J u l i e   A u l t

Go back

Vorrei parlarvi dell'ambiente in cui Group Material ha lavorato, mostrandovi immagini di progetti realizzati da Group Material in luoghi pubblici così come quelle di altri artisti e gruppi che hanno svolto un lavoro analogo. Passerò poi a una descrizione e una testimonianza di alcuni sviluppi recenti nell'area di Times Square a New York e di alcuni progetti di public art conseguenti a questi sviluppi.

Group Material è un gruppo di artisti fondato per dare una risposta costruttiva all'arte che era insegnata, esibita e distribuita nella cultura americana di quel tempo, a ciò che ritenevamo essere una strada che non ci soddisfaceva. Quando abbiamo cominciato nel 1979 eravamo in tredici, ma dopo un anno e mezzo eravamo rimasti soltanto in tre (Mundy McLaughlin, Tim Rollins e io). Group Material ha cambiato negli anni i suoi componenti, ma per la maggior parte della sua storia era costituito da un gruppo di quattro persone organizzato in una struttura non-gerarchica. C'erano delle condizioni diverse e delle intenzioni condivise che hanno condotto alla formazione del gruppo.
Molti di noi erano appena usciti dalla scuola d’arte, dove eravamo stati abituati a sviluppare un voce artistica “individuale”. Siamo stati anche abituati a credere che dopo la scuola saremmo potuti andare ad esercitare questa voce nel cosiddetto mondo reale. Questo ci è sembrata essere una promessa piuttosto falsa considerando le limitazioni e le deviazioni che hanno accompagnato i principi del mercato e del sistema dell’arte commerciale, anche perché molti di noi non erano interessati a creare oggetti, ma concentravano la loro attenzione sui processi di collaborazione. Eravamo collettivamente intenzionati a unire le nostre motivazioni sociali e politiche con le pratiche artistiche, che è più comune adesso di quanto lo fosse a quel tempo. Allora, la linea che divide arte e politica era più chiaramente tracciata e quella delimitazione è stata comunemente sostenuta, spesso con il preciso interesse di prevenire la contaminazione tra arte e politica.
Il nostro manifesto iniziale annunciava alcuni nostri obiettivi: “Noi vogliamo mantenere il controllo sul nostro lavoro, dirigendo le nostre energie nella richiesta di condizioni sociali, che sono opposte a quelle del mercato dell’arte. Mentre la maggior parte delle istituzioni dell’arte tengono separata l’arte dal mondo, neutralizzando in questo modo le forme più abrasive e i suoi contenuti, Group Material accentua le parti taglienti dell’arte. Il nostro progetto è chiaro: invitiamo ciascuno ad interrogare l’intera cultura che abbiamo dato per scontata”.
Il medium principale di Group Material sono state le mostre temporanee.
Nel nostro primo anno abbiamo affittato e lavorato in un negozio con le vetrine su strada in cui abbiamo presentato alcune esposizioni. Dopo questo abbiamo cominciato a realizzare esposizioni in spazi interni, presso vari tipi di istituzioni d’arte e abbiamo anche organizzato mostre in luoghi non usuali, o in spazi pubblici. Per spazio pubblico voglio dire, nella maggior parte dei casi, spazi pubblicitari, che, naturalmente, sono privati, ma sono situati in luoghi pubblici. Così Group Material ha affittato gli spazi dei cartelloni per la pubblicità o nei giornali, nella metropolitana o nelle stazioni, allo scopo di portare l’idea di un’esposizione e proporre nella sfera pubblica qualcosa di diverso rispetto alla pubblicità.
Questi sono i progetti su cui voglio focalizzare la mia attenzione, i primi dove ci siamo occupati di discorsi pubblici e obiettivi sociali all’interno di un ambiente commerciale e pubblicitario.
Piuttosto che isolare artificialmente la nostra pratica vorrei inserire il lavoro di Group Material nel più ampio contesto di certe condizioni sociali all’interno delle quali noi operavamo a New York a partire dai primi anni Ottanta, affiancando i nostri lavori ad alcuni esempi di altri artisti per cercare di trasmettere il senso in cui abbiamo operato a quel tempo, lavorando all’interno di una rete di pratiche critiche e oppositive, all’interno delle varie comunità.
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, il contesto per lavorare come artista a New York era polarizzato: da una parte c’era il risorgere della pittura neo- espressionista che continuava con la concezione dell’artista eroico, dall’altra, c’era un ambiente di femminismo, critica anti-colonialista, diritti civili, punk e cultura della musica autoprodotta, ecc. C’era una forte richiesta di diritti nei giovani, e tra gli artisti e i lavoratori dell’industria culturale — rivendicare i propri diritti, mettere in dubbio l’autorità, e assumersi la responsabilità di avere voce in capitolo in una cultura che, tra le altre cose, stava cambiando, contestando e collettivizzandosi.
Inizierò facendovi vedere delle immagini, e ponendo un paio di domande in rapporto a questa serie di conferenze sullo spazio urbano: cosa è possibile, incoraggiato e permesso in pubblico? Con quali meccanismi è controllato lo spazio pubblico? Come fanno a funzionare le varie agenzie e come sono utilizzate per ottenere un certo obiettivo o una comunicazione nei confronti del pubblico? Come sono controllati, censurati, incoraggiati e strumentalizzati gli artisti nei vari contesti culturali urbani? Quale ruolo prendono gli artisti quando agiscono “in pubblico”? E, un promemoria sulla congiunzione tra sfera pubblica e clima politico che è drammaticamente cambiato agli inizi degli anni Ottanta e negli anni Novanta a New York, come vedremo nell’esempio di Times Square.
Una prefazione prima delle immagini: da Sharon Zukin autrice di un inestimabile e analitico libro chiamato The Culture of Cities (La Cultura delle Città): “Costruire una città dipende da come la gente combina i tradizionali fattori economici di terra, lavoro e capitale, ma dipende anche da come manipolano i linguaggi simbolici di esclusione e dei diritti. Lo sguardo e la sensibilità di una città riflettono decisioni di quello e di chi deve essere visibile e di quello che non deve esserlo, basandosi su concetti di ordine e disordine, e sugli usi del potere estetico. In questo senso principale la città ha avuto sempre un’economia simbolica”.
Ho letto questo perché le diapositive che presenterò dimostrano come si tratta con un tipo di superficie o di luogo di proiezione all’interno di un contesto urbano.
Questa  economia simbolica e reale è un campo di battaglia tra le varie ideologie, non tra i metodi.

All’inizio del 1980, concomitante con gli inizi di Group Material, un gruppo di artisti ha organizzato un evento chiamato The Real Estate Show. Questo era un pietra miliare ed un esempio di artisti uniti insieme per fare un’asserzione critica sulla crisi economica, politica e rappresentativa. Questi artisti organizzati hanno illegalmente occupato uno spazio che si affacciava sulla Delancey Street nel Lower East Side per allestire una mostra d’arte tematica intorno al soggetto delle proprietà immobiliari e, in maggior misura, inscenare un’azione e un evento mediale contro il Comune (qualche volta il peggiore padrone di casa di New York) come il gruppo responsabile dell’accumulo di edifici o di mantenerne sfitti altri che potrebbero altrimenti essere usati come abitazioni o come uffici.
La proprietà comunale che decisero di occupare, 123 Delancy Street, era programmata per diventare un centro commerciale.
I volantini distribuiti annunciavano l’evento dichiarando: “Questa è, in poche parole, una occupazione di una proprietà commerciale sfitta dell’amministrazione cittadina… L’intento di questa azione è mostrare che gli artisti sono disposti e capaci di mettere loro stessi e il loro lavoro fermamente in un contesto che mostri solidarietà verso le persone oppresse e a riconoscere che le strutture istituzionali e mercantili opprimono e distorcono la vita e le opere degli artisti, e a riconoscere che gli artisti vivono e lavorano in comunità depresse, sono parte attiva nel ridare purezza e nel fenomeno della gentrification (N.d.T. “imborghesimento” di parti della città mandando via con la scusa delle ristrutturazioni le fasce più povere della popolazione). È importante concentrare l’attenzione degli artisti in questa direzione perché vengono usati come pedine da avidi costruttori edili”.

La mostra era aperta dal 1  gennaio e il 3 gennaio la municipalità di New York la chiuse, bloccandone il cancello. Joseph Beuys era in città in quel momento e visitò lo spazio, la sua fotografia fu stampata dai quotidiani, con il conseguente aumento di attenzione da parte dei mass media. Questo fatto ha contribuito a trasformare l’evento e le circostanze della chiusura definitiva della mostra da parte del Comune in una piattaforma da cui amplificare e articolare obiettivi e critiche del progetto.
Gli organizzatori erano stati ricevuti dai funzionari del settore edilizia del Comune per negoziare una soluzione. La città offrì un altro spazio vicino che sarebbe potuto essere permanente o semi-permanente in funzione dell’autosufficienza del gruppo stesso. Di malavoglia loro accettarono quello spazio in 156 Rivington Street che sarebbe diventato ABC No Rio, un spazio alternativo ancora aperto, anche se minacciato di sfratto. Questo è un significativo esempio dell’attivismo culturale degli artisti, ma anche dell’impatto di un compromesso di quel tipo.
Accettando quello spazio, finì l’attenzione dei mezzi di comunicazione e il pubblico dibattito intorno a questo evento, la negoziazione annullò l’importanza di un modello di occupazione abusiva degli spazi.
All’incirca nello stesso periodo di The Real Estate Show, Group Material ha affittato un spazio di un negozio sulla East 13th Street. Bisogna tenere a mente che questo era ancora il Lower East Side, che entro alcuni anni sarebbe diventato noto come l’East Village, un luogo per moltiplicare fantasie bohemien e arte alternativa in contatto con SoHo e la 57th Street. Quando Group Material ha aperto il suo spazio l’intenzione era di avere una nostra propria stanza dove fare un laboratorio per organizzare o fare esposizioni ed eventi con temi sociali. Volevamo anche sviluppare una relazione con gli abitanti del quartiere, un pubblico “normale”, in aggiunta alle relazioni con il “mondo dell’arte”.
Noi stavamo mantenendoci in equilibrio tra pubblici differenti. Questa esposizione, chiamata The People’s Choice (La Scelta della Gente), è un esempio di come reinventare la nozione di pubblico attraverso un’esposizione . Appesi ai muri c’erano articoli ed oggetti che abbiamo raccolto dalle persone che abitavano lì intorno dopo che avevamo distribuito porta a porta una lettera di cui riporto una parte: “Egregi amici e vicini della 13th Street.
Group Material ha organizzato un’esposizione a cui sei invitato. Group Material è la galleria che ha aperto questo ottobre al 244 East 13th. Siamo un gruppo di giovani che ha organizzato diversi tipi di eventi nel nostro spazio. Abbiamo organizzato feste, mostre d’arte, abbiamo proiettato film e organizzato corsi d’arte per bambin.
The People’s Choice è il titolo della nostra prossima esposizione.
Ci piacerebbe mostrare cose che di solito non si possono trovare in una galleria d’arte. Le cose che personalmente trovate belle, gli oggetti che tenete per il vostro proprio piacere, gli oggetti che hanno un significato per voi, la vostra famiglia e i vostri amici. Cosa potrebbero essere? Possono essere fotografie, o i vostri poster favoriti. Se raccogliete cose, questi oggetti sarebbero buoni per questa esposizione”.
Quello che era importante per noi in quel momento nell’esposizione, e significativo con uno sguardo retrospettivo, è che ha proposto un diverso punto di vista, rispetto a quello dei musei o delle altre istituzioni che vengono considerate la cultura ufficiale, di ciò che è prezioso culturalmente, e la “collezione” di The People’s Choice era una risposta a cosa è culturalmente prezioso per la gente, non ciò che pensano gli esperti culturali. The People’s Choice non era un’esposizione etnografica.

Al termine di questo primo anno in cui avevamo lo spazio della galleria si erano formate varie fazioni e discussioni che avevano prodotto dei litigi nel gruppo e così siamo scesi da tredici a tre persone. Benché abbiamo cominciato con molta energia ed entusiasmo, mentre identificavamo e raffinavamo più chiaramente le nostre idee ed interessi, su ciò che volevamo fare individualmente e come gruppo, la configurazione originale si disintegrò.
Una ragione che allora abbiamo identificato era che noi eravamo caduti nella trappola di creare uno spazio alternativo. Alimentavamo il sistema commerciale ed accettavamo il ruolo che ci era assegnato di rimanere nella nostra condizione sociale alternativa.
Aspettavamo che la gente venisse e vedesse quello che stavamo facendo piuttosto che portare idee e produrre sulle strade o in altri luoghi, piuttosto che occuparci dei problemi che ci stavano a cuore, “per chi è la cultura e dove deve essere vista”. Con la scissione del gruppo iniziale e nel momento in cui abbandonavamo il nostro spazio abbiamo pubblicato un volantino intitolato Caution: Alternative Space (Attenzione: Spazio alternativo): “Per la seconda stagione Group Material diventa un’organizzazione molto diversa con nuovi soci e nuove tattiche. Abbiamo imparato che la nozione di spazio alternativo non è solo politicamente falsa ed esteticamente ingenua, ma può anche essere diabolica. È impossibile creare un’arte radicale e innovativa se questo lavoro è ancorato a un’ubicazione speciale della galleria. L’arte può avere il contenuto più politico e la forma più giusta ma se la cosa resta soltanto appesa diventa muta a meno che la sua intenzione di diffusione assuma anche un significato politico. Se una visione più aperta e democratica dell’arte è il nostro progetto, allora non possiamo proprio contare sull’approvazione del vincitore da lucenti stanze bianche e dalle riproduzioni a colori del brillante mondo dell’arte.
Fornire e promuovere un’estetica del vissuto di un’estesamente “non-arte” pubblica, questa è la nostra meta, la nostra contraddizione, la nostra energia”.
Così fu liberatorio a quel punto non dover avere uno spazio, e definire noi stessi come un gruppo indipendente che potesse funzionare in modi e spazi diversi attraverso tutta la città.
Questo ci ha aperto la possibilità di lavorare sul luogo (site specifically) ed in rapporto con varie istituzioni ed uffici burocratici.

Uno dei primi progetti che facevamo in un spazio pubblico o spazio all’aperto è stato chiamato Da Zi Baos o The Democracy Wall (il muro della democrazia).
“Da Zi Bao” è il nome cinese per un poster con delle scritte di grandi dimensioni. La nostra superficiale comprensione dei movimenti del muro della democrazia in Cina è che è una forma tradizionale di dialogo sociale scritto viene realizzato in pubbliche piazze. La catena di eventi è quello che qualcuno o qualche gruppo monta dei manifesti di commenti sulla politica pubblica o su qualche specifico problema su un muro sulla strada. Dopodiché un’altra persona viene e ne mette un altro accanto a quello e così via. Quello che ne risultava era una panoramica di opinioni, che qualche volta ha influenzato la politica. Nel 1976 dopo la morte di Mao, Deng è stato riabilitato nel partito e dal 1980 ha consolidato il suo potere e ha cancellato quattro libertà dalla Costituzione del 1978: parlare a voce alta liberamente; esprimere pubblicamente e completamente le proprie opinioni; tenere dibattiti; potersi esprimere con questi grandi poster — la tradizionale forma di protesta politica. Abbiamo ritagliato il concetto e il modulo del Da Zi Baos e realizzato un tipo di versione costruttiva. Pensavamo a quello tempo, nel 1982, quali fossero i modi con cui veniva strumentalizzata e manipolata dai mezzi di comunicazione di massa l’opinione pubblica negli Stati Uniti e come opinioni e punti di vista siano ridotti a un sì o un no, senza complessità o area grigia intermedia, cicliche repliche di pensieri riduttivi. Il sistema di raccolta delle dichiarazioni che si potevano vedere appese sui muri coinvolgeva persone intervistate in strada presso Union Square, dove più tardi sarebbero stati appesi i manifesti, su alcuni problemi sociali che erano attinenti alla stessa Union Square oltre che ad alcuni problemi di attualità. Abbiamo alternato le asserzione di singoli individui (scritte nero su giallo) con quelle di gruppi organizzati (nero su rosso) che lavoravano sugli stessi problemi. Così in un certo senso The Democracy Wall non è così dissimile da alcune nostre mostre realizzate in spazi chiusi perché l’intera struttura funzionava come un forum o un modello di una possibile forma di democrazia. La prima dichiarazione era di Group Material: “Anche se è facile e divertente, siamo stanchi di essere spettatori. Vogliamo fare qualche cosa, vogliamo creare la nostra cultura invece di comprarla soltanto”.
Contrapponendola con un’asserzione di una casalinga: “I fondi statali per le arti dovrebbe dipendere dalle reali intenzioni, a cosa serve. Se quest’arte era basata sull’aiutare altre persone o su qualche cosa che io posso capire”. Due altro affermazioni erano sui sindacati. Un impiegato diceva: “I sindacati aiutano la società, ma non nel mio ufficio”. E il sindacato Home Health Care Workers ha scritto: “Questi sono tempi duri per stare in piedi da soli. Anche se la gente è pagata per il suo lavoro, l’atteggiamento dei padroni nei confronti dei servi rimane lo stesso.” Voglio indicare che quello era un progetto veramente poco costoso da realizzare (circa 200 dollari) perché li abbiamo fatti a mano. Abbiamo appeso i manifesti di notte illegalmente, e sono rimasti per circa cinque settimane prima che fossero coperti e/o distrutti. Fino ad allora Group Material si era autofinanziato, questo significa che i membri del gruppo hanno messo insieme i loro soldi per realizzare eventi e progetti. Al quel tempo abbiamo cominciato a ottenere il sostegno del National Endowment for the Arts (Fondo nazionale per il sostegno delle arti).
Queste prossime diapositive sono di un progetto dell’artista John Fekner che lavorava in questo stesso periodo. La serie di mascherine fatte appositamente per gli spazi pubblici dove sarebbero apparse le scritte è stata chiamata Queensites.
Parlando a proposito della motivazioni di questa pratica lui ha detto che il lavoro era inteso a: “Indicare le aree nelle comunità che hanno un bisogno per costruire, decostruire, o ricostruire. Segnalare i problemi riguardanti il paesaggio fisico di ciascuna strutture o atmosfera in quella area per identificarla come danneggiata o pericolosa.
Ottenere personale sanitario per agire più velocemente per liberarne i detriti”.
E in un’intervista con Peter Fend del 1980: “I miei segni indicano direttamente l’ambiente della vita di ciascuno e la chiamata per un più grande riconoscimento di un’esperienza attuale.  I cartelloni pubblicitari ci consentono un riconoscimento di cosa si trova al negozio o al termine di un giro in aeroplano. Mi oppongo all’idea della pubblicità della vendita di un prodotto o di un luogo senza considerare le immediate conseguenze fisiche che subisce il corpo di ciascuno, attraverso le sostanza inquinanti o la povertà”.
Questa immagine è dove Fekner aveva riprodotto la parola “Decay” (decadimento) sul lato di un edificio nel South Bronx. Ronald Reagan era là fuori per partecipare alla campagna presidenziale del 1980. Il luogo è stato usato come un fondale da Reagan per una conferenza stampa — si è impossessato del lavoro per scopi politici, ma alla fine fallì il suo scopo perché ha fatto molte dichiarazioni e promesse alla gente del South Bronx che avrebbe ripulito la zona, e andò via tra i fischi dei presenti.
Ma penso che questo sia un interessante esempio della sovrapposizione fra cultura visiva e mezzi di comunicazione di massa. Un esempio di un segno, un lavoro artistico, realizzato in uno spazio pubblico che essendo adatto al suo scopo è critico. Questo The Remains of Industry (I rifiuti dell’industria) è un esempio di come uscisse di notte con delle mascherine scrivendo su qualche cosa che sarebbe dovuto essere distrutto ma in effetti non lo era, ed allora sarebbe stato risanato più rapidamente perché era stato marcato in quel modo .
Questo è un altro progetto di Group Material chiamato Subculture e realizzato nel 1983.
Abbiamo affittato gli spazi pubblicitari sulle vetture della metropolitana.
In questo caso Group Material ha agito come un imprenditore perché abbiamo fatto un contratto con le autorità della metropolitana per lo spazio ed abbiamo invitato 103 artisti a fare a trenta pezzi ciascuno da mettere in quegli spazi. Le autorità ci avevano detto che non potevamo fare nulla che avesse un contenuto politico o sfumature religiose e questo ha precluso circa il novanta per cento di quello che volevamo fare perché sapevamo che la maggior parte degli artisti volevano fare qualche cosa con un contenuto politico o sociale. Ma dato che erano i primi anni Ottanta, ed eravamo prima delle guerre culturali, gli artisti non erano ancora visti come simbolicamente pericolosi, così veramente non c’era sorveglianza su quello che è stato installato perché, in fin dei conti, anche se ci hanno avvertiti, portavamo i manifesti e loro li affiggevano. E a loro piaceva questo lavoro così non c’era nessun problema.
Le condizioni per gli artisti che lavorano in una sfera pubblica, dove devono negoziare con gli uffici burocratici, è molto difficile in termini di contenuti i quali vengono regolarmente esaminati. C’è un controllo molto restrittivo ed alcuni artisti si sono rivolti anche alla Corte Suprema per combattere in questo modo il loro diritto alla libertà di parola. Questo è uno dei pezzi più riusciti di Subculture. È stato fatto da una donna chiamata Vanalynne Green che realizzava delle performance e lavorava allo stesso tempo anche come segretaria a Wall Street. Ha fotografato delle tazze di caffè e al centro di una di queste tazze ha sovrapposto la storia di come ogni mattina il suo capo le chiedeva di portargli una tazza di caffè e avrebbe sorriso quando gliela avrebbe portata, ricordando e gustando il fatto che aveva versato il caffè in una tazza sporca. Nel mese di settembre c’era uno lavoro su ogni vettura della metropolitana.

Questo progetto è un’esposizione di Group Material in uno spazio chiuso che ho incluso qui perché è una riflessione critica sulla cultura americana, cos’è questa nozione monolitica del pubblico americano che è comunemente sostenuta? È stata chiamata Americana, fatta al Whitney Museum nella Biennale del 1985, ed era la prima volta che Group Material era stato invitato da una cosiddetta istituzione o museo per fare un’esposizione. Tradizionalmente la Biennale del Whitney Museum è un esame di quello che gli amministratori ritengono importante o significativo nell’arte americana degli ultimi due anni. Vado ad incorniciare questo episodio in modo cinico, ma la nostra visione della Biennale era che c’era un punto di vista molto ristretto che informava il processo di selezione, creando una sorta di grande passerella di ciò che stava passando nelle gallerie e di quello che veniva venduto più facilmente, e non aveva necessariamente molto collegamento con quello che accadeva, in scala più grande, nella società. Così dato che i parametri o la cornice dell’esposizione era la Biennale, abbiamo pensato di fare un modello della nostra propria biennale o quello che per noi era importante ma omesso del Whitney Museum, e che includeva non solo alcuni artisti ma anche elementi della cultura della massa o cosiddetta cultura bassa. Cercavamo anche di creare delle connessioni tra le scelte estetiche della gente che fa acquisti, per esempio nell’acquistare una lavatrice o un particolare tipo di cereali, e le scelte, in un certo senso basate sul gusto, che i curatori del Whitney fanno quando acquistano, in una scala più grande, per la collezione del museo.
Americana affronta anche l’idea del Whitney come un museo nazionale — è addirittura chiamato Whitney Museum for American Art — e con ciò definisce la loro idea di cosa è l’arte americana, ed abbiamo voluto prendere posizione contro l’esclusiva e sbiancata immagine di arte americana e aprirla a una più aperta alle donne, ad artisti di colore così come alle tematiche politiche che erano escluse. L’idea era di creare una versione meno elitaria di cultura americana e una temporanea e simbolica rimozione di alcuni dei confini tra cultura alta e bassa, interrogandosi alla fine su cosa sia il valore.
Abbiamo chiamato questo progetto del 1988 Insert (Inserto). Di nuovo agivamo come un imprenditore affittando questo spazio dopodiché girando agli artisti il compito di fornire il contenuto. In questo caso lo spazio della pubblicità era in un quotidiano — l’inserto della domenica del New York Times tirato in 90.000 copia che, in teoria, raggiunge 150.000 lettori. Abbiamo invitato 10 artisti a fare ciascuno una pagina: Mike Glier, Jenny Holzer, Barbara Kruger, Carrie Mae Weems, Felix Gonzalez-Torres (che subito dopo diviene parte di Group Material), Nancy Spero, Nancy Linn, Hans Haacke, Richard Prince, Louise Lawler. Avevamo progettato originalmente Insert  per il Daily News che è più locale meno intellettuale che il New York Times. Avevamo negoziato con il Daily News per circa un anno ma senza mai firmare un contratto. E quando finalmente siamo andati da loro con il progetto dell’intervento che avremmo voluto produrre,  l’hanno rifiutato con la motivazione che “questo non è arte è un editoriale”. Così portammo il progetto al New York Times e abbiamo lavorato con il “direttore dell’accettazione della pubblicità” che era preoccupato che il pezzo di Carrie Mae Weems potesse essere frainteso dai lettori interpretandolo come razzista, senza sapere che era stato fatto da un’artista afro-americana, ma alla fine accettò il progetto.
Quando Group Material ha fatto progetti come Americana al Whitney o come Inserts c’è spesso una zona di compromesso. Dal nostro punto di vista è stato utile negoziare a quel tempo. Certamente non siamo interessati nella diffusione del contenuto o del significato del nostro lavoro, ma siamo interessati a lavorare, almeno temporaneamente, con e all’interno di queste istituzioni e senza autoemarginarsi. Così per esempio col Whitney, in un certo senso ci usavano per adempiere una certa funzione, avere cura di certi problemi sociali, e viceversa noi usavamo questo come una piattaforma su cui posare una diversa serie di problemi sociali.

Questo è un progetto che Group Material ha organizzato con molte altre organizzazioni.
Abbiamo lavorato con Randolph Street Gallery che è uno spazio alternativo di Chicago e con sei organizzazioni di comunità sparse in tutta la città.
Ci sono diversi livelli di collaborazione che sono presenti in questo progetto. Group Material è di per se stesso un gruppo non-gerarchico, noi non usiamo un modello corporativo che percorre una linea di diverse competenze ma lavoriamo insieme e come gruppo ci prendiamo la responsabilità di ogni aspetto del lavoro. E allo stesso modo c’è una collaborazione o dialogo, in termini di partecipazione nei vari progetti, con gli artisti e non-artisti con cui lavoriamo. Nel caso di questo progetto chiamato Your Message Here (metti qui il tuo messaggio) abbiamo collaborato dall’inizio con sette altre istituzioni o organizzazioni nel progettare insieme, chiamando artisti e non-artisti a mettere qui il loro messaggio , selezionando il materiale, ed infine realizzando i manifesti. Specialmente nei quartieri più poveri di Chicago c’è il predominio, nei cartelloni di pubblicità, di sigarette e tabacco. L’idea era sostituire qualcuna di quelle pubblicità con altre comunicazioni, altre immagini e altri argomenti per un periodo di tre mesi. Avevamo quaranta cartelloni pubblicitari che ci aveva donato la Gannett Outdoor Advertising sui quali potevamo esporre qualunque cosa avessimo voluto. Abbiamo esposto la richiesta alla gente, tramite queste sei organizzazioni comunitarie, affinché proponessero quello che avrebbero voluto vedere sui cartelloni dei loro quartieri. Non era esattamente un concorso ma abbiamo fatto una selezione delle circa 140 proposte che abbiamo ricevuto per riempire i quaranta spazi a nostra disposizione. Abbiamo terminato con uno spettro molto ampio di approcci artistici ai problemi sociali d’attualità a cui la gente pensava nei dintorni di Chicago. Un altro livello di collaborazione che si è concretizzato in questo progetto è che c’era un gran numero di persone che non erano artisti ma che avrebbero collaborato con grafici o artisti per realizzare i propri progetti. Uno di questi stava di fronte a un liceo, ed è stato fatto da Act- Up di Chicago. Lo hanno voluto mettere vicino a un liceo perché parlava dei problemi che non sono discussi dagli studenti o, comunque, non sono affrontati a scuola, come per esempio la sessualità. Questo lavoro afferma: “nessun umano è illegale.” Si può vedere che c’è molta varietà in termini di mezzi usati per realizzare i propri cartelloni. Questo è stato fatto da un’organizzazione di senza casa, la Chicago/Gary Union of the Homeless: “possiamo non avere casa, ma abbiamo dei nomi e anche noi viviamo qui”.
Così con un progetto come questo — dove avevamo veramente intenzione di incorporare nuove immagini nella rappresentazioni visuali della città — che si può efficacemente e simbolicamente arrivare a una democrazia culturale. “La guerra della droga è una guerra sulla gente. Il vero nemico è la disperazione in un sistema morto”, firmato Vito Greco.
Questo è un pezzo di Martina Lopez. Le è stato chiesto cosa le sarebbe piaciuto vedere su un cartellone pubblicitario e lei ha detto che le piacerebbe vedere le immagini della gente che viveva là, amici e famiglia, così le ha raccolte e ha lavorato con un grafico per realizzare l’immagine finale. Amo questo pezzo e in un certo senso mi ricorda il progetto The People’s Choice. A questo punto Group Material era composto da Doug Ashford (che si è unito a noi nel 1982), Felix Gonzalez-Torres (1987), Karen Ramspacher (1989) e da me.

Nel 1982 The Public Art Found ha cominciato un programma chiamato Message to the Public (Messaggio al Pubblico) su un tabellone luminoso a Times Square.
Vi mostrerò un video dei vari progetti che sono stati realizzati e vi leggerò alcuni estratti dai dieci anni di storia di questo programma. Il comunicato stampa di The Public Art Found descrive il programma: “Il 5 gennaio 1982, The Public Art Found ha annunciato l’inizio del suo programma Message to the Public. A partire dal 15 gennaio il tabellone luminoso posto sul vecchio edificio dell’Allied Chemical, al numero 1 di Times Square, verrà animato da un gigantesco computer che trasmetterà trenta secondi di messaggi artistici ad un milione e mezzo di potenziali osservatori giornalieri a Times Square. Progetti recenti nella zona di Times Square, specialmente i grandi murali di Riccardo Haus ed Alex Katz nella mostra Times Square Show di Collaborative Group mostrano chiaramente come l’arte fosse in grado di migliorare e di rivitalizzare i problematici centri urbani.
Message to the Public è un classico esempio di come l’obiettivo principale di The Public Art Found possa conciliare l’espressione individuale di un’artista con le aspettative del pubblico”.
Il quadro qui a destra è di Nancy Spero ed è un lavoro progettato per Times Square che è stato censurato. Ellen Lubell ha descritto le politiche di censura nel suo articolo “Spectacolor Short Circuit” nel Village Voice del 10 febbraio 1987: “Nella tarda estate scorsa i messaggi femministi di Nancy Spero furono annullati dopo che era già iniziata la produzione, e alla fine di novembre il lavoro della video artista Dara Birnbaum fu rifiutato prima che potesse essere mostrato, come da programma, durante le festività di Natale. In entrambi i casi erano state seguite le normali procedure ed in entrambi i casi il proprietario del tabellone luminoso, George Stonebelly, le fermò freddamente.”