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La città dall'immaginario alla finzione

Volendo dare un titolo a queste mie riflessioni, credo che si potrebbe scegliere il seguente: La città dall'immaginario alla finzione.
La città è romanzesca. Con questo voglio dire semplicemente che essa ha fornito l'ambientazione dei più grandi romanzi del XIX e XX secolo.
È una osservazione abbastanza evidente, ma che può farci riflettere, qualora venga applicata con due sguardi incrociati. Immaginiamo lo scrittore attraverso le città che egli ha evocato, le città tramite coloro che le hanno amate e descritte. Marcel Proust e Thomas Mann fanno parte di Venezia. Molte città italiane conserveranno sempre, per il visitatore, qualche aspetto stendhaliano. In senso inverso, pronunciare il nome di questi autori significa evocare le città di cui essi hanno saputo cogliere il suono, i colori, le prospettive e quella alchimia che talvolta modifica e trasfigura, agli occhi del visitatore, i luoghi in stati d'animo e gli stati d'animo in paesaggio. Questa capacità di trasmutazione è ciò che rende la città poetica, quindi si potrebbero ovviamente citare accanto a questa (o al posto di) dei nomi di romanzieri o dei nomi di poeti.
Se il romanzo attira più direttamente l'attenzione dell'antropologo o dell'etnologo è perché vi trovano la traccia di un enigma che continua ad affascinarli e al quale la città offre l'ambientazione più confacente. Questo enigma è dato dalla contemporanea presenza di una solitudine inconcepibile e di una società impossibile. Vi è cioè la permanenza di una minaccia destinata a non realizzarsi mai completamente: la solitudine, e di un ideale che non si può mai concretizzare realmente: la società. Questa dimensione poetica e romanzesca è spesso meravigliosamente espressa dal cinema. Il film che guardiamo come spettatori collega infatti lo sguardo del regista (della cinepresa) agli itinerari dei personaggi, che in quella città si incontrano e si lasciano.
Sto pensando, in particolare, alle scene di pedinamento nei film americani degli anni 1940 (di cui la nostra memoria conserva probabilmente qualche ricordo in bianco e nero). La città esiste tramite l'immaginario che da essa scaturisce e ad essa ritorna, quell'immaginario che essa alimenta e di cui si nutre, che da lei è generato e che le dà una nuova esistenza.
L'evoluzione di questo immaginario ci può interessare perché concerne sia la città (con le sue costanti e i suoi cambiamenti), sia il nostro rapporto con l'immagine, che si modifica anch'esso, così come avviene per la città o per la società.
Interrogarsi sulla città immaginaria significa porsi una duplice domanda: la prima riguarda l'esistenza della città e la seconda l'esistenza dell'immaginario, in un periodo caratterizzato dalla espansione del tessuto urbano e dalla diffusione delle immagini in ogni parte del mondo. Significa quindi interrogarsi sulle attuali condizioni della vita quotidiana. Possiamo immaginare la città in cui viviamo, renderla partecipe dei nostri sogni e delle nostre aspettative. Per tentare di dare una prima risposta a questo problema, cercherò di paragonare le forme della città alle forme dell'immaginario individuale e collettivo, evocando in successione tre aspetti della città.

Vorrei parlare prima della città-memoria, quella città in cui si inseriscono le tracce della grande storia collettiva. ma anche milioni di storie individuali. In secondo luogo della città- incontro, cioè la città in cui uomini e donne possono incontrarsi, ma anche la città che ci viene incontro, che si svela, che impariamo a conoscere come se fosse una persona. Infine cercherò di evocare la città-finzione, la città che minaccia di annullare le altre due, la città planetaria simile ad altre città planetarie. Una città, questa, fatta di immagini e di schermi in cui lo sguardo rischia di impazzire, come in un gioco di specchi che ricorda (lo dico per gli appassionati di cinema) l'episodio finale della Signora di Shanghai.

Anzitutto la memoria e la storia si uniscono nella città; ogni abitante della città stabilisce un particolare rapporto con i monumenti che offrono testimonianza della storia più profonda e collettiva. Naturalmente questo riferimento alla storia non è sempre esattamente decifrabile da parte di tutti coloro che percorrono la città, ma è comunque implicito in qualsiasi itinerario. Questo legame è più evidente, ad esempio, quando i percorsi di chi abita o lavora in città incrociano gli itinerari di coloro che la stanno visitando; questi ricordano ai primi che l'ambiente in cui vivono può diventare per altri oggetto di curiosità e di ammirazione. Da questo punto di vista la metropolitana è esemplare, anzi doppiamente esemplare. In realtà ogni giorno moltissime persone prendono la stessa metropolitana, utilizzano le medesime corrispondenze, scendono alla stessa fermata.
Questi spostamenti quotidiani creano frequentemente una specie di familiarità tra persone che hanno gli stessi orari, e una familiarità ancora più grande tra il singolo passeggero e i nomi delle stazioni (una filastrocca ormai imparata a memoria!). Quei nomi spesso sono collegati a quelli della città in superficie, i quali, a loro volta, costituiscono generalmente dei riferimenti diretti o indiretti a fatti storici.
La metropolitana di Berlino aveva una aura poetica straordinaria perché esistevano due Berlino e perché portava a una frontiera misteriosa, che separava due mondi, ma anche perché alcuni nomi di stazioni non accessibili (Franzoesische strasse) alludevano alla geografia della superficie e ad una storia rimossa. Esisteva una specie di "no man's land" metropolitana tra le due Germanie.
La metropolitana è doppiamente esemplare perché è anche un luogo di ricordi personali.
Colui che oggi utilizza una determinata linea del metrò, nel passato probabilmente seguiva altri percorsi, prendeva altre coincidenze, in quanto aveva una diversa vita professionale, familiare, sentimentale.
Nelle più antiche linee di metropolitana la grande storia e la storia minuta mescolano le loro voci e i loro nomi, creando un tipo di memoria intermedia e fissa.
La memoria della metropolitana si arricchisce del ricordo di eventi che fanno parte della memoria collettiva, ma che alcuni individui ricordano di aver vissuto personalmente, come ad esempio la caduta del muro di Berlino o la Liberazione di Parigi.

Lo spessore storico della città viene spesso accomunato all'ideale della modernità: ciò è molto importante, dato che verosimilmente tale ideale è oggi difficile non solo da raggiungere ma anche da conservare. La modernità accumula e concilia. Ho già citato una volta la poesia dei Quadri parigini di Baudelaire in cui il poeta, appoggiato coi gomiti sul davanzale della finestra, vede confondersi nel paesaggio urbano i campanili delle chiese e le ciminiere delle fabbriche. Starobinski, ricordo, commentava questa poesia sottolineando come la coesistenza di questi due elementi determinasse, appunto, la modernità. Ma allo stesso tempo lo sguardo del poeta è lo sguardo di colui che non si identifica con nessuno di quei due momenti. L'ideale della modernità si manifesta in tutte quelle attività che intendono mischiare i generi per ottenere una ricomposizione della città. Penso ad esempio ad alcune delle "grandi opere" (espressione tipicamente francese) realizzate a Parigi durante i due settennati di Mitterand, come la Piramide del Louvre. Alcune di queste opere hanno tuttavia anche un significato diverso, poiché contribuiscono alla edificazione di nuovi quartieri, come quello della Grande Arche nel quartiere della Défense. Possono anche contribuire a rimodellare fisicamente un'area, come è accaduto con il grande Ministero delle Finanze costruito da Chemetov nel quartiere Bercy di Parigi. In questi casi assistiamo alla formazione di qualcosa che è contemporaneamente al di qua e al di là dell'ideale della modernità, a una applicazione del doppio movimento che caratterizza la contemporaneità e che unisce una forma di segregazione locale all'interno della città con un ideale di comunicazione globale.
Probabilmente la memoria si va affievolendo; le condizioni della memoria cambiano, dato che la città-memoria è anch'essa sottoposta alla storia e in particolare alla storia futura, che definirà il significato dei nuovi edifici. Benjamin, come è noto, vedeva nella architettura delle gallerie coperte di Parigi del XIX secolo una anticipazione della città del XX secolo.
Ma la città-memoria è ancor più dipendente dalla storia passata, quella storia che, nel bene e nel male, evoca e ripropone dei ricordi conflittuali. Penso a Emmanuel Terray che ha scritto un libro intitolato Ombre di Berlino, in cui fa l'inventario dei diversi contrassegni storici rintracciabili in determinati luoghi o su determinati monumenti di Berlino. Vi si trovano testimonianze già quasi dimenticate e obsolete, come il memoriale sovietico di Treptow. Poi, certo, ci sono i cimiteri con le tombe degli uomini illustri e alcuni edifici che presentano, quasi fossero sezioni di scavi geologici, le sedimentazioni storiche di eventi rapidamente succedutisi: la Repubblica di Weimer, il nazismo, il comunismo, il dopo '89.
Dalla memoria all'incontro il passo è breve, dato che i riferimenti storici e i ricordi si presentano alla memoria con l'aspetto di individui. Ciò che contribuisce a questo avvicinamento è anche l'esistenza materiale e sensibile della città. La città è paesaggio, cielo, ombra e luce, movimento. È odore: un odore che cambia a seconda delle stagioni, delle situazioni, dei luoghi e delle attività. Questa dimensione sensoriale svolge un ruolo innegabile nei fenomeni della memoria. In una città ritroviamo, per nostro diletto o dispiacere, ciò che vi avevamo lasciato. Potrebbe essere ad esempio l'odore stantio e misto al disinfettante dei corridoi della metropolitana, o l'odore di carbone che aleggia su alcune città dell'Est europeo, o una luce particolare come a Bruxelles, dove talvolta il cielo è talmente azzurro e plumbeo da far pensare che Magritte fosse un pittore realista. Perciò incontrare la città molto spesso significa scoprirne i molteplici dispositivi sensoriali. Il romanzo e il cinema hanno utilizzato questo tema a modo proprio, dando luogo ad una sorta di operazione estetica che tende a suggerire delle considerazioni morali o sociali, tramite le immagini. È il tema del contadino che scopre la città, del provinciale che "sale" alla Capitale (questa è l'espressione che si usa in Francia) per scoprirvi un mondo diverso da quello che conosceva, un mondo agitato e febbrile, che include il lavoro, la festa e talvolta anche il vizio. Il frastuono, il movimento, le luci vengono contrapposti al silenzio, alla calma, all'oscurità o ai cieli stellati della campagna. Pensate ad esempio al contrasto rappresentato da Murnau, prima della guerra, nel film Aurora. Si tratta di un tema ricorrente e frequente dei romanzi di fine XIX secolo, che rimane valido a qualsiasi latitudine.
Lo shock dell'incontro con la città, con la vita urbana, non sempre è caratterizzato da uno scontro di ideologie o di abitudini. Può anche acquistare il valore di scoperta, di invito, di sollecitazione alla riflessione. In questo caso, va detto che la città non è più contrapposta ad un mondo diverso, non è più metafora di situazioni sociali o di convincimenti morali.
Essa diventa invece metonimia, personificazione.
È un aspetto della città (la sua configurazione architettonica, il colore, un palazzo) che dà a quella città una personalità, un carattere individuale, destinato a colpire la mente dell'artista, del pittore o scrittore. Prendo un esempio forse arbitrario: Paul Valéry nella raccolta intitolata Mélanges evoca alcune città europee, in particolare la cittadina francese di Montpellier. Sceglie questa località perché è rimasto profondamente colpito dalla purezza eccezionale dell'aria. Quello che più gli è rimasto impresso è una veduta urbana, uno squarcio pittorico, per così dire. Non citerò integralmente questo testo, che parla di una viuzza tra case di pietra grigia, che si apre in fondo sulla vista di una montagna, una montagna intensamente azzurra, circondata da alberi di pino. Questa per lui è Montpellier.
Il ricordo va a quanto scrive il geografo Augustin Berque a proposito di Tokyo, una città disposta in modo tale che da ciascuna strada si poteva praticamente vedere il mare o il monte Fuji. Poi l'inserimento di alti edifici nell'area urbana ha stravolto questa collocazione all'interno dello spazio più ampio. Si può quindi osservare grazie alla testimonianza degli scrittori (se ne potrebbero citare altri) come l'emozione momentanea, la personalizzazione e la identificazione della città possono sedurre l'autore.
Citerò un altro esempio, quello del pittore Fernand Léger, che nella sua corrispondenza, si riferisce spesso alle città in cui si trova. Abbiamo cartoline e lettere in cui egli parla a lungo di Marsiglia, Chicago, New York e Anversa.
La città, la personalità che essa ci presenta, ciò che esprime di una personalità ancora più ampia (il paese al quale appartiene), sono tutti elementi mediati dalla immagine. A New York Fernand Léger scopre la verticalità dei grattacieli e ne rimane "pietrificato". Non vorrei fare ampie citazioni dalla sue lettere, salvo questa frase: "L'eleganza di alcuni grattacieli è immediatamente stupefacente!" Immancabilmente in queste lettere seguono commenti sugli abitanti del luogo, i quali si adeguano anch'essi all'immagine della città. Egli parla degli americani in questi termini: "Questi splendidi barbari, capaci di digerire il cemento armato!" o "Un popolo preciso, elegante, di buonumore. Mi piacciono molto!" Un'altra città da lui molto amata era Marsiglia.
 Amava Marsiglia in quanto città cosmopolita, disordinata, dai colori vivaci. In una lettera del 1934 descrive Marsiglia, trovandola sempre magnifica e sempre "di traverso"; poi aggiunge: "Credo di essere un po' uguale a Marsiglia!". Circa un anno dopo a proposito di una delle sue opere (si tratta della decorazione di una palestra sportiva, esposta a Bruxelles, ma che era stata riprodotta anche su cartolina) egli scriveva: "È bella e popolare come una via di Marsiglia. Ha proprio un'aria da Costa Azzurra. Mi piace: è di una volgarità perfettamente riuscita!" In tal modo la personalizzazione è veramente completa: la città evoca l'uomo, l'uomo crea un'opera e l'opera assomiglia alla città.
Ciò che qui vorrei sottolineare è come, attraverso la sollecitazione sensoriale e le emozioni, la città giunga a rappresentare simbolicamente la molteplicità degli esseri viventi. In altre parole, la città può avere una esistenza immaginaria, solo in quanto ha una esistenza doppiamente simbolica. Essa simbolizza coloro che vivono o lavorano in città, cioè tutta la comunità, formata da persone che hanno occasione di incontrarsi e parlare tra di loro, che intrattengono una esistenza simbolica nel senso primario di questo termine: si completano vicendevolmente e il loro rapporto ha un significato. Questo significato sociale rappresenta la condizione minima necessaria perché possa svilupparsi il procedimento immaginario delle forme metaforiche e metonimiche, cioè di quelle forme che ritroviamo nell'arte, nei romanzi e nella poesia. È grazie a questo significato anche che tutti possono apprezzare i ritornelli, i motivetti delle canzoni che parlano della città; quando vi è un legame profondo e quando queste canzoni "attecchiscono", esse divengono parte inscindibile della componente immaginaria. Mi spingerei ad affermare che non è affatto ozioso chiedersi perché alcune città sono presenti nei testi delle canzoni e altre no, o perché non vi troviamo più quelle che magari vi figuravano in passato. Il tema dell'incontro con la città è quindi strettamente legato a quello dell'incontro nella città. L'incontro in città può essere considerato da diversi punti di vista, che riassumerò brevemente.
Il primo punto di vista è quello ricordato da Michel De Cereau quando sostiene nel suo libro L'invenzione del quotidiano che bisogna saper scendere dal World Trade Center, che significa che bisogna riuscire a dimenticare la planimetria urbana, legata alla viabilità, per ritrovare invece, al livello del suolo, la libertà propria del pedone. Essa consente, nelle città dove camminare è ancora possibile, di comporre la propria passeggiata così come si potrebbe scrivere un libro.
Il secondo punto di vista è quello del surrealismo e dell'attesa romanzesca. Penso ad André Breton e alla figura che gli appare un giorno in Boulevard de Magenta: Nadja. È una figura che non poteva non apparirgli, dato che Breton ogni giorno faceva la stessa passeggiata osservando attentamente le persone. Ma certamente per provocare questo incontro bisogna che esista quel tipo di vita cittadina e quella società.
Il terzo punto di vista è quello dell'attenzione fluttuante, come dicono gli psicoanalisti.
L'attenzione fluttuante di Breton che passeggia per la strada è possibile soltanto in un contesto animato dai flussi del lavoro e del tempo libero. Questa attenzione richiede la presenza di un ordine, imposto da una società dinamica. Tale vincolo, in un certo senso, arricchisce l'immaginario. La città è il punto fisso di questo immaginario, mentre l'immaginario di per se riflette la forma della città funzionale e l'ordine generale al quale sono sottoposti gli incontri che si verificano nella città.
Ma cosa ha a che fare ciò con la città-finzione? Vi propongo una breve digressione che ci consentirà di esaminare rapidamente il fenomeno che potremmo definire "messa in finzione del mondo". Sempre più il mondo si va organizzando per essere visto, fotografato, filmato e, alla fine, proiettato su uno schermo. Ogni notte le località più prestigiose, i monumenti cittadini più famosi, vengono illuminati per i visitatori. Sempre più ci viene proposto in spettacolo quello che noi stessi ci aspettiamo: delle immagini. Possiamo fare un esempio che riguarda il turismo: chiunque vada in visita al Mont Saint-Michel si farà strada a fatica verso la cima di quella località, perché incontra per strada innumerevoli punti di vendita di materiale fotografico e cinematografico. Insomma, vi mostrano il Mont Saint-Michel meglio di quanto riuscireste a fare visitandolo di persona. Ma, dato che i visitatori vogliono comunque fotografare, si è pensato di sistemarli in una sala buia dove vengono proiettate delle immagini; qui possono mettere in funzione i loro flash: essi filmano un film. I responsabili di alcune agenzie di viaggio stanno già pensando di fare visitare anticipatamente ai loro clienti le località più interessanti, che verranno riprodotte in forma tridimensionale su Internet.
Questo "antipasto" turistico tutto sommato non è poi più virtuale del turismo incentrato sul "futuro anteriore", proprio di coloro che guardano costantemente da dietro alla macchina fotografica. Forte di questi primi successi, la "resa finzionale" del mondo diventa sempre più ambiziosa. In aperta campagna nascono nuovi mondi: i parchi di divertimento.
Disneyland ne costituisce l'archetipo, con le sue finte strade, una finta città americana, falsi saloon, un finto Mississippi, un falso castello della Bella Addormentata.
Vari personaggi disneyani corrono tra questi luoghi fittizi e nell'insieme si forma una finzione al cubo. In realtà la finzione delle fiabe europee era già stata trasposta sullo schermo e attualmente ritorna nella realtà a disposizione dei visitatori. Immagini, immagini, immagini... come si comportano i visitatori? Naturalmente la prima cosa che fanno è quella di filmare, riportando nelle scatole nere tutti quei personaggi che non avrebbero neanche dovuto uscirne, ma contemporaneamente aggiungono anche se stessi o i propri parenti e amici ai personaggi filmati. Moglie e figli, nonni e nonne potranno presto rivedersi tutti sullo schermo televisivo, insieme a Topolino, Paperino e il Principe Azzurro.
La grande quantità di svaghi, i club di vacanza, i parchi di divertimento e di residenza all'interno dei Central Park, ma persino le città private che sorgono in America o le zone residenziali fortificate e controllate che vengono costruite nelle città del terzo mondo, senza legame con il resto della città, formano quelle che io definirei "bolle di immanenza".
Altre bolle di immanenza sono costituite ad esempio dalle grandi catene di alberghi o dai centri commerciali che riproducono sempre gli stessi arredi, diffondono la stessa musica, propongono i medesimi prodotti in ogni angolo del mondo. Le bolle di immanenza sono l'equivalente "finzionale" delle cosmologie. A differenza delle grandi città moderne, esse formano dei mondi chiusi, contrassegnati da riferimenti plastici, architettonici, musicali e testuali. Questi ci consentono di orientarci al loro interno, in quanto si tratta di riferimenti più concreti e comprensibili di quelli utilizzati nelle cosmologie antiche.
Infatti le cosmologie sono delle visioni del mondo. Nelle bolle di immanenza è esclusa la simbologia, mancano le modalità di rapportarsi agli altri. La simbologia è sostituita da un codice di relazioni tra gli utenti. Le bolle di immanenza costituiscono delle parentesi che possono essere aperte o chiuse a piacere, versando la tariffa prevista.
Al di là di tali esempi dobbiamo notare che il cerchio, la ripetizione, l'eco, costituiscono oggi delle figure dominanti, applicabili a dimensioni estremamente variabili. I satelliti girano attorno alla terra, la osservano, la fotografano. I satelliti fissi sono utilizzati per captare le immagini che vengono trasmesse dalla parte opposta del globo.
Una rete di rapporti commerciali avvolge la terra, l'arredo richiama un altro arredo, la pubblicità richiama un'altra pubblicità, la copia celebra la copia. Così la finzione diventa ancora più spinta: non si limita più a creare delle parentesi, ma affronta direttamente la realtà con l'intento di trasformarla. È un'impresa facile finchè si tratta di creare una certa atmosfera musicale nei supermercati o nei corridoi del metrò di Barcelona.
Sono stato nel metrò di Barcelona e posso dire che lì ogni tanto ti assale l'impressione che stai camminando a grandi passi dentro una specie di schermo, accompagnato una musica gradevole, come nel finale di un film in multicolor.
L'impresa diventa molto più ambiziosa quando si cerca di imporre quelli che sono i propri criteri alle forme stesse della città. Qualche mese fa i giornali riportavano che uno studio di architetti (credo che si chiami Architectonica) e la Disney Corporation avevano vinto (rispettivamente come esecutori e come promotore) un concorso bandito dal Comune e dallo Stato di New York. Tale concorso riguardava diverse opere: la realizzazione di un Hotel e di un centro commerciale e ricreativo in Time Square, nonché il restauro di un albergo centenario, il "New Amsterdam", nella 42a strada di Manhattan.
Disney Corporation, a quanto pare, dovrebbe anche sviluppare un programma di intrattenimento a Central Park e aprire un grande negozio al n  711 della Quinta Avenue per la vendita di tutti i sottoprodotti dei suoi film. Il progetto colpisce per la sua spettacolarità: nel nuovo Hotel sono previsti 47 piani e 680 camere. L'edificio è delimitato da una scanalatura percorsa da un raggio galattico. Il Disney Vacation Club, che si presenta invece come un immenso container composto da cento appartamenti, sarà ricoperto da dieci schermi televisivi giganti (uno per ogni piano) e da numerosi pannelli luminosi. L'aspetto più rilevante di questo progetto è che esso colloca nel centro della città - come fosse una normale componente urbana - il mondo di Superman, un mondo che all'origine era stato concepito proprio con l'intento di creare una imitazione della città. Gli architetti hanno scelto una "estetica del caos", ma si tratta pur sempre di un caos da fumetto, da cartone animato. Il progetto che si sta realizzando a Time Square rispecchia invece l'estetica dei centri di divertimento già esistenti.
Questa estetica intende rimanere estranea ad ogni dibattito riguardo al senso dell'opera; ciò significa che l' "effetto Disney" ha una alta considerazione di se stesso, trova in se il proprio riferimento, si costituisce come auto-referente per il futuro. La finzione imita la finzione. L'esempio disneyano non è altro che il risultato più estremo della "messa in finzione" alla quale accennavo, cioè di quel processo di "spettacolarizzazione" che caratterizza la nostra epoca.
Esso ci dà anche una idea di quello che sarebbe un mondo di pura finzione, anche se forse noi viviamo già, in parte, in un mondo di questo tipo. Si potrebbe anzi pensare che i "non-luoghi" che ho evocato in altre occasioni si misurano proprio a partire dalla loro "capacità di essere finzione". In un aeroporto o in un grande albergo non si è mai molto lontani da Disneyland; d'altronde è raro non incontrarne qualche traccia in una vetrina o su un manifesto. In Asia, in America o in Europa le orecchie di Topolino sono all'ascolto del mondo.
Tutti gli esempi che ho citato sono certamente degli esempi-limite, che esprimono tendenze e rischi, non certamente la globalità sociologica delle città del mondo. Comunque è bene tenerli presenti per ricavarne qualche insegnamento e per chiederci quali possono le condizioni utili ad evitare che la città-finzione distrugga la città-memoria e la città- incontro.
Mi pare, prima di tutto, che gli urbanisti, gli architetti, gli artisti, i poeti dovrebbero acquisire la consapevolezza del fatto che i loro destini sono collegati, perché identica è la loro materia prima. Senza immaginario non ci sarebbe più la città e senza città sparirebbe l'immaginario. Il legame che l'immaginario e i suoi prolungamenti affettivi costruiscono con lo spazio è un legame complesso.
Nella periferia parigina alcuni grandi edifici sono stati distrutti, invocando il principio della bellezza architettonica; la loro esplosione è stata trasmessa in diretta alla televisione e in quella occasione si sono potuti vedere alcuni dei vecchi abitanti che si mettevano a piangere. Si è così scoperto in diretta TV che la felicità estetica degli esseri umani non è affatto una cosa semplice.
La mia seconda osservazione riguarda un problema che si manifesta con particolare importanza in Francia (ma credo anche in Europa e altri Paesi del mondo): il problema delle periferie urbane e del tessuto urbano al di fuori del centro cittadino. In queste periferie si concentrano i "non luoghi" del consumismo, il traffico, i grandi centri commerciali, gli aeroporti, gli svincoli autostradali, i depositi, le pubblicità aggressive, le stazioni di servizio ecc.
Sono queste le zone dove si riscontra il numero più elevato di disoccupati e dove si concentra la popolazione degli immigrati. Queste periferie sono talvolta considerate modelli di anti-urbanismo, in tutti i vari significati del termine.
Una frontiera separa questi spazi degradati dalla città-finzione, che talvolta viene offerta in spettacolo a coloro che stanno fuori dalla città.
A Parigi, a mio parere, un simbolo della città-finzione è il Forum des Halles. Interamente costruito sotto terra, questo è il luogo dove vengono esposte tantissime cose e dove la metropolitana regionale (R.E.R.) trasporta gli abitanti delle periferie che vogliono venire a consumare le immagini in città. Certo, quelle "banlieux", quelle periferie hanno bisogno di attenzione sociale, economica, civile e politica. Bisognerebbe aggiungere che devono essere ricreate anche le condizioni dell'immaginario, poiché questo si manifesta sempre là dove esiste una socialità effettiva. Si potrebbe persino dire: se fate una buona politica tutti questi luoghi, tutte le periferie, le ritroverete nei testi delle canzoni.
Ci fu un tempo quando per sembrare almeno un po' parigini si cantavano posti come Nogent, Chaville, Joinville le Pont...
La gente stessa, i giovani immigrati, i giovani nordafricani, si impegnano a creare le proprie forme d'arte, ma quasi sempre ciò avviene in polemica con la città. In ogni caso l'esistenza di forme artistiche, come il rap e simili, è un segno a mio parere positivo. Vorrei terminare con un ultima osservazione incoraggiante: in alcuni film che ho trovato molto stimolanti i registi hanno cercato di rivalutare gli spazi informi della città. Penso a Caro Diario di Moretti, quando il protagonista si inoltra nella periferia di Roma, oppure a Lisbone Story di Wenders, in cui l'attenzione si rivolge ad un mondo di apparenze trascurate. Si potrebbe sostenere che in entrambi i casi l'immagine precede la funzione, indica i luoghi da costruire o re-inventare, definisce di fatto uno spazio per gli incontri, indugiando su terreni abbandonati, zone marginali, deserti provvisori. La cinepresa con il suo andirivieni sembra un cane da caccia che ha fiutato la preda e ci segnala che quella Roma fa sempre parte di Roma, quella Lisbona è anch'essa Lisbona, e che non dobbiamo perdere le tracce dell'immaginario in fuga. Poiché l'immaginario è sempre un segnale positivo, credo che non valga la pena di occuparsi della "fantascienza", di quelle immagini fittizie che non possiedono una armatura simbolica. Il nostro intento invece deve essere quello di ri- simbolizzare il reale e di ri-suscitare, se possibile, l'immaginario e la vita.