PLACES AND WAYS

Roberto Pinto

MODI E LUOGHI


L'oggetto di questo libro non è esattamente il vuoto, sarebbe piuttosto quello che vi è intorno, o dentro. All'inizio insomma, non c'è un gran che: il nulla, l'impalpabile, il praticamente immateriale: c'è la distesa, l'esterno, quello che ci è esterno, ciò in mezzo a cui ci spostiamo, l'ambiente, lo spazio tutt'intorno.
Georges Perec.(1)

Pratiche e tematiche della nuova generazione artistica

Luogo o spazio
Si può partire facendo alcune riflessioni sul modo in cui si rappresenta il luogo che non è più visto come una struttura definita e stabile, piuttosto una situazione capace di essere generata da (o generare dei) rapporti umani e relazioni sociali. è per questa caratteristica che credo si debba usare il termine "luogo" piuttosto che quello di "spazio" che è una parola senz'altro più legata alla storia dell'arte e alla concreta realizzazione di un oggetto - scultura. Luogo ci rimanda più ad un'idea di percorribilità, di ambiente o, in termini artistici, di installazione.

Molti sono stati gli studi a livello urbanistico, filosofico, economico o sociologico che si sono incentrati sulla necessità di creare un luogo (o riflettere sui problemi di vivibilità degli stessi) e possiamo considerare molte opere contemporanee delle riflessioni sul rapporto che l'artista instaura con il proprio l'ambiente, inteso non soltanto in termini ecologici, ma come sistema complesso con cui interagire e in cui rappresentare se stessi. Anche perchè uno degli elementi che caratterizzano la trasformazione della società attuale è la perdita di identità dei luoghi. Le nostre stesse case prima sinonimo di luogo di rifugio, di spazio chiuso, sono diventate centraline per scambi di informazioni (con telefono, modem e fax) per una potenziale comunicazione globale.
In questa situazione di profondo cambiamento, anche la rappresentazione dei luoghi diventa da ridiscutere radicalmente2. Si è parlato spesso dell'impossibilità di rappresentare, ma questa sottende il più delle volte una incapacità a trovare delle forme adeguate, diverse (un po' come è avvenuto con la difficoltà a denominare le nuove forme di arte, architettura ecc. chiamandole sempre neo- o post- qualcosa). Certamente sarebbe ingenuo pensare la rappresentazione del territorio in termini di paesaggismo, di semplice registrazione di alcune caratteristiche, proprio perchè il nostro territorio è sempre di più costituito essenzialmente di una rete di comunicazione e, per opposizione, dalla impossibilità a comunicare. Alcuni di questi luoghi sono caratterizzati proprio dalla loro anonimità, dal loro essere sempre uguali a se stessi, in una sorta di impersonalità che li rende facilmente frequentabili da tutti ma, per le stesse ragioni, assolutamente non vivibili da nessuno.
Più di tutti questi non-luoghi sono posti dove il passaggio è l'elemento determinante: la stazione, l'aereoporto, l'ipermercato, l'albergo, la sala di aspetto di un medico o di un dentista, le stazioni del metrò3. Ma lo stanno diventando sempre di più anche le fabbriche, i luoghi di lavoro e forse anche le nostre stesse abitazioni. Posti anonimi dove poter diventare esseri anonimi.
Fotografare questi non luoghi o creare ambienti per la socializzazione delle persone non vuol dire ancorarsi ad una società vecchia, obsoleta, ma è cercare di stare dalla parte degli uomini, è riportare la battaglia in un territorio dove le relazioni4 tra le persone diventano la cosa essenziale e i luoghi o l'arte stessa diventano un modo per facilitarli, per mettere l'accento sopra questi aspetti.
Il luogo rimanda al modo quindi, in una stretta connessione tra se stessi e ciò che ci circonda, tra individualismo e necessità di condividere.

Luoghi uguali o luoghi diversi - Sono rimasto affascinato sempre dalla vastità di spazi rappresentato nelle fotografie di Jeff Wall, o nella capacità di lavorare sui grandi volumi di tanta arte americana ma credo che ci sia una fondamentale differenza di percezione dello spazio da parte di chi vive in Europa e di chi vive in Nord America. Chi ha semplicemente fatto un viaggio in quei posti non può che notare queste gigantesche estensioni di territorio dove non ci sono città ma soltanto alcune case distanziate da chilometri di territorio. E anche le stesse città, la loro conformazione e la loro estensione, riflettono questa differente prospettiva, questo differente "occhio".
Ma non è sulla contrapposizione tra spazio europeo e spazio americano che si vuole basare la mia riflessione, ma semplicemente volevo partire da questo indizio per analizzare come la spersonalizzazione dei luoghi di cui tanto si parla è senz'altro vera e rimane una caratteristica dei nostri tempi, ma esistono delle spinte in senso contrario che ci fanno rimanere stretti in un conflitto tra locale e universale, tra globalizzazione e parcellizzazione e questo ci si ripresenta anche in questo caso: il punto di vista di questa spersonalizzazione è diverso da quello degli artisti in mostra, non è quello sistematico, quasi scientifico, di Dan Graham (ma si potrebbe obiettare si tratta di una differente generazione), non è neppure quello già citato di Jeff Wall.
Ma allora come conciliare queste spinte diverse a considerare il luogo importante e caratterizzato oppure considerarlo completamente uniformato e, in un certo senso, poco importante?5 Come rappresentare lo spazio? Come rappresentarsi all'interno dello spazio? Come tentare di navigare in questo flusso informativo senza perdersi, annullarsi completamente nella globalizzazione che non è altro che l'uniformarsi ad un modello occidentale appiattente? Allo stesso tempo, come poter rimanere degli individui rivendicando le proprie origini e la propria cultura senza per forza ricadere nel particolarismo che sta seminando guerre in varie parti del mondo proprio per la rivendicazione della diversità? Anche affrontando il contemporaneo sotto questo punto di vista affiorano contraddizioni vistose che non possiamo ignorare e con cui dobbiamo necessariamente imparare a convivere.
Così bisogna un po' farsi largo nella tanta retorica che si è fatto sulla perdita del centro, sulla smaterializzazione in una società di comunicazione in cui non si ha più bisogno di essere in un luogo preciso per poter agire.(6) Questa è sola una faccia di una medaglia che ha per converso la constatazione che tutti rimaniamo ancorati sia a livello culturale che economico a quello che succede nei centri nevralgici (che evidentemente si stanno moltiplicando). Le città diventano sempre più importanti come luoghi di centralizzazione delle funzioni di direzione e controllo di qualsiasi attività, compresa quella delle multinazionali che, naturalmente producono e realizzano i loro manufatti in una logica di globalizzazione (mettendo le fabbriche nel terzo mondo, in oriente o in qualunque altro luogo dove costi poco farlo) ma che hanno la loro testa in uno dei nodi principali da dove parte questa comunicazione, una delle grandi megalopoli che stanno sempre più caratterizzando questi anni(7).
Si privilegia comunque avere una visione delle merci (magari merci "informazione"), piuttosto che parlare di persone, rimanendo in una monodimensionalità che spesso ci fa perdere il contatto con la realtà(8).

Tra Autoritratto e Relazione con gli altri - Non c'è più una grande tensione verso il futuro (analogamente verso il passato) anche perchè è definitivamente tramontata l'idea di progresso lineare e di fare parte di una linea evolutiva che ci porterà sicuramente verso un mondo migliore. L'unica realtà che si conosce è quella che si vive. Questo appiattimento del tempo potrebbe però essere un tentativo di liberarsi di catene molto pesanti, dando la possibilità di rincontrare il proprio corpo, accorciare le distanze con gli altri, in un certo senso riappropriarsi della possibilità di agire.(9)
Anche se l'arte, così come la scrittura, sono senz'altro affermazioni di identità10, il tentativo di sopravvivere a se stessi, come tensione verso l'immortalità, perde ora gran parte delle sue ragioni di esistere e gli artisti (ma come tutte le altre persone) dimostrano la loro "paura" di dover agire, di doversi relazionare con il mondo in modo non neutro, tale da far scaturire una "visione del mondo". Si ha paura analogamente di ricadere nell'ideologico, nello slogan o in quella sociologia o filosofia di basso livello che è uno dei rischi dell'arte dei nostri giorni. La soglia dell'inazione è molto vicina, ma viene evitata ripartendo dalle proprie relazioni quotidiane; si evita in questo modo anche la possibilità della completa mancanza di comunicazione che avviene quando ci si rifugia completamente in se stessi.
Si potrebbe fare una metafora in termini psicologici, affermando che l'arte continua ad essere un mezzo per creare degli autoritratti, ma in cui gli artisti non si accontentano più di cogliere dal proprio volto o dal proprio atteggiamento quel particolare da trasmettere, ma cercano invece di autodescriversi attraverso la mancanza di identità dei luoghi che ci circondano, o mediante l'esplicitazione delle proprie esigenze di uscire (in una società di comunicazione) dalla propria solitudine per riaprire un discorso di comunità, per rimettere in comune i propri simboli11, oppure per cercare di realizzare delle opere collettive12. Manca quindi il tempo (e ancora una volta il luogo) per stare con se stessi, ma allo stesso tempo manca un momento (e ancora una volta il luogo) della socialità, negato all'esterno, ma impossibile anche all'interno del proprio spazio. Rimaniamo quindi in una perenne situazione di alienazione.Non sempre l'autoritratto è esplicito, quindi, a volte si tratta di inserire se stessi all'interno dell'opera, come uno dei meccanismi di funzionamento dell'installazione, della performance o del quadro.

Modi e Luoghi - Da questa situazione caotica partono molte delle rappresentazioni e delle opere che sono esposte: da veri e propri non-luoghi fotografati o dipinti alle rappresentazioni di se stessi come interfaccia per stabilire una relazione con il mondo, passando per chi fa del proprio agire sociale, o del costruire il proprio luogo, il proprio modello estetico di espressione. Si va quindi da un modo più "tradizionale" di rappresentare, tramite fotografia o pittura (in cui è l'artista che sceglie l'immagine che meglio si presta ad essere una rappresentazione) a quelli che intendono l'arte come una forma di comunicazione e cercano di creare un luogo relazionale (dove creare le premesse per la partecipazione di altre persone) prima ancora di pensare che immagine poi ne possa venir fuori.
Questa mostra vuole, quindi, tentare di trovare un "territorio" comune di discussione in cui possano emergere le diverse impostazioni e le diverse idee anche attraverso le differenti sperimentazioni tecniche o di materiali usati, senza perdere di vista le singole identità.Luisa Lambri è evidente la volontà di rendere anonima, quasi neutra, la propria esistenza nel mondo. C'è quasi la volontà di nascondersi in una fusione vitale con ciò che ci circonda. I luoghi che noi frequentiamo diventano assolutamente non riconoscibili. Non è un gioco per mettere alla prova la nostra memoria visiva, ma è la rappresentazione del continuo assorbimento di se stessi nel luogo che ci circonda e nella società di cui facciamo parte (soprattutto se abitiamo in un grande conglomerato urbano). Ne sto tracciando una lettura quasi orientale ma anche l'uniformità delle dominanti cromatiche spinge in questa dimensione di voluta eliminazione del glamour, dei picchi emotivi e visivi di cui siamo bombardati oggi soprattutto dalla pubblicità ma che, nel suo modo di fare, ha senz'altro invaso anche tutti i fenomeni culturali e visivi, non ultima, quindi, l'arte. Luisa Lambri lavora a favore di una voluta immobilità che non vuol dire passiva accettazione di un'esperienza già vissuta, ma di una maggiore intensità di relazione con l'esterno, con quello che ci è contiguo, con quello che siamo.
Più filmico, più legato al mistero (ma non in termini di esoterismo o di religiosità) che circonda il nostro vivere quotidiano è il lavoro di Alessandra Tesi. Qual è la distanza tra realtà e finzione? la realtà è semplicemente il nostro modo di guardare le cose, come le percepiamo, la quantità di valore metaforico di cui carichiamo le cose. E l'ambiguità delle fotografie esposte da Alessandra Tesi è molto alto, perchè si caricano di questo sottile disagio che ricaviamo dal non riuscire a governare tutti i termini della nostra percezione delle cose e della realtà. Il nostro raziocinio è messo a dura prova dalle sue immagini, dal differente punto di vista in cui siamo immersi. Non è semplicemente la differente grandezza delle cose (dilatate spesso oltre i loro limiti naturali) ma la situazione spaziale che ci avvolge nei suoi lavori. I luoghi anonimi per eccellenza le camere di albergo, o i corridoi, le cucine e i bagni delle case, diventano oggetti di analisi. Un'indagine che non ha volontà scientifiche nè statistiche, ma in qualche modo solletica la nostra vena animista e ispirano tutta la nostra voglia di vedere mistero dietro le cose. La vena metafisica di de Chirico o di Carrà è mischiata con le immagini di David Lynch o dei fratelli Coen. Il surreale è fotografato; la fotografia è la prova dell'esistenza di una diversa realtè allo stesso modo che questi lavori sono la prova del potere falsificatorio della fotografia.
Un'attitudine analoga nei confronti della rappresentazione del nostro quotidiano spazio vitale la troviamo anche nel lavoro di Luca Pancrazzi che si muove attraversando completamente le possibilità espressive che i vari mezzi tecnici possono dargli. Le sue opere sono a seconda delle necessità quadri, installazioni, fotografie, e spesso sono realizzate combinando insieme più aspetti, soprattutto se si analizza il processo che sta alla base dell'opera. I non-luoghi di cui abbiamo già parlato sono il territorio della sua indagine13, interni svuotati da ogni presenza umana o esterni, periferie urbane in cui è assolutamente impossibile ricercare origini o originalità. Spazio e tempo si fermano bloccati non per sottolineare la dimensione metafisica della realtà, ma perchè schiacciati dalla mancanza di memoria che ci circonda. Queste immagini sono un un continuo viaggio alla ricerca di un punto di vista diverso che ci faccia riflettere sia sul nostro mondo di immagini (ma anche di luoghi concreti) sia su quel tempo con cui è difficile trovare una relazione che non sia sempre quella dell'angoscia e del consumo.
Simile, per capacità di attraversare i più differenti media, è il percorso di Deborah Ligorio che spinge sempre il suo lavoro verso una comunicazione diretta, immediata, senza troppi concettualismi. Il problema della divisione tra arte e vita non esiste, o almeno finisce di essere un problema. Lo dimostrano i suoi interventi, sia quando ha allestito uno spazio accogliente e riposante all'Openspace (in una mostra chiamata Aria di sosta e realizzata con Alice Bonfanti), sia quando costruisce un vero e proprio corto d'animazione, oppure quando usa un sito web dove esporre alcune immagini realizzate appositamente. Non c'è distacco tra l'artista che sa cosa è bello - lo crea e lo mostra - e lo spettatore, ma c'è la costruzione di un territorio comune (magari virtuale come su internet) dove discutere o più semplicemente incontrarsi. Anche Sara Rossi cerca un contatto con le persone, anzi ogni suo lavoro è costruito con le persone che vengono coinvolte e che animano l'opera stessa. In lei c'è un'attitudine quasi registica di intendere il lavoro: l'artista crea le condizioni (il territorio) affinchè l'opera si realizzi. L'opera d'arte non è quindi soltanto gli oggetti creati ma le relazioni che si sono intessute anche prima e dopo il momento espositivo. Sono le storie che si dipanano dalla costruzione di quel territorio; storie che per vivere hanno la necessità di avere voci e ascoltatori e in cui spesso l'artista si trova nei panni di chi ascolta e registra questa memoria del presente.
In una serie di fotografie Stefania Galegati cerca, dipingendosi completamente, di aderire allo sfondo, all'ambiente in cui si trova immersa, in un estremo tentativo mimetico, costringendosi a diventare muro, colonna o qualsiasi altra cosa si trovasse dietro di lei. Se una sbrigativa lettura può risolversi nel considerare tale lavoro come l'espressione di una necessità di una fusione vitale (in stile New Age) o di una grave forma di sindrome di Zelig, credo che le ragioni del suo lavoro vadano cercate nella voglia di instaurare un gioco dialettico tra necessità di apparire - e di cercare in prima persona un dialogo con il mondo - e annullamento dell'artista per uscire dalla logica narcisistica di affermazione del sè che governa gran parte dell'arte contemporanea. Paura e volontà di azione trovano un punto di equilibrio in questo "farsi" ambiente, trasformare se stessi e il proprio lavoro in accoglienza e necessità di interazione. Non stupisce quindi che tra le opere presentate in questa occasione ci sia un tappeto di sfere di gomma, perfettamente stabile, ma non certamente tale all'apparenza. Anche qui è una contrapposizione tra opposti che governa il lavoro. Il tentativo di Stefania Galegati è quindi trasformare in ambiente il gioco dialettico che si instaura tra essere e apparire, tra immagine e reale, restituendo in questo modo quella ambiguità di cui sono pieni i luoghi che viviamo.
Più scientifico è l'atteggiamento di Luca Vitone il cui punto di partenza potrebbe essere il linguaggio nella sua capacità di rendere il significato delle cose, ma allo stesso tempo di azzerarle e di annullarle.14 A prima vista sembrerebbe quindi una visione distaccata e metalinguistica, ma alcuni degli elementi in campo, apparentemente neutri, sono quelli che mettono in crisi le nostre certezze. I nomi o la rappresentazione cartografica delle cose non sono le cose stesse, e questo è un modo per sottolineare quanto il nostro sia un territorio deprivato della sua identità e soprattutto quanto sia superficiale e piena di equivoci la relazione che ci lega al nostro "luogo". Per questo è necessario lavorare soltanto su delle ipotesi: una storia delle comunità per esempio; meglio se portatrici di una spinta utopistica come la tradizione anarchica di cui Luca Vitone va seguendo le tracce. Un doppio messaggio di libertà quindi: dalle convenzioni e dalla nostra falsa coscienza. Scientifico sembrerebbe anche il lavoro di Premiata Ditta teso spesso a classificare e a cercare di conoscere pesi e misure di ogni cosa. Ma quello che emerge da tutto il loro lavoro è che non risulta importante soltanto il risultato in sé, e la sua visualizzazione grafica in schemi e tabelle, quanto capire la distanza tra immagini e proprio contenuto. È un tarlo che scava in profondità, senza grande spettacolarità, con gesti semplici. Possono essere un grafico, una lavagna piena di simboli. Possono essere una serie di disegni oppure di fotografie (con più grande conforto del mondo dell'arte che si sente più rassicurato da questi materiali). Ma sono le nostre ossessioni quotidiane, che si mischiano alla presa di coscienza che viviamo in una società dove le condizioni di vita sono alienate e non rispondenti ai nostri bisogni di comunicazione e trasmissione di umanità. Quanti sono gli oggetti nella nostra casa? Quante sono le scritte pubblicitarie che incontriamo ogni giorno nel semplice percorso casa-lavoro? Semplicemente non ci facciamo più caso perchè sono parte della nostra vita. Ma quanto sono parte di noi questi oggetti che fanno il nostro luogo e che condizionano la nostra vita?
Wurmkos è un gruppo fondato circa dieci anni fa da Pasquale Campanella che ha cominciato a lavorare con persone con problemi psichici non per voler insegnare qualcosa o per cercare di capire che tipo di disagio vivevano queste persone. Non si voleva curare nessuno. Si cercava uno scambio con persone che non si sono mai trovate ad avere uno scambio di tipo paritario. Si trattava di ricominciare a inserire le persone all'interno della società ridandogli un ruolo. Per Wurmkos il luogo è veramente il modo perchè nasce all'interno del gruppo una sorta di intelligenza e di consapevolezza collettiva che fa di questa esperienza una vera comunità di lavoro in cui ognuno rivendica la propria individualità (direi anche il suo stile) ma che vive di confronto. Se in tutti i lavori di cui ho parlato finora la dimensione etica è sempre presente, in questo caso è davvero difficile stabilire i confini di etica ed estetica, di valori umani e di opere realizzate - quadri, sculture, installazioni, video. Attraverso un'esperienza come questa passa davvero l'idea che sia la persona che fa il luogo, che lo vivifica. Ma altrettanto sorprendente è la capacità che poi Wurmkos ha di trasmettere questa intensa carica vitale e questa sua libertà di oltrepassare i confini estetici.
Anche il lavoro di Enzo Umbaca cerca di creare un luogo, tentando di rompere quel meccanismo di non riconoscimento dell'altro che ha la sua manifestazione più evidente nella negazione del diverso, dell'extracomunitario. "La storia d'Europa è stata fino a tempi recenti una storia di sforzi per far coincidere confini politici ed etnici"15, e questo ci ha impedito, soprattutto in Italia, un vero confronto con le culture non occidentali che ha come sua diretta conseguenza la diffidenza e l'ostilità nei confronti di quelli che stanno "invadendo" il nostro spazio, perchè solo in quest'ottica si può vedere l'estraneo se lo si depriva (come si è fatto spessisimo in Occidente) della sua cultura e, di conseguenza, della sua dignità. Parlare, comunicare con loro, o mettersi nei loro panni (come fa in questo ultimo lavoro) per tentare di comunicare con la gente che passa, protetta dalla propria indifferenza, diventa la sfida di Enzo Umbaca, teso spesso a tentare di accorciare quelle distanze che ci impediscono di avere un rapporto paritario.
Il luogo di Cesare Viel è molto più intimo parte dalla sua scrittura come veicolo anche emotivo di trasmissione delle idee o delle sensazioni ed arriva negli ultimi lavori a incentrare la sua indagine sul luogo più intimo quella "stanza per sè" che evocava anche Virginia Woolf16 come elemento base per potersi dedicare alla scrittura. È una sorta di progressiva messa a nudo di se stessi in un tentativo di autodefinizione che non vuole avere niente a che vedere con narcisismo o solipsismo. Ci si apre per conoscere. si espongono anche le parti meno controllabili di se stessi - come lo stile della scrittura a a mano libera - e dei propri pensieri - come quando improvvisa con una canzone che vaga tra ricordi e sensazioni. Ma attraverso questa stanza Cesare Viel ci propone una visione di diapositive, un viaggio che ci racconta quanto, anche nella più intima delle situazioni, sia inscindibile il rapporto che noi instauriamo con l'esterno.

Premessa (infine?) - Mi sono accorto alla fine di aver giocato spesso con termini (qualche volta contrapposti) per cercare di ritrovare un senso (una complessità) all'interno di un campo di ricerca in cui spesso ci si limita a dire "mi piace" o "non mi piace". Allo stesso tempo il mio tentativo è stato quello di cercare delle chiavi di lettura, usando tutto quello che è portata di mano per provare a rispondere alla complessità degli stimoli proposti e rischiando di cadere (forse cadendo) nel baratro della psicologia e della sociologia a basso costo. Credo però che si debba comunque tentare una esplorazione all'interno di questo territorio cercando di mettere in relazione linguaggio specifico e società più in generale, vedendo una cosa come possibile lettura dell'altra. Ogni artista e ogni sua opera diventa quindi una tessera di un mosaico, una stazione di sosta, per tentare di leggere la contemporanietà secondo un punto di vista differente e viceversa alcuni aspetti della nostra società ci possono far scoprire un lato del lavoro di un artista in un continuo gioco di rimandi.

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto di essere arrivato allo stesso aereoporto da cui ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Seguendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro metteveno in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l'albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi con compratori e venditori di ferraglia; altre giornate uguali a quelle erano finite guardando attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi che ondeggiavano.
Perchè venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire.
- Puoi riprendere il volo quando vuoi, - mi dissero, - ma arriverai a un'altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un'unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all'aeroporto17. - Italo Calvino

1 Georges Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino, 1989. Ed. originale Espaces d'espaces, editions Galilee, Parigi 1974.
2 Cfr. Tiziana Villani, "Il territorio Performance", in Millepiani n.7, Milano 1996, dove tra l'altro scrive: "Performativo e polimorfo appare il territorio del quotidiano presente, le case, le strade, gli edifici sono allo stesso tempo luoghi di segregazione e luoghi porosi, aperti alla comunicazione, costretti come abiti sui corpi. Stimolato, depredato, smaterializzato, ma pure pirotecnico, desiderante, fantasmatico il territorio odierno indica la possibilità di dar luogo a pratiche diverse eppure tutte soggiacenti all'imperio di un dover essere e coesistere." Ma cfr. anche con tutta la rivista Millepiani, una delle sedi più interessanti del dibattito sulla relazione individuo-territorio e sulle sue implicazioni sociali, ma anche estetiche.
3 Cfr. Marc Augè, Un etnologue dans le mètro, Hachette, Parigi 1986. Ed. italianaUn etnologo nel Metro, Eleuthera, Milano 1994. Dello stesso autore vedi anche Non-lieux, Seuil, Parigi, 1992. Ed. italiana Nonluoghi, Eleuthera, Milano 1993.
4 "È lo sguardo e, possiamo aggiungere, il 'detto' degli altri che mi costituisce e delimita il territorio dove ci riconosciamo e dove nasciamo, sempre e ogni volta, insieme." Michel Maffesoli, Au creux des apparences, Plon, 1990. (pp233)
5 Cfr. Aldo Bonomi "La società fantasmagorica", Millepiani n°7, Mimesis Milano 1996. Bonomi scrive (...) Entrambi questi stili della contemporaneità individuano più che nel luogo nel modo, il processo fondante che produce senso. Nel modo di essere nomadi e nel fare esodo, di stare tra il locale e il globale sta la differenza. Certamente non è più il luogo che produce identità e differenza. Questo altro non è che un simulacro di relazioni corte, faccia a faccia, non più date. Il modo si sostanzia nel glocale che non è altro che il locale intriso e attraversato dalla modernità, un luogo in grado di stabilire relazioni lunghe con il mondo, oltre le relazioni corte di una comunità che non è più. Il glocale diviene uno spazio di crisi, uno spazio dell'attraverso ove si condensano le esperienze nella società globale e nella mondializzazione"
6 David Harvey, The Condition of Postmodernity, Basil Blackwell, 1990. Ed. italiana, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 1993. "(...) Ma il crollo delle barriere spaziali non significa che stia diminuendo l'importanza dello spazio (NDA: almeno in questa fase). (...) La mobilità geografica e il decentramento sono utilizzati contro un potere sindacale che tradizionalmente si concentrava nelle fabbriche della produzione in serie (...) Giungiamo così al paradosso centrale: meno sono importanti le barriere spaziali, maggiore è la sensibilità del capitale alle variazioni di luogo all'interno dello spazio e maggiore lo stimolo a differenziare i luoghi in modi che attraggano il capitale".
7 Cfr. Saskia Sassen, Cities in a World Economy, Thousands Oaks, Pine Forge Press, Usa-London-New Dehli, 1994. Ed. italiana,Le città nell'economia globale, Il Mulino, Bologna 1997. Sassen sottolinea inoltre che: "Sia i mercati nazionali sia quelli globali, come pure le attività integrate internazionalmente, richedono dei luoghi centrali dove realizzare e coordinare concretamente la globalizzazione. Le industrie dell'informazione inoltre necessitano di una vasta infrastruttura materiale comprendente dei nodi strategici dotati di un'iperconcentrazione di mezzi. Infine, neppure le industrie dell'informazione più avanzate possono fare a meno di un processo produttivo" (pag. 9).
8 Sassen, op. cit, pag. 16: "Nella rappresentazione prevalente i concetti chiave della globalizzazione, dell'economia dell'informazione e della telematica suggeriscono invariabilmente che il luogo non ha più alcuna importanza e che l'unico tipo di lavoro che ancora conta è quello del professionista altamente qualificato. Tale rappresentazione privilegia la capacità di trasmisione globale rispetto alla concentrazione di infrastrutture che la rendono possibile; privilegia l'informazione in quanto oggetto rispetto ai lavoratori che la producono, dagli specialisti alle segretarie; e privilegia la nuova cultura aziendale transnazionale rispetto alla pluralità di ambiti culturali, fra cui quello delle culture d'immigrazione trapiantate nei nuovi territori, al cui interno si collocano molti lavori 'altri' dell'economia globale dell'informazione".
Cfr. anche con Ulderico Bernardi, La babele possibile, Franco Angeli, milano 1996, dove a pag. 89 scrive: "L'estraniazione della persona dalle appartenenze comunitarie doveva segnare il trionfo della filosofia illuminista, con propaggini estese fino al capitalismo contemporaneo, con la sua esaltazione del mercato unico giudice, in una visione aziendalista del mondo, che è la più recente incarnazione del mito di una società assolutamente razionalista".
9 Cfr.Hannah Arendt, The Human Condition, University of Chicago, 1958. Edizione italiana, Vita activa, Bompiani, Milano 1994.
10 Cfr. Francesco Remotti, Contro l'identità, ed. Laterza, Roma-Bari 1996. A pag. 54 Remotti scrive: "L'identità si nutre di scrittura, ovvero la scrittura offre all'identità (al bisogno di identità) un'armatura particolarmente efficace. Il testo scritto à qualcosa che inchioda l'identità, che la stacca dal "flusso" e dal turbinio delle "possibilità alternative" per fissarla in una forma perenne (o quasi), in una forma comunque che si è tecnologicamente armata per cercare di sfidare il tempo".
11 fr. Bernardi, Op cit. p. 15 "Ma i simboli per vivere hanno bisogno di essere condivisi, soprattutto scambiati. Per questo i luoghi classici della cultura diventano nella concezione geertziana, 'la piazza, il cortile, il mercato', e la loro animazione, con tensioni, conflitti, e opportunità di relazioni che si dilatano dal vicinato al mondo. Aree aperte che offrono occasioni di incontro e d'ibridazione, di trasmissione sociale e di relazione culturale, in positivo e in negativo. Immagini metaforiche comunque più veritiere di quella che tenne banco per decenni nelle relazioni interetniche: il Melting Pot, crogiolo dove tutte le culturedovevano fondersi in una". E il libro citato da Bernardi: Clifford Geertz, The interpretation of Cultures, Basic Book, New York, 1973 (tr. Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987).
12 Cfr. Pierre Lévy L'Intelligenza collettiva. Per un'antologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996. Ed originale pubblicata da La découverte, Parigi 1994.
13 Mi sembra quindi una felice convergenza il fatto che nel libro-catalogo della mostra di Luca Pancrazzi alla galleria Mazzoli di Modena (ottobre 1996) uno dei testi in catalogo sia firmato da Marc Augè più volte citato nel testo.
14 Cfr. Luca Vitone, Il luogo dell'arte, catalogo della mostra alla galleria Paolo Vitolo e Emi Fontana, Milano 1994. Dove scrive nell'introduzione a una mostra in cui erano esposte le piantine di alcune gallerie: "(...) La loro importanza nominativa viene negata tanto da affermare che un luogo vale un altro. In questo caso ciò che appare prende il posto di cio che à, tra un luogo e un altro non esiste più una sostanziale differenza. Un contenitore nominativo, in questo caso lo spazio che mostra le planimetrie, diventa un contenitore mentale che esponendo l'idea di se stesso assume il ruolo di veicolo di altri involucri. Il luogo dell'arte perde il suo valore di verità finita e assume quello della proposta. Il suo compito è di offrire un'ipotesi di verità essendo cosciente di arrivare solo ad una possibile conclusione."
15 Nathan Glazer, Ethnic Dilemmas 1964-1982, Harvard U.P., Cambidge, Massachussets e Londra, Gran Bretagna, 1983.
16 Virginia Woolf, A Room of One's Own, Quentin Bell and Angelica Garnett, 1929. Ed. Italiana, Una stanza tutta per sè, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1963, ripubblicato da Il Saggiatore, Milano 1991.
17 Italo Calvino Le città invisibili, p. 135, Einaudi, Torino 1972.
Luoghi e Modi