A l f r e d o   J a a r

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Una cosa che ha destato il mio interesse quando ho ricevuto l’invito a tenere questa conferenza è che la serie si intitola La Generazione delle Immagini, poiché ho lavorato con le immagini da vent’anni, ma negli ultimi due ho smesso di usarle. In questo momento sto attraversando una fase molto pessimistica nei confronti del potere delle immagini. Ritengo che oggi non si possa aver fiducia nell’immagine, non si possa più credere all’immagine.
Ce ne sono troppe. Io le temo.
Vi mostrerò quindi alcuni progetti a partire dal 1986; cinque o sei progetti pubblici che intervengono nel tessuto urbano e collegano la città con il cuore dell’istituzione - in questo caso con il museo. E concluderò con il mio lavoro più recente. Infine ritengo che il contesto sia tutto, quindi per la maggior parte dei progetti inizierò mostrando alcune diapositive del contesto e spiegando alcuni dettagli precedenti al progetto stesso, in modo da ridare un significato ad ogni cosa.

Rushes (Fretta/Corsa all’oro)

Questa è una miniera aurifera nel centro dell’Amazzonia in Brasile.
Lo scavo che vedete qui è stato fatto con le mani di chi ci ha lavorato. Lo scavo è stato fatto senza una sola macchina. Quelli che vedete sono i tubi che portano l’acqua al fondo della miniera. Il governo brasiliano ha deciso di non invitare una multinazionale a lavorare, sebbene sapesse che procedendo in questo modo probabilmente si spreca il 60% dell’oro. Ma così saranno almeno in 100.000 ad avere un lavoro. Ho trascorso qui alcuni giorni; sono arrivato senza un copione preciso e ho prima chiacchierato con la gente, poi dopo qualche giorno ho cominciato a scattare delle foto. Solo una volta che sono diventato invisibile comincio a scattare le foto. Ciò che vi mostro ora non è esattamente la mia opera, è il materiale di documentazione prima di realizzare il progetto vero e proprio. Metà del mio lavoro è simile a quello del fotoreporter che va in una località e scatta delle fotografie raccogliendo informazioni. Ma queste immagini non sono mai vendute come fotografie e non vengono mai stampate nelle riviste o sui giornali, né mostrate come foto, appese alla parete. In effetti, se scatto migliaia di fotografie è proprio perché non sono un fotografo. Penso di rispettare l’immagine a tal punto che spero sempre, quando faccio cinquemila scatti, che almeno uno o due siano buoni.
Questa fotografia mi piace moltissimo per il modo in cui il soggetto mi guarda, e per il buco nella sua maglietta in corrispondenza del cuore. Ma è proprio lo sguardo, il modo in cui guarda il fotografo, guarda me, guarda voi, che mi interessa. Quello sguardo dice: “Sono forte, magari il mio aspetto è di un miserabile, ma sono forte”.
Questa è l’ultima parte dell’intero processo, qui il minatore cerca l’oro. Ed ecco l’oro, che poi deve vendere al governo brasiliano, che glielo pagherà al prezzo di mercato, detraendo però una commissione.
Questa è una stazione della metropolitana di New York City: ho affittato l’intera stazione della metropolitana e ho esposto ottantuno manifesti della miniera d’oro. In questa stazione alcuni convogli si fermano ma altri no, quindi in qualche caso volevo esprimere la nozione di movimento che viene dall’immagine stessa. E ogni sei o sette spazi ho inserito il prezzo dell’oro nei vari mercati nel mondo. Questa linea della metropolitana va dalla zona residenziale di New York City a Wall Street, che è una delle borse principali del mondo.
Volevo quindi collegare il lavoro di questi minatori nel centro dell’Amazzonia, in Brasile, con la realtà della gente che va a lavorare a Wall Street. Ho creato dei collegamenti tra le immagini e la stazione della metropolitana. Dove c’era un portarifiuti, per esempio, ho collocato immagini di rifiuti. Ho usato un linguaggio cinematografico.
Qualche volta ho usato delle inversioni, o delle ripetizioni. E ho cercato di infrangere tutte le regole della pubblicità: per esempio mettevo un piccolo manifesto sopra a uno grande. E ho controllato anche la qualità delle immagini togliendo tutti i gialli, i rossi e i blu, così le immagini sono diventate color porpora, per eliminare ogni possibile lettura esotica delle immagini. Poiché la stazione è molto lunga, non ho raccontato una storia, ma ho cercato di raccontare varie storie in spezzoni diversi, perché i passeggeri possono scendere dal treno in qualsiasi punto della stazione. A New York vige una legge che proibisce a chi fa pubblicità di acquistare un intero spazio solo per sé, quindi mi hanno dato degli spazi per i manifesti, ma gli orologi sono rimasti appannaggio delle sigarette Marlboro.
Talvolta facevo il gesto poetico di ripetere l’immagine cambiando il colore.
Fondamentalmente con questo progetto volevo creare un parallelo tra la vita della gente che sta a New York e lavora nella metropolitana, che ha la connotazione di essere un luogo pericoloso, con un’altra situazione che si verifica in un altro paese, e mostrare che questi collegamenti sono veri ed esistono realmente.

A Logo for America (Un logo per l’America)

Si tratta di un progetto a Times Square, a New York, che utilizza un’insegna denominata Spectacolor, posta sotto l’insegna della Minolta. Il mio progetto consiste in un film che dura un minuto e che è stato presentato ogni sei minuti, ventiquattro ore al giorno, per un mese.
Comincia con la cartina degli Stati Uniti. Il progetto è collegato al fatto che io sono nato in Cile e quando sono arrivato a New York mi sono reso conto che tutti dicono sempre “America”, ma dicendo “America” si riferiscono agli Stati Uniti e non a tutto il continente.
Quindi questa immagine resta visibile per sette secondi e dice “Questa non è l’America”.
Ed è stato calcolato che in un mese l’hanno vista un milione di persone. Poi compare la bandiera degli Stati Uniti e la scritta “Questa non è la bandiera americana”. Poi la parola “America” riempie lo schermo e la lettera “R” al centro si riempie, le due parti, il semicerchio e il triangolo ruotano lentamente verso sinistra diventando l’America, il continente. Resta così per altri sette secondi e la parola “America” scompare completamente dallo schermo. Poi le parti tornano al centro dello schermo come un unico continente che comincia a girare. In questo modo il nord diventa sud e il sud diventa nord e l’asse è l’America Centrale. E la parola “America” va su e giù da sinistra a destra. Poi si ferma tutto per altri sette secondi sulla parola “America”.
L’avvenimento è stato citato in quasi tutti i quotidiani e i periodici e molti programmi televisivi ne hanno riferito; in un programma radiofonico trasmesso in tutti gli Stati Uniti (National Public Radio) il giornalista che è uscito per il servizio ha intervistato la gente per la strada chiedendo il parere sul progetto e la metà degli interpellati ha detto “È contro la legge, come può fare una cosa del genere?”

Museum Questa è la capitale degli Stati Uniti, Washington, e la strada principale è chiamata The Mall, e da un lato c’è il Campidoglio dove ha sede il Senato.
All’altra estremità del Mall c’è il Monumento a Washington. Questo viale, The Mall, è fiancheggiato da edifici molto importanti. Uno di essi è questo museo, il Museo Hirschhorn.
Sono stato invitato a tenere una mostra e nell’analizzare il museo mi sono reso conto subito che aveva una struttura da bunker. È anche circondato da pareti molto alte, con telecamere per la sorveglianza; si tratta di una struttura molto, molto pesante. Questo museo risponde all’idea che la maggior parte delle persone ha della cultura negli Stati Uniti, ossia che la cultura e l’arte devono essere conservate in un luogo assolutamente sicuro, completamente isolato dal resto del mondo.
Questa immagine mostra che cosa stava succedendo a Washington quando ho cominciato a lavorare per la mia mostra. Era una celebrazione del ritorno dei cosiddetti eroi, dopo la cosiddetta Guerra del Golfo. La Guerra del Golfo è il nome che è stato dato a quell’orrore avvenuto in Iraq, un vero e proprio massacro. Le stime parlano di 100.000 civili uccisi senza che se ne sapesse nulla, e come ricorderete, tutto quello che la stampa ci mostrava erano dei video game. Ancora una volta qui vediamo la facciata del museo verso The Mall. Il museo ha un’unica finestra e questa è la stanza dove volevo realizzare il mio progetto, perché è il solo spazio in ci posso collegare il mio lavoro con il mondo esterno.
Questo è ciò che si vede dalla finestra del museo: l’Archivio di Stato — qui è custodita la costituzione — il Ministero della giustizia e l’edificio sede dell’FBI.
Per prima cosa ho dipinto tutta la finestra di vernice grigia lasciando solo sei piccole aperture quadrate che danno verso l’esterno. L’idea era di chiudere ancora di più questa unica finestra in modo da mettere meglio a fuoco la presentazione. Sotto ogni apertura ho collocato un piccolo specchio e davanti a ogni specchio ho previsto un visore luminoso con un testo sul lato anteriore e un’immagine su quello posteriore. Vedendo la stanza da una certa distanza notate solo la parola “MUSEUM”. Ho usato un carattere molto classico con la “U” che sembra una “V”. Avvicinandoci al locale cominciamo a guardare la finestra e vediamo il riflesso dell’immagine nello specchio. Nella prima guardiamo fuori verso l’edificio della FBI e all’interno vediamo un’immagine di una vittima della cosiddetta Guerra del Golfo. E così di seguito con altre aperture: fuori l’Archivio di Stato, dentro un’altra vittima.
Ho contattato 37 agenzie fotografiche alla ricerca di immagini di vittime della Guerra del Golfo. Sono riuscito a trovarne solo qualcuna. Quindi in questo progetto volevo collegare l’esterno che è stato testimone di questa oscena celebrazione di un massacro, con una realtà ben diversa all’interno.

The Aesthetic Resistance (L’estetica della resistenza)

Questo è un museo di Berlino, chiamato Museo di Pergamo. Il Museo di Pergamo è stato costruito appositamente per ospitare questo altare, chiamato Altare di Pergamo. E il fregio attorno all’altare è stato eretto di fronte, tutt’attorno al museo. Pertanto la ricostruzione è assolutamente falsa perché in origine il fregio faceva parte dell’altare e non si trovava di fronte ad esso. Il governo turco reclama questo altare ormai da vent’anni, perché gli appartiene. Queste sono finestre di fronte all’altare.
Ho vissuto un anno a Berlino in quel periodo e mi sono reso conto di una grossa contraddizione: da un lato c’era molto razzismo contro gli immigrati, per lo più immigrati turchi, e nello stesso tempo mi aveva molto colpito la scoperta di un museo costruito appositamente per venerare un elemento della cultura turca. Ho creato un’installazione con insegne al neon e quattordici nomi di località dove nell’anno precedente si erano verificati attacchi contro gli stranieri. Era la prima volta che consentivano a un artista di utilizzare i gradini dell’altare. A Mölln, per esempio, una donna turca era morta con le due figlie a causa di un incendio appiccato dagli skinhead. A Rostock un gruppo di skinhead aveva attaccato un centro di soccorso e raccolta per rifugiati, e c’è voluta una settimana prima che la polizia finalmente intervenisse. Era quindi una specie di memoriale delle vittime di questo razzismo. Ho utilizzato anche le finestre su questa parete: ho collocato fotografie in bianco e nero dei dettagli del fregio e dei dettagli di violenza viva e reale perpetrata fuori dal museo. Così, per esempio, qui c’è un dettaglio di un gruppo di skinhead che si riconoscono per il modo in cui sono vestiti, per i pesanti stivali neri; poi ho messo tutto questo all’ingresso del museo. Qui c’è un’immagine di violenza sul fregio, questo è un piede sopra una faccia — il dettaglio è preso dal fregio. Questo progetto è stato oggetto di grande attenzione da parte dei mezzi di comunicazione tedeschi e queste parole sono diventate il segno di qualche cosa di molto importante mentre le immagini sono state pubblicate da tutti i quotidiani. Ecco il caso di un progetto pubblico in uno spazio pubblico in cui il lavoro circola attraverso i media.

Europa

Questo è un museo di Stoccarda. Mi hanno assegnato due spazi ma ho lasciato il primo completamente buio, come una specie di anticamera per raggiungere il secondo locale.
Questo pezzo si chiama Europa e riguarda la guerra in Bosnia e l’indifferenza dell’Europa verso le sofferenze della Bosnia. L’ho fatto in Germania perché concordo con una scuola di pensiero secondo la quale, in parte, la colpa dell’inizio di questa guerra ricade sulla Germania, per il suo precoce riconoscimento della Croazia. Come vedete ci sono sei piccoli visori con immagini del fuoco davanti e immagini dall’altro lato che si riflettono in trenta specchi. Queste immagini di incendio danno l’idea della pulizia etnica, ma sono anche molto belle e affascinanti perché voglio che la gente venga più vicino in modo da trovarsi di fronte all’orrore. E poi spostandoci davanti agli specchi ci troviamo faccia a faccia con i riflessi che arrivano dall’altro lato dei visori. Dobbiamo impegnarci fisicamente per vedere, altrimenti non ci riusciamo. E le immagini che vediamo sono sempre invertite, frammentarie, parziali. Non possiamo comprendere la realtà nel suo insieme e nella sua complessità. Ecco le mani di un uomo che ha appena sepolto il fratello e mostra alla macchina fotografica le mani vuote. Come esempio del funzionamento dello specchio, ecco quello che vedete guardando l’immagine da qui (occhi) e spostandovi invece verso destra, per vedere questo (tutto il viso). Oppure qui vediamo questo (mani) e avvicinandoci, vediamo questo (facce). Ecco queste due donne molto anziane che cercano di aiutarsi a vicenda per attraversare una strada completamente distrutta. Come potete vedere ho utilizzato immagini di mani, mani tremanti, mani vuote, mani come segno di solidarietà che non è mai arrivata dal resto dell’Europa.
Contemporaneamente a questa installazione all’interno, ho realizzato un progetto pubblico all’esterno. Questo è un manifesto di dieci metri che dice: “Le immagini hanno una religione che anticipa i tempi, esse seppelliscono la storia”. Ci sono anche cinque bandiere della Comunità Europea, a mezz’asta in segno di lutto.
In Germania quando il lutto è molto importante si appende un telo nero ai lati della bandiera. Data la grande visibilità del progetto pubblico centinaia di persone hanno chiesto al museo chi fosse morto. E la segreteria del museo rispondeva: “Trecentomila persone in Bosnia”.

One Million Finnish Passport (Un milione di passaporti finlandesi)

I tre paesi scandinavi Svezia, Norvegia e Danimarca sono i più generosi nell’aiuto ai paesi in via di sviluppo. Ogni anno sono sempre i tre primi donatori nella classifica per i programmi sociali e di aiuto. Negli ultimi dieci anni hanno accolto un milione di rifugiati che sono diventati cittadini di questi paesi. Ma questo progetto si svolge a Helsinki, Finlandia, al Museo di Arte Contemporanea. Mi ha colpito scoprire che la Finlandia è completamente diversa dagli altri paesi scandinavi. I finlandesi hanno quella che definiscono una “politica a immigrazione zero”. Per ironia nell’anno in cui ho presentato questa mostra la Finlandia stava richiedendo di entrare nella comunità europea, così ho ideato questo progetto denominato “Un milione di passaporti finlandesi”. Come vedete i passaporti sono dietro un vetro di sicurezza perché le autorità hanno preteso che la gente non potesse accedervi.
L’installazione misura circa dieci metri per dieci per ottanta centimetri di altezza. E perché un milione? Ho calcolato che in ogni paese europeo il venti per cento circa della popolazione è composto da stranieri o persone di origine straniera.
La Finlandia ha cinque milioni di abitanti, quindi il venti per cento sarebbe un milione.
Come forse saprete la Finlandia è un paese molto ricco con un territorio vastissimo.
Con la mia proposta volevo porre i seguenti quesiti: chi saranno il prossimo milione di cittadini finlandesi, ora che stanno per entrare a far parte della comunità europea? Vogliono restare isolani e isolati, oppure vogliono accogliere sul loro territorio facce nuove, idee nuove, colori nuovi? L’illuminazione è stata studiata in modo tale per cui ci si vede riflessi leggermente nel vetro, così si vedono i passaporti attraverso la propria immagine.
Questa immagine mi piace moltissimo, è una specie di mare dell’identità in attesa di essere colmato. L’eco sulla stampa è stata notevole e le reazioni non sono mancate.
La reazione più sconvolgente è stata quella di alcune persone che sono tornate al museo con i loro passaporti e li hanno gettati al di là del vetro in segno di solidarietà.

Camara Lucida (Camera chiara)

Questa è Catia, a Caracas, Venezuela, e questo è un nuovo museo che era in costruzione quando sono stato invitato a realizzare un progetto per la sua inaugurazione.
Questo museo si trova a Catia, la zona più povera della città di Caracas, una zona urbana priva di istituzioni e strutture culturali. Tutte le case che vedete sono state costruite dagli abitanti, con le loro mani.
Hanno cominciato a costruire il museo in un parco e nel parco, accanto al museo in costruzione, c’era già un edificio sinistro che ospitava un carcere, una delle peggiori prigioni dell’America Latina. La comunità locale ha chiesto per vent’anni al governo di Caracas di demolire il carcere perché, tra le altre ragioni ovvie, i prigionieri gettano oggetti e urlano frasi oscene ai bambini nel parco. Ma invece di eliminare il carcere, hanno deciso di costruire un museo nel parco. Questa è una zona molto popolare e poverissima. La maggior parte delle attività commerciali si svolge quotidianamente nelle strade. Sono stato invitato a realizzare un progetto speciale per l’inaugurazione del museo, un museo che era rifiutato in blocco dalla comunità di Catia. Avrebbero preferito un complesso sportivo. Ho creato un progetto denominato Camara Lucida (Camera chiara) in omaggio a Roland Bathes e in omaggio alla lucidità della gente di Catia che ha accettato di partecipare.
Questo è il primo giorno del progetto. Sono qui per parlare con un gruppo di madri della comunità di Catia e per spiegare il mio progetto. Abbiamo organizzato un gruppetto di sei persone per aiutarmi a distribuire agli abitanti di Catia mille apparecchi fotografici usa e getta. Siamo stati in trentasette istituzioni locali diverse, ospedali, scuole, ecc., per distribuire le macchine fotografiche e spiegare il progetto. Abbiamo invitato la gente di Catia a fotografare la loro comunità, gli amici, i genitori, la scuola, in assoluta libertà.
Abbiamo chiesto che restituissero l’apparecchio fotografico, una volta terminato il lavoro, consegnandolo presso un piccolo ufficio allestito allo scopo, non proprio nel museo ma accanto, per la resistenza registrata nei confronti del museo stesso.
Questo è il giorno dell’inaugurazione. Mi è stato assegnato tutto il secondo piano. Questa immagine è di Rosa Morillo. Una volta restituito l’apparecchio fotografico abbiamo lasciato loro dieci giorni di tempo per tornare e scegliere le stampe, ma al momento del ritiro delle stampe abbiamo chiesto loro di sceglierne una che avrebbero voluto vedere esposta all’inaugurazione del museo. Volevo aprire la mostra con questa immagine che suggerisce un nuovo schema di riferimento. Vediamo poi una seconda immagine e passiamo al secondo piano. Arrivati al secondo piano la prima cosa che si vede sono i nomi di tutti partecipanti, e sulle due pareti laterali vediamo Catia. Quando abbiamo distribuito i mille apparecchi fotografici ci aspettavamo di vederne tornare forse un centinaio e io ho pensato che se ne avessi visti tornare un centinaio avrei fatto la mostra. Ma su mille macchine fotografiche ne sono state restituite settecentocinquanta.
Qualche settimana dopo soltanto quattrocentosette persone sono tornate per scegliere la loro immagine migliore. Così la mostra si è inaugurata con quattrocentosette fotografie scattate e scelte dalla gente di Catia.
Non sono riuscito a resistere alla tentazione di fare anch’io qualche cosa e ho creato questa scultura con le carcasse delle macchine fotografiche e la scultura è stata denominata The Eyes of Catia (Gli occhi di Catia). Abbiamo dedicato una parete alla spiegazione del progetto per il pubblico e ai ringraziamenti alle istituzioni che ci hanno aiutato nella realizzazione. Abbiamo anche messo in mostra gli apparecchi fotografici con le relative etichette.
Non avevamo fondi a sufficienza per far stampare tutte le fotografie nello stesso formato così ho utilizzato quattro formati diversi da 150, 100, 30 e 20 centimetri. Io ho solo progettato una sorta di griglia per inserire tutte le immagini che però sono tutte disposte casualmente, senza che io avessi fatto una selezione tra le buone e le meno buone. Ogni immagine è incorniciata con il vetro e completata dal nome del partecipante. L’idea del progetto era di offrire alla comunità l’occasione per conquistare questo spazio, per appropriarsi delle pareti di questa istituzione che veniva loro imposta.
Dopo la mostra la comunità ha potuto far entrare due suoi membri nel consiglio dell’istituzione. Come vedete sono appese in modo casuale quindi qualche volta ci sono ritratti bellissimi e poi magari l’immagine di una montagna di rifiuti in una strada di Catia. Ora vi mostro alcuni primi piani di qualche immagine ripresa direttamente dalla gente di Catia, poi leggerò i loro nomi.
Victor Herrera. La Prigione di Oswaldo Yanez. Questa è la carenza di servizi a Catia di Jimmy Alcides. I problemi dei senza tetto di Vicki Carrasquez. Catia è la sola zona della città in cui ci sono dei senza tetto. Questo è Ronald Rosada che si è costruito una piccola struttura sopra il letto. Queste sono di Franca Capobianco, Douglas Yerxis, Jose Riva, Domingo Gonzales.
All’inaugurazione cercavo le persone che avevano partecipato e le ho fotografate accanto al loro lavoro. Questa è una mamma con il figlio e il figlio è ritratto qui con la maglietta azzurra. Quest’altro bambino ha fotografato la sorella con in mano un macchina fotografica.
La ragazza che vedete qui non ha scattato la foto ma era nella fotografia e voleva posare per me così eccola qui. Quest’ultima immagine è di Alejandro Chivdathe, ed è una delle mie preferite. Lo si vede mentre tira un pallone da calcio al fotografo, un pallone che è il simbolo del centro sportivo che avrebbero preferito avere, quindi lo fa con rabbia ma nello stesso tempo il suo gesto è completamente impotente.

Real Pictures (Immagini vere)

Questo è il lavoro più recente che ho realizzato e in questo progetto ho concentrato le mie forze degli ultimi due anni: riguarda il genocidio in Rwanda.
Questo è il testo proiettato sullo schermo all’ingresso del museo: “Genocidio: atti commessi nell’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. “Se il genocidio è una possibilità reale del futuro, allora nessun popolo della terra può sentirsi ragionevolmente certo di continuare ad esistere senza l’aiuto e la protezione delle leggi internazionali”. Hannah Arendt. “Il 6 aprile 1994 l’aereo che trasportava il presidente rwandese Juvénal Habyarimana fu abbattuto sopra Kigali. Nelle dieci settimane che seguirono quello che accadde fu un genocidio. Si ritiene che almeno un milione di persone sia stato ucciso. Altri due milioni hanno cercato rifugio in Zaire, Burundi, Tanzania e Uganda. Altri 2 milioni circa sono stati dispersi in varie zone del Rwanda. Il mondo ha finto di non vedere le uccisioni perpetrate sistematicamente.
Infatti la prima reazione delle Nazioni Unite ai massacri fu di approvare la Risoluzione 912 il 21 aprile, riducendo il contingente delle forze dell’ONU da 2500 a 270 unità. Quando furono inviate truppe di paracadutisti francesi e belgi l’intento era solo quello di permettere l’evacuazione di tutti gli stranieri senza ulteriori traumi. La ragione principale per cui la comunità internazionale non intervenne subito fu dovuta alla non volontà da parte europea e americana di impegnarsi in modo massiccio in un’area priva di interesse strategico.
L’attenzione dei mezzi di comunicazione fu infine catturata dall’esodo di massa verso i campi per rifugiati. Escludendo opportunamente discorsi di genocidio, Washington e il resto del mondo promisero di reagire di fronte al disastro umanitario dei campi. Colera e dissenteria si portarono via decine di migliaia di profughi, ma era solo una frazione del presunto numero di vittime del genocidio: un milione di individui.
Alfredo Jaar ha visitato Rwanda, Zaire e Uganda nell’estate del 1994.
Questa mostra è il risultato del suo viaggio”. “Le immagini hanno una religione che anticipa i tempi, esse seppelliscono la storia”. Vicenc Altaio.
Questa mostra presenta più di cinquecentocinquanta fotografie ma sono tutte incasellate in scatole nere da archivio fotografico. Era uno spazio molto buio, quasi religioso, con un gran silenzio. Con queste scatole, usate come modulo, ho creato questi monumenti quasi a farne un memoriale per il popolo del Rwanda. La logica che sta dietro a questo lavoro è la seguente: penso che siamo bombardati da troppe immagini, non le vediamo più. I mezzi di comunicazione ci danno l’impressione di essere presenti ma quando spegniamo il televisore o chiudiamo il giornale ci resta un incredibile senso di assenza. Qui allora ho voluto lavorare al contrario, volevo cominciare con un’assenza nella speranza di provocare una presenza. La logica del discorso era: dimentichiamo tutto per un secondo e ricominciamo da zero. Cominciamo dall’inizio e pensiamo al significato di una vita e di una morte. La logica era che venivamo bombardati da immagini del Rwanda ma ovviamente non le vedevamo perché non abbiamo fatto nulla. Allora ho pensato che rinchiudendole dentro alcune scatole magari si vedranno meglio. Leggerò un esempio: “Chiesa di Ntarama, Nyamata, Rwanda, lunedì 29 agosto 1994. Queste fotografie mostrano Benjamin Musisi, 50 anni, rannicchiato nel vano di ingresso della chiesa tra corpi sparsi, buttati a terra nella luce forte del giorno. 400 uomini, donne e bambini Tutsi che erano venuti qui a cercare rifugio sono stati massacrati durante la messa domenicale.
Benjamin guarda diritto verso l’obiettivo come se volesse registrare quello che l’apparecchio fotografico aveva visto. Ha chiesto di essere fotografato in mezzo ai morti. Voleva dimostrare ai suoi amici a Kampala, in Uganda, che le atrocità erano vere e che aveva visto le conseguenze”.
Qualche volta alla fine di una sequenza, come in questo caso, vado in una direzione più soggettiva, e quasi poetica come: “Scattata cinque secondi dopo questa immagine mostra un bel cielo azzurro, uno scorcio delle cime degli alberi e una nuvola bianca perfetta sospesa sopra la chiesa. Il fetore della morte è lento a svanire”.
Accanto alla mostra avevamo una saletta dove mostravamo che cosa aveva fatto la stampa con queste informazioni. C’erano libri sull’Africa, pubblicazioni delle ONG a disposizione di chi ne volesse prendere una copia, per aiutare il lavoro delle ONG in Rwanda, e c’erano molte riviste. Abbiamo offerto una spazio aperto ai commenti sulla mostra.
Questa è solo la prima settimana. Ecco alcune riviste: Africa Report: “Rwanda: Troppo poco? Troppo tardi?” Altra rivista: Media Critic. Articolo di copertina: “Mancato massacro”. The New York Times Magazine con un servizio di Sebastiao Salgado: “Il killer della tenda accanto” e come sottotitolo “L’orrore surreale dei rifugiati in Rwanda”. Non è surreale. Ecco vari resoconti di Amnesty International e di altre organizzazioni per la tutela dei diritti umani.
Questo progetto, intitolato Immagini vere è il progetto cui facevo riferimento quando dissi che mi aveva interessato il titolo La Generazione delle Immagini, perché qui, come avete visto, ho un problema reale con le immagini. E dopo questo progetto sono rimasto fermo per un anno, ero arrivato a un punto di svolta, perché per vent’anni sono andato in vari luoghi e ho fotografato cose e ho mostrato immagini con il mio lavoro, ma ora ho cominciato a nasconderle.

The Eyes of Gutete Emerita (Gli occhi di Gutete Emerita)

Vi mostrerò ora il mio ultimo progetto, sempre relativo al Rwanda.
Dovete attraversare l’atrio e poi girare a sinistra per arrivare nello spazio a mia disposizione.
Questa è una parete nera con una riga di testo bianco lunga 8 metri. Il testo è dentro la parete ed è illuminato: la luce passa attraverso il testo. Così la gente entra e cammina per otto metri molto lentamente in modo da leggere ed entra in un’altro locale. Il testo recita: “Per cinque mesi nel 1994 più di un milione di rwandesi, per lo più membri della minoranza Tutsi, sono stati sistematicamente trucidati mentre la comunità internazionale ha chiuso gli occhi davanti al genocidio. Le uccisioni erano in gran parte opera di milizie Hutu, armate e addestrate dai militari Hutu. A seguito di questo genocidio milioni di Tutsi e di Hutu sono fuggiti in Zaire, Burundi, Tanzania e Uganda. Molti restano ancora nei campi per i rifugiati, nel timore di nuove violenze che li attendono al rientro a casa. Una domenica mattina in una chiesa di Ntarama, 400 Tutsi, uomini, donne e bambini sono stati ammazzati da uno squadrone della morte Hutu. Gutete Emerita, 30 anni, stava assistendo alla messa con la famiglia quando è iniziato il massacro. Le hanno ucciso davanti agli occhi a colpi di machete il marito, Tito Kahinamura, 40 anni, e due figli, Muhoza di 10 anni e Matirigari di 7.
In qualche modo Gutete è riuscita a fuggire con la figlia Marie Louise Unumararunga di 12 anni. Sono rimaste nascoste in una palude vicina per 3 settimane uscendo solo di notte in cerca di cibo. Gutete è tornata alla chiesa nella boscaglia perché non aveva altro posto dove andare. Quando parla della famiglia che ha perduto indica con i gesti i cadaveri per terra, che si decompongono al sole dell’Africa. Ricordo i suoi occhi, gli occhi di Gutete Emerita”. Così la gente deve camminare lungo la parete, legge il testo e poi passa nella stanza accanto. Questo è un tavolo luminoso di 6 metri per 6 metri, su cui si trovano un milione di diapositive. Un milione perché cercavo una metafora del milione di morti, e questa mi sembra una fossa comune. Quando vi avvicinate al tavolo luminoso vi rendete conto che è sempre la stessa immagine ripetuta un milione di volte. L’immagine mostra gli occhi di Gutete Emerita. Si può prendere una diapositiva e guardarla con una lente come si vede qui. Mi interessano gli occhi del pubblico a un centimetro dagli occhi di Gutete Emerita. Voglio far capire qui che i suoi occhi hanno fatto da telecamera in grado di vedere qualche cosa che non potevamo vedere. Il punto è: Come superare il vuoto tra i nostri occhi e i suoi? Per la serie di presentazioni alla conferenza La Generazione delle Immagini vorrei concludere con questi occhi, gli occhi di Gutete Emerita. Molte grazie.

Domande del pubblico:

Vorrei sapere come trova degli sponsor o come finanzia il suo lavoro?

All’inizio della mia carriera ho accettato tutti i sussidi e le borse di studio possibili. Poi, una volta raggiunto un certo livello come artista, le istituzioni hanno cominciato a invitarmi e a commissionarmi nuovi lavori. In questo senso mi sento veramente un privilegiato perché sono libero e talvolta ho anche i fondi necessari per svolgere il mio lavoro. Devo dire che le istituzioni non sono monolitiche, e qualche volta al loro interno si riesce a trovare qualcuno, una persona, che crede in te, e che vuole aiutarti a fare il tuo lavoro.

Lei è originario del Cile e ha lavorato per anni negli Stati Uniti. Non intende tornare in Cile e realizzare progetti nel suo paese?

Nei primi cinque anni dopo aver lasciato il Cile ho realizzato molti progetti sul Cile e contro la dittatura. Per questo motivo sono stato censurato nel mio paese fino alla fine della dittatura. Per esempio quando ero qui nella sezione Aperto della Biennale di Venezia nessuno in Cile ha pubblicato nulla in proposito, nemmeno perché ero il primo e solo cileno e latino-americano. Lo stesso è accaduto per Documenta l’anno dopo, quando ero ancora una volta il primo cileno e latino-americano presente con un proprio progetto. Ma ora le cose sono cambiate e abbiamo in programma una grande retrospettiva del mio lavoro da realizzare nei prossimi due anni.

Quali sono i confini tra intervento sociale e arte?

Citerò una frase di Jean-Luc Godard, regista che ammiro molto.
Disse: “Forse è vero che dobbiamo scegliere tra etica ed estetica. Ma è anche vero che qualunque cosa si scelga si trova sempre l’altra alla fine del percorso. Perché la definizione della condizione umana è e la messinscena stessa”. Non vedo alcuna differenza tra etica ed estetica, credo che tutto ciò che facciamo è politica. Il termine “arte politica” è stato usato come un’etichetta per emarginare un piccolo gruppo di artisti che hanno qualche cosa da dire contro il sistema.
Di norma rifiuto sempre di partecipare quando mi dicono che si tratta di una mostra di artisti cosiddetti politici. Mi sono sempre sentito eccezionalmente privilegiato come persona, perché come artista la società mi ha dato il tempo per riflettere sulla società, per porre dei quesiti e magari anche per cercare la risposta. Ma al privilegio si accompagna la responsabilità. E io penso che oggi il mondo della cultura sia l’ultimo spazio rimasto aperto per fare questo genere di cose. Non soltanto nelle arti visive, ma nel cinema, nel teatro, nella letteratura, nella danza, nella musica.

Quali sono i suoi rapporti con il Terzo Mondo?

Io rifiuto l’espressione “terzo mondo”: il mondo è uno. In altri termini: Siamo società differenti e queste società hanno un diverso livello di sviluppo, in differenti aree di sviluppo.
Per esempio gli Stati Uniti sono al primo posto nel mondo nella tecnologia dei computer.
Noi possiamo affermare che in quello specifico settore gli Stati Uniti sono più progrediti, diciamo, dell’Irlanda. Ma in un altro campo, per esempio la musica, a mio avviso, i paesi africani come il Senegal o il Mali producono musica molto più creativa, molto più stimolante della maggior parte della musica che oggi si fa nel resto del mondo. Possiamo allora dire che la musica del Mali o del Senegal oggi è molto più sviluppata che, diciamo, la musica italiana. Nel mio lavoro cerco di colmare i divari esistenti tra i diversi mondi che sembrano molto lontani ma che sono invece profondamente legati. Cerco di costruire un ponte, di creare dei legami, di metterli in luce. Ma il più delle volte non ci riesco, per questo continuo a lavorare.