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“Il ’Pubblico’ nell’Arte Pubblica”

Questa sera mi soffermerò più a lungo sul pubblico piuttosto che sull’ “arte pubblica”.
Parlerò dell’arte pubblica negli Stati Uniti che ha per tema questioni di natura pubblica e che rivendica spazi pubblici, diversi dalle gallerie o dai musei (e dalle loro emanazioni di natura commerciale e istituzionale). L’arte pubblica a cui mi riferisco ha le sue radici nelle idee e nel carattere di un luogo. Non è un punto di vista individuale e personale, rispecchia, invece, la sensibilità di gruppi sociali e possiede una risonanza culturale più vasta. L’arte pubblica trova il suo impulso originale nelle manifestazioni culturali tradizionali, mentre i suoi concetti e il suo stile sono da ricondurre alla storia e alla teoria dell’arte postmoderne.
È un’arte che ricava i suoi temi dalla vita culturale, economica, sociale e politica della città e si inserisce nella vita urbana. Spiegherò il mio punto di vista analizzando i lavori di artisti presentati in tre mostre che ho organizzato negli ultimi sei anni e che hanno esplorato modalità volte a ritagliare un ruolo più incisivo nella sfera pubblica.
Una delle modalità che ha consentito negli ultimi decenni di erigere un ponte fra l’arte e la vita è costituita dal tipo di installazioni artistiche che, in base alla tipologia e al luogo espositivo prescelto si allontanano dalla solitudine delle gallerie d’arte e si trasferiscono in contesti, talvolta, collettivi. Vorrei illustrare il lavoro che ho commissionato, dieci anni fa a Jannis Kounellis, mentre ero la curatrice del Museo di Arte Contemporanea a Chicago. La sua idea di portare il pubblico nell’opera d’arte trovò espressione nei suoi progetti che si collocavano in quattro luoghi diversi intorno al precedente centro cittadino e non tanto la sua simultanea retrospettiva esibita al museo. La forza dei progetti di Kounellis è da ricercare sia nel tema che nella loro collocazione. Le installazioni, infatti, avevano radici profonde nella storia dell’immigrazione proveniente dall’Europa alla fine dello scorso secolo — una storia che il pubblico conosceva molto bene grazie ai racconti dei propri antenati o perché costituivano esperienze vissute in prima persona.
La storia dell’immigrazione in America dall’Europa è una storia che coinvolge quasi tutti gli americani. I luoghi pubblici dell’artista, gli edifici abbandonati del decennio 1890, erano essenziali per rievocare questa storia e ciascun luogo raccontava un capitolo del passaggio degli immigranti dal vecchio al nuovo mondo: — in un teatro dimenticato all’interno di un club per soli uomini emigrati dalla Germania, i pannelli di acciaio rievocavano il sipario sollevato di un palcoscenico e la storia occultata del passato; — in un edificio industriale, 42 modellini ferroviari si rincorrevano su binari collocati intorno a numerosi pilastri, ricreando, in chiave metaforica, la storia del ferro e la nascita dell’industria . In una stanza attigua, una stampa sul muro raffigurava immagini di immigranti di quel periodo, mentre su una macchina da cucire era stato appoggiato un foglio di carta sul quale era stato disegnato un profilo di giovane donna utilizzando l’ago della macchina da cucire. In questo modo, il rumore dei trenini si trasfigurava nelle nostre menti fino a identificarlo con il suono delle macchine da cucire, rievocando i laboratori di sartoria in cui lavoravano numerosi immigranti del nuovo continente; — in un’altra fabbrica Kounellis creò una sinfonia di luci utilizzando materiali industriali per coprire e articolare la luce proveniente dalle finestre che circondavano lo spazio sui quattro lati; — in un vecchio magazzino, la nota Stanza d’Oro di Kounellis, un lavoro sulla condizione esistenziale moderna prende spunto dalle mitiche strade del nuovo continente lastricate d’oro: il sogno di ogni emigrante.
Attraverso la ricontestualizzazione del lavoro appartenente al passato in questi nuovi luoghi, l’artista ha disegnato un itinerario nella città di Chicago legato alle esperienze, ai luoghi e alle persone che vi abitavano.

Le caratteristiche comuni di tre recenti mostre pubbliche

Analizzerò tre mostre pubbliche che ho curato dal 1991 e che si sono rivolte al pubblico dei luoghi in cui sono state allestite: Places with a Past: New Site-Specific Art in Charleston (Luoghi che possiedono un passato: nuova arte sulla specificità del luogo a Charleston) per il Festival Spoleto USA (1991); Culture in Action: New Public Art in Chicago (Cultura in Azione: la Nuova Arte Pubblica a Chicago) per Sculpture Chicago (1991-1994) e Conversations at The Castle (Conversazioni al Castello) per il Festival delle Arti ad Atlanta in occasione del Centenario dei Giochi Olimpici del 1996. Ognuno di questi programmi aveva alcune caratteristiche comuni: 1. in tutti i casi i progetti degli artisti e l’intero programma sono stati sviluppati in modo organico, all’unisono, confrontandosi e modificandosi reciprocamente durante l’intero percorso; 2. questi programmi rispondevano alle caratteristiche delle città in cui si svolgevano senza trascurare il confronto ideologico ed estetico del momento; 3. i programmi erano indirizzati al pubblico, ovvero a un pubblico che normalmente non si occupa di arte. Al fine di raggiungere questo gruppo, sono stati posti alcuni quesiti: come assicurare l’accesso fisico e intellettuale del pubblico alle opere d’arte; quale arte può assumere un significato importante nella vita altrui; come presentare l’arte in un luogo pubblico invece che nelle gallerie d’arte per accrescerne il significato; e come ritagliare un posto nella società alle opere d’arte che si estenda al di fuori degli ambiti artistici; 4. tutti i programmi richiedevano una revisione dei meccanismi di presentazione dell’arte e dei ruoli degli artisti, del curatore, delle agenzie artistiche, degli sponsor, della critica e del pubblico; 5. tutti i programmi contestavano l’autorità: l’autorità della storia scritta di Charleston; l’influenza dello status quo sociale a Chicago e l’autorità delle convenzioni culturali tradizionali ad Atlanta; 6. avevano tutti l’obiettivo di svelare i nostri pregiudizi sulla tipologia di pubblico che rivolge la propria attenzione all’arte moderna e sulla natura dell’esperienza artistica di quel tipo di pubblico.

Places with a Past

La domanda all’origine di questa mostra fu: la storia di chi? La strategia utilizzata per dare una risposta a tale quesito fu trovata nel tipo di installazione: installazioni impegnative dal punto di vista ambientale in cui la collocazione storica dei lavori avrebbe fatto luce su capitoli taciuti della storia locale. Gli argomenti da trattare all’interno di questi progetti furono oggetto di dibattiti pubblici in luoghi di facile accesso che consentivano ai residenti di avvicinarsi ai progetti senza avere l’obiettivo di vedere una mostra d’arte. Questo programma analizzava, inoltre, argomenti legati alla diversità nella rappresentazione degli artisti e delle tipologie di pubblico. In quegli anni, era un argomento oggetto di intenso dibattito nei musei poiché gli artisti appartenenti alle minoranze si battevano per conseguire la parità con gli artisti di razza bianca nella selezione delle opere da esporre alle mostre. Inoltre costituiva una sfida per le istituzioni la domanda di diversificare il loro pubblico, attirando gruppi appartenenti alle minoranze all’interno di istituzioni elitarie per tradizione. Gli argomenti quali il ruolo dell’artista e il pubblico locale di “Places” rese questo programma molto più che una concessione puramente formale. Qui la storia Afro- americana fu fondamentale per dare un significato del luogo. Questo aspetto è evidente nella mappatura di Houston Conwill del “Middle Passage” (il viaggio degli schiavi dall’Africa occidentale alle coste di Charleston, la capitale della schiavitù nel Nord America); le immagini di attività agricole e di rabbia nelle sculture e nelle fotografie, le parole e la canzone di Lorna Simpson ; il memoriale di Ronald Jones dedicato a Denmark Vesey che si ribellò alla schiavitù; l’ode di Elisabeth Newman alla balia nera e ai bambini bianchi di cui si occupò nella nursery di una delle grandi proprietà del diciottesimo secolo; le 40.000 camice di colore blu di Ann Hamilton che rievocano i numerosi lavoratori senza nome della storia ; e il funerale delle anime sacrificate dal razzismo presentate da Joyce Scott e l’evocazione del loro spirito attraverso oggetti sacri e magici di speranza e guarigione. Antony Gormley paragonò l’idea dell’istituzione sociale della schiavitù all’idea della schiavitù della mente e del corpo attraverso una serie di sette installazioni in una prigione del 1802. David Hammons affrontò questo argomento collocando il suo lavoro nell’attuale ghetto nero e creando un progetto interattivo comunitario in collaborazione con i residenti del ghetto. La sua “casa singola” in stile Charleston celebrò la storia architettonica della comunità con collegamenti con la storia del centro storico. Il parco adiacente, con una bandiera americana con i colori dei nazionalisti neri e un manifesto di bambini del quartiere che la guardano (in sostituzione di una pubblicità illegale di sigarette) era una immagine di speranza per il futuro dei giovani del ghetto. Questa mostra ha consentito al pubblico di calarsi nella propria storia personale, vedere il mondo quotidiano in modo diverso e affrontare i capitoli più dolorosi della propria storia. Sono inoltre emersi problemi relativi all’arte pubblica. Gli artisti provenienti da comunità diverse sono in grado di affrontare le storie di una comunità a cui non appartengono e di dare voce a realtà diverse? Fino a che punto un artista può riuscire a esprimere i bisogni e le preoccupazioni di una comunità? Questi sono problemi ai quali attribuisco particolare importanza e la cui rilevanza è cresciuta grazie all’interesse suscitato dal progetto di Hammons per la comunità locale. Per questi motivi, ho deciso di approfondire la relazione con la comunità e di renderla più reale nel mio progetto successivo.

Culture in Action

Due domande hanno attraversato questo programma: come inventare un’arte per i nostri tempi e assicurarsi, al contempo, che risponda a esigenze artistiche e sia pubblica? Quale ruolo può assumere il pubblico nell’arte pubblica e quale potrebbe essere il contributo diretto nella creazione dell’arte pubblica? Questo coinvolgimento potrebbe contribuire a restituire all’arte pubblica parte del suo potere culturale? E, in questo caso, l’arte pubblica potrebbe assumere un ruolo costruttivo nella vita urbana dei nostri giorni? La storia relativa all’arte pubblica nella città di Chicago è caratterizzata da due aspetti: monumenti storici del diciannovesimo e inizi del ventesimo secolo, ad opera di alcuni fra gli artisti più eminenti di quel tempo e opere di maestri moderni i cui monumenti artistici sono apparsi sulla scena con Picasso e Calder nel 1968, e continua senza cambiamenti attraverso gli anni Ottanta che hanno portato in aggiunta opere di artisti come Dubuffet e Mirò. Il mio obiettivo era quello di collocare l’arte pubblica in un luogo di pubblica discussione destinato al dialogo e all’azione sociale, assegnandogli un ruolo più simile a quello di piazza, trascurando la valenza dell’oggetto scultoreo. Ogni artista si impegnò in un processo di cooperazione con uno specifico nucleo di persone — una comunità con identità e obiettivi condivisi. Fu possibile stabilire un dialogo di pari passo con l’individuazione di una relazione parallela fra la vita di ciascun gruppo di persone e gli interessi estetici degli artisti coinvolti nel progetto. Il rapporto di collaborazione si estese per un arco di tempo di circa due anni. La produzione artistica scaturì da un processo di negoziazione e di scambio fra le parti, escludendo, in tal modo, l’imposizione di un oggetto d’arte come espressione individuale del singolo artista. Troppo spesso, nel passato, le sculture sono state collocate in uno spazio pubblico senza che fossero annunciate pubblicamente: facendo levare proteste pubbliche, sedate, solo successivamente, attraverso l’intervento della stampa, di conferenze educative, lasciando svanire lentamente il dibattito e le obiezioni (insieme all’interesse). Nel nostro caso, invece, abbiamo avviato un processo che era esso stesso una componente dell’opera d’arte. Ogni progetto si rivolgeva a bisogni e a un pubblico diversi, presentava aspetti multiformi e dava vita a molteplici azioni e manifestazioni.
Riassumendo nella nozione di pubblico l’idea di spettatore e di partecipante, questo programma contestava la definizione di spazio sociale, i meccanismi dell’arte pubblica, la natura della collaborazione artistica e la relazione fra arte e servizio sociale. Alcuni artisti utilizzarono il processo pubblico per creare monumenti di arte contemporanea.
Suzanne Lacy organizzò una rete di donne attraverso la città per designare un gruppo eterogeneo di 100 donne che dovevano ricevere una onorificenza per il contributo conferito alla società.
Durante la notte, nella città di Chicago, precedentemente priva di monumenti dedicati alle donne, comparvero 100 massi di pietra con targhe di bronzo sulle strade principali della città in onore delle 100 donne prescelte. Christopher Sperandio e Simon Grennan collaborarono con 12 dipendenti della fabbrica Nestlé per facilitare la creazione di una stecca dolce commemorativa dedicata ai lavoratori della fabbrica e non al suo proprietario; questo lavoro si collocò in un periodo di intensi negoziati sindacali. Daniel J.
Martinez collaborò con i venditori ambulanti che stavano per essere sfrattati dal più antico mercato libero aperto al pubblico della nazione (il suolo che occupavano era destinato a utilizzi su scala più ampia) e costruì una piazza provvisoria per la gente utilizzando grandi piastre riciclate di granito.
Il vivace processo che stava alla base di questi progetti è forse meglio rappresentato dal lavoro di Mark Dion, del gruppo degli Haha e Inigo Manglano-Ovalle.
Dion coinvolse un gruppo di 15 studenti delle superiori della città e associò l’ecologia all’arte in corsi settimanali, in una escursione a Belize e in un laboratorio estivo.
Haha si estese a un gruppo di 50 persone che si ribattezzarono per l’occasione “Flood” . Tutti i membri aderirono alla rete di assistenza Aids e, al contempo, realizzarono un giardino idroponico concepito come una installazione, una metafora visiva per le persone affette da Aids, un centro per l’insegnamento della pratica del sesso sicuro e un centro per condividere le esperienze con la malattia e di assistenza ai malati. Il progetto Manglano-Ovalle Street- Level Video è tuttora attivo come centro giovanile di informazione.
Inizialmente, fu avviato come alternativa alle bande giovanili; uno strumento per trovare modalità di comunicazione con i propri vicini — dove l’isolamento e la paura erano ormai padroni — e per discutere temi relativi al territorio, al denaro, alla casa, alla razza, all’odio e così via, nonché uno strumento per i giovani latino-americani per presentare la propria immagine in modo diverso da come sono normalmente rappresentati dai mass media.
Questa forma d’arte era un’arte disponibile al pubblico non solo perché era collocata in uno spazio aperto, accessibile al pubblico ma, principalmente, perché incarnava l’idea di partecipazione. Consentiva l’auto-rappresentazione, che, come creazione dell’immagine, costituisce il fondamento di tutte le arti. Questa forma di arte diede speranza a una comunità emarginata avvicinando i cittadini alla città attraverso il dialogo. Dimostrò che l’arte pubblica non deve necessariamente assumere una forma permanente per interpretare un ruolo importante nel presente. Dimostrò, inoltre, che l’arte può avere un ruolo fuori dal regno dell’arte ed essere collegata direttamente a un insieme di questioni urbane. Pertanto, suggerì che attualmente questa direzione poteva essere la più significativa per quanto riguarda l’arte pubblica.
Emersero nuovamente questioni pratiche. Sollevate, in questo caso, da parte dei critici che sostenevano che questo lavoro costituiva un affronto alla definizione stessa di arte. Chi è l’autore all’interno di uno scambio di natura collaborativa? È possibile coinvolgere le persone di una comunità che non appartengono al mondo dell’arte, nella creazione di un’opera d’arte? E, in caso affermativo, non si annulla lo status di “creazione artistica” dell’opera? Se l’arte può rivolgersi alle comunità e interpretare un ruolo costruttivo nelle questioni di natura urbana, diventando una forza taumaturgica o un agente del cambiamento, forse non è più arte, ma lavoro sociale.
E poiché non è cambiato il pubblico, la solita élite artistica non è stata sostituita dalla gente comune (il popolo), si può affermare che forse era una forma d’arte “destinata a loro”? Attualmente, la tendenza è cambiata e l’arte pubblica basata sul rapporto con le comunità è assai diffusa. Ma, come succede nei casi in cui si verifica una proliferazione di qualsiasi genere artistico, il numero di esempi è minore. Spesso, mi trovo a criticare molti lavori perché sono monodimensionali, orientati a un singolo problema sociale e, perché, spesso mostrano aspettative irreali e prospettano vie di uscita scontate. D’altra parte, nonostante la notevole diffusione di questa forma d’arte, la critica tradizionale non si occupa dell’arte pubblica collegata alle comunità. È tuttora liquidata come qualcosa di diverso dall’arte. È un errore che la critica sia assente e che non sia sviluppato un pensiero storico più vasto sull’arte contemporanea perché la critica potrebbe svolgere un ruolo importante nell’evoluzione dell’arte pubblica e potrebbe offrire dei criteri con cui esaminarla e giudicarla.
Mentre molti la eludono, è interessante capire perché e chi abbraccia questa nuova arte pubblica. Quale bisogno soddisfa questo tipo di arte? Soddisfa il bisogno dell’artista e della comunità di trovare un tipo di arte con un significato e uno scopo. Per alcuni, può rappresentare la realizzazione del sogno romantico dell’avanguardia, una nuova forma di arte al di fuori dei confini di una condizione pre-determinata. Ma non possiamo tralasciare il desiderio degli istituti culturali, delle società e dei governi di mostrarsi buoni, di utilizzare questa forma di espressione artistica per sembrare preoccupati per la condizione degli emarginati.
Invece dell’integrazione e dell’espansione dell’idea di arte, siamo rimasti fermi all’idea della “istituzionalizzazione degli emarginati”. Per esempio alcuni musei adottano pratiche di uso corrente all’interno della comunità solo per ribattezzare vecchi percorsi con parole nuove, alla moda, non discriminanti. Oppure un’iniziativa comunitaria può divenire un ambito sicuro per un museo per rappresentare un artista della minoranza, piuttosto che in gallerie dove si presentano mostre importanti, mantenendo in questo modo l’isolamento degli elementi emarginati della società. Per gli istituti e le associazioni filantropiche può essere utile allinearsi con gli obiettivi sociali degli artisti. Ma queste associazioni possono contenere e limitare i forti intenti artistici che l’arte pubblica ha in sé.
Anche se questa arte non deve venire fraintesa come facile soluzione ai problemi sociali, può comunque sortire effetti benefici e costruttivi a livello individuale o a piccoli gruppi di persone. Come nel caso della visione di un dipinto, l’esperienza che ne risulta è di tipo individuale e personale e non di massa. Questa forma di arte può anche spingere a vedere le cose in modo diverso, inducendo ad immaginare il cambiamento. Per realizzare questo fine, l’arte pubblica deve mantenere un’angolazione critica, impedendo ai problemi di venire neutralizzati. C’è un bisogno di cambiare continuamente le strategie. E non per esigenze di novità, ma per continuare ad essere un obiettivo mobile, per evitare di essere confinati in categorie e assorbiti in un sistema di cooptazione, per essere identificati come una forza con cui fare i conti, carica di un potere di critica, di un pensiero innovatore e capace di realizzare il cambiamento.