dipinti, il percorso dell'artista si sviluppa sempre intorno agli stessi temi: le trasformazioni della società, la decadenza fisica e morale, le intersezioni tra culture diverse.