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Juliet Anno 33 Numero 162 aprile-maggio 2013



Santiago Cucullu

Antonella Palladino

Come to me



Art magazine


SOMMARIO N. 162

Inchiesta-dibattito

40 | L’arte della sopravvivenza. Indagine sull’impegno etico-civile / Luciano Marucci
56 | Biennale Italia-Cina / Pina Inferrera
Reportage
44 | Videoarte. Da Buenos Aires a Berlino / Emanuele Magri

Intervista
46 | Marinella Senatore. OperAzione Collettiva / Luciano Marucci
52 | Santiago Cucullu. Come To Me / Antonella Palladino
58 | Le Signore ModArt / Luciano Marucci
63 | Factory-Art. London – Berlin / Roberto Vidali
66 | Sarah Ciracì / Maria Vinella
75 | Museion Bolzano / Francesca Agostinelli
78 | Roberto Casiraghi. Roma Contemporary / Pino Boresta
84 | Elisabetta Vezzosi / Serenella Dorigo

Focus
48 | Oreste Zevola. “Eden” / Emanuela Marmo
50 | Crystal world. Cyprien Gaillard / Maria Cristina Strati
60 | Berlinde De Bruyckere / Chiara Longari
62 | Mauro Martoriati. Habemus Expansum / Stefano Cangiano
65 | Elisabetta Bacci / Fabio Fabris
68 | Arte e diritti umani. Premio Giorgetti / Gianfranco Schiavone
76 | Pierpaolo Lista. Essenziale e silente / Mariangela Buoninconti
79 | Peer To Peer. MCDA / Nikla Cingolani

Saggio
54 | Optische Poesie. Peter Klaus Dencker / Enzo Minarelli

Recensione
64 | L’acqua siamo noi. Marcello Mazzella / Eleonora Fiorani
67 | Ciriaca+Erre. Un dono / Alessia Locatelli
69 | RMX - Sintesi ed interferenze. Federico Lanaro / Marzia Bona
70 | Eleanor Heartney. Art as a vehicle / Leda Cempellin
72 | Processo di caduta vs anatomie della terra / Anna Comino
73 | Max Seibald. “Observer” / Boris Brollo
77 | Luigia Granata. Acquerelli stroboscopici / Carmelita Brunetti

Fotoritratto
71 | Gabriele Basilico / Fabio Rinaldi
85 | Andrea Sirio Ortolani / Luca Carrà

Rubrica
74 | Stupidè. Mission impossible 33 years / Giacomino Pixi
80 | Sicilia Mon Amour. Roberta Torre / Martina Di Trapani
81 | P .* Stefano Collicelli Cagol / Angelo Bianco
82 | Ho del museo / Angelo Bianco
83 | Keywords. Creatività e tecnologia / Antonella Varesano

Spray
86 | Recensione mostre / AAVV
89 | El papin: lavoro? / Giacomino Pixi
91 | Matti o artisti / Pino Boresta
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Doubled fence by the ladies jail (dettaglio), 2011, wall painting, pittura ad acqua e palloncini, dimensioni variabili
What I saw taking a leak in the alley by the outhouse, 2011, acquerello su carta, cm 175 x 148
Courtesy Galleria Umberto Di Marino, Napoli, Italy

Collaboration with Ester Partegás. Installation view

Santiago Cucullu, Courtesy Ester Partegás

Sei nato nel 1969 a Buenos Aires, in Argentina, e attualmente vivi a Milwaukee, Wisconsin,  Stati Uniti.La storia dell’anarchismo è un tema ricorrente in molti dei tuoi lavori almeno nelle prime mostre che ti hanno portato al successo. In che modo l’ideologia anarchica ha influenzato la tua stessa idea di arte?
È vero che per una parte del lavoro svolto fino al 2004 ho impiegato elementi catturati dalla vita dei personaggi più importanti nella storia dell’anarchismo. Per alcune delle prime stampe ho usavato immagini di Violet Gibson, Nestor Makhno, Severino Di Giovanni, Rosa Luxemburg e riferimenti a momenti e eventi delle loro vite. A quel tempo stavo combinando immagini d’archivio di questi personaggi storici con sfondi astratti e storie fantastiche. Sono arrivato a questo tema attraverso la lettura di Osvaldo Bayer, che era popolare in alcuni circoli quando vivevo a Buenos Aires nel 1996. Per me i libri erano l’introduzione a una storia dell’Argentina di cui a quel tempo non sapevo nulla.
Mi è sempre piaciuta l’estetica dei manifesti di quel periodo, ma ultimamente mi sono accorto che per molti di noi non c’è un’esperienza comune con queste storie, e le opere potrebbero rimandare a qualcosa di troppo lontano e quindi rimosso. Inoltre ho sempre avuto un’inclinazione verso momenti minuziosamente piccoli che molti di noi condividono. Un esempio di ciò sono gli acquerelli recenti che ho fatto. In particolare “The evils of X-mas”, che è una interpretazione surreale e psichedelica di un volantino di protesta che ho visto a una fermata del bus in Inghilterra. In definitiva, più di ogni pensiero ideologico su ciò che l’anarchismo è o non è, ammiro la passione e lo spirito di dedizione ai diritti umani e al cambiamento politico.

La storia racconta sempre la verità, secondo te? E l’arte può farlo?Penso che l’arte arrivi molto più vicino. L’arte giunge a noi per incidere e incorporare facilmente posizioni molteplici. Ma suppongo che servano l’un l’altra.

Definiresti il tuo lavoro narrativo?
In generale, i lavori iniziano con una struttura narrativa, ma presto si allontanano da questi parametri. Dipende dal pezzo specifico, ma per i wall pieces e le opere che dipendono dall’ambiente in cui sono presentati, lo spazio agisce come un filtro aggiuntivo. Questo fa sì che spesso le opere assumano un carattere più caotico che si spinge contro qualsiasi struttura narrativa. Vedo le opere come un vero e proprio fatto reale. Corrono su un confine stabilito tra astrazione e più tropi figurativi. Ciò che è rappresentato o il suo perché vengono astratti dal lavoro e scaturiscono più dall’incontro, dal guardare o dal muoversi attraverso lo spazio e dal ritrovare insieme questi lavori diversi. Nel classificare i progetti penso spesso a loro come a una playlist o una compilation. I titoli dei lavori in generale descrivono il frutto dell’immaginazione in un’opera particolare. Essi tendono ad agire come segnaposti per il fruitore, offrendo un punto di partenza. Un esempio è il lavoro Green Hell. Questo è venuto fuori da una serie di opere che utilizzano palloncini pieni di vernice, stencil e una serie di istruzioni. In Green Hell, il modello dello stencil si basa su un dipinto di Frank Stella, ma il riferimento è a una canzone della band The Misfits. Uno dei versi della canzone dice: “Like every hell but kind of green”. A me, questa stratificazione di sensi fa ridere. Essa fornisce un’altra linea di pensiero lontana dall’arte e forse allude a un’adolescenza comune a molti.

È difficile giungere a un punto di arrivo nel tuo lavoro: c’è sempre un’idea di caos generata da una sorta di collage di memorie, che attingono sia a elementi autobiografici sia a storie collettive...
Io non ho alcun tema unificante. E ci sono in verità molti riferimenti che tendono a essere contaminati e ulteriormente generati da mie personali associazioni. Tendo a lavorare a progetti in serie che sono generalmente unificati in un piccolo corpo di lavori o una mostra. Penso che questo sia più aderente a una realtà vissuta in cui diversi elementi si scontrano tra loro. Alcuni dei miei primi pensieri su questo erano che i riferimenti vari e stratificati potessero parlare a un sosia immaginario. So che molti artisti lavorano con questo pensiero dello spettatore ideale, ma per me è più di un doppio, o gemello. Un esempio di ciò proviene da un progetto realizzato al Mori Art Museum di Tokyo. Il pezzo coinvolgeva un tavolo da buffet multicolore in plastica appeso alla parete. Era intitolato Come to Me. Anni dopo la realizzazione del lavoro, ero nella periferia di Tokyo, per una residenza. Sono stato contattato da una giovane donna che aveva lavorato nel negozio di souvenir del museo, mentre il pezzo era lì. Quando l’ho incontrata, mi ha spiegato che al momento stava soffrendo per una brutta separazione. Mi ha detto che vedere il pezzo tutti i giorni l’aveva resa fiduciosa e l’aveva fatta sentire molto meglio. Per me questa è una destinazione perfetta. Non direi che si tratta di qualcosa di premeditato, ma questa risonanza emotiva è molto importante per me, ed è ciò che cerco di trasmettere nelle varie opere.

Un altro interesse che compare nei tuoi lavori è quello per i luoghi o le architetture marginali, ma anche soggetti a trasformazione. Questa condizione di transizione cosa rappresenta per te?
Questo è qualcosa che ha preso piede nel corso degli ultimi sette anni ed è diretta conseguenza del vivere a Milwaukee, una “Blue collar town” che per anni è stata in una sorta di stasi economica. Il paesaggio è costituito da edifici che cominciano a fondersi insieme, e tendo a voler creare storie a partire da questi spazi più o meno dimenticati. Un esempio di questo è stato un progetto che ho fatto per il K21 di Düsseldorf. Sono andato in giro per un certo numero di mesi a documentare una serie di murales in città. La maggior parte di questi sono stati commissionati da altri artisti, e anche se alcuni celebrano personaggi storici della zona, alcuni in origine fungevano da annunci pubblicitari. Ho manipolato questi per assemblare una serie di disegni monocromatici che poi sono stati immessi sul muro dello spazio espositivo a Düsseldorf. In questo modo, per circa otto mesi, quello che una persona stava vedendo a Düsseldorf un altro lo stava vedendo a Kinnickinnic Avenue a South Milwaukee. So che non c’era un senso cosciente o una comprensione da parte degli spettatori, ma in ogni caso si stava realizzando una connessione.

Che relazione c’è tra la tua ricerca artistica e l’architettura?
Io sicuramente cerco agganci o racconti di cui gli edifici sono stati spettatori. In passato l’ho fatto attraverso una mappatura di quartieri in cui i radicali argentini o eventi recenti si erano trincerati. Qui a Milwaukee avviene in modo più indiretto. Un esempio è l’aver appreso da un vicino che il mio studio in città era nei pressi di un carcere femminile. Giravo tutto intorno e non riuscivo a trovarlo. Era come se l’edificio fosse invisibile. Alla fine l’ho trovato, ma le mie aspettative sono state completamente distorte. Immaginavo qualcosa alla Dickens, ma in verità era molto poco spettacolare, quasi banale. Nella mia mente avevo già evocato un look per esso e una storia basata in parte su una vecchia canzone irlandese “The auld triangle” Nulla del carcere effettivo si conformava a questo così mi sono concentrato sulla recinzione che lo circonda: la natura organica e caotica della vernice gettata imprime sé stessa sulle pareti della galleria, e si comincia a sentire come se il recinto fosse lì da tutto il tempo e fosse stato scoperto solo attraverso l’azione del lanciare palloncini pieni di vernice.

Il wall drawing nato per la mostra The creaky shaft a Napoli è ora esposto presso la Stazione della Metro Aversa Ippodromo. Cosa cambia passando dallo spazio privato della galleria a quello pubblico? Qual è lo spazio ideale per le tue opere?
In generale, le mie opere sono concepite per uno spazio chiuso. Privato o pubblico non è così importante. Uno spazio ideale per me è anche uno in cui posso fare una connessione con lo spazio per un tempo più lungo. Questo è il modo in cui io tendo a pensare ai wall piece: che io possa lasciare una traccia del mio mondo interiore su quello esterno.

Nelle mostre degli ultimi anni appare calato l’interesse per la “storia”. La tua attenzione su cosa si sofferma maggiormente in questo momento?
Consapevolmente ho iniziato ad allontanarmi dalle figure e dagli eventi storici negli ultimi anni. La ragione principale è che ho sentito la necessità di utilizzare le esperienze vissute come materiale principale per il mio lavoro. Allora ho voluto pensare alla possibilità di utilizzare elementi e storie che fossero più vicini a me. Raccogliere storie di amici, o lavorare in rapporto diretto con gli amici per fare un lavoro. Un esempio di questo sono due collaborazioni con lo scrittore argentino Martin Ayos, e recentemente una installazione in collaborazione con l’artista Ester Partegàs. Lo scorso maggio ho iniziato a produrre un programma radio Internet con il mio amico Chuck Quarino. Abbiamo realizzato registrazioni di rumori e abbiamo fatto alcune performance, utilizzando il nome “Ching-Suru”.

Dall’abilità calligrafica dei ricami realizzati con il taglierino che rifinivano i tuoi wall piece al lancio del colore quasi da gruppo Gutai, come spieghi quest’evoluzione? Mi riferisco in particolare alle mostre del 2011 The Chosen Few a Napoli e The Outhouse a Milwaukee.
Penso che questo derivi dal tentativo di mettere insieme immagini e allo stesso tempo, creare vincoli formali durante la realizzazione delle opere che si riferiscano a una forma al di fuori del fare artistico. Nel caso della mostra di Napoli, volevo vedere se riuscivo a usare palloncini pieni di vernice che sono spesso utilizzati in atti di vandalismo, per fare pittura. Realizzare qualcosa usando questo mezzo più o meno reattivo.

Perché è bello lavorare con le gallerie italiane?
Beh, lavorare con Umberto e Maria della Galleria Umberto Di Marino è stata una fortuna. Sono davvero orgoglioso di essere associato a loro e agli artisti che rappresentano.


ANTONELLA PALLADINO vive a Trento e svolge l’attività di critico e curatore. Fondamentali le esperienze presso il Mart, la Fondazione Morra e le Gallerie Umberto Di Marino e Paolo Erbetta.