Altri sguardi/note critiche al margine

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Indice :

1 Si può rifare la storia?

2 La posizione dell'artista nello spazio: coesistenza o antagonismo?

3 La visione dell'opera: quale lo spazio deputato del fruitore?

4 Il tempo interviene sul lavoro: la documentazione é l'opera?

5 Lasciare la presa o ri-attuare la visione?

6 Altri sguardi/note critiche al margine


































A chiusura di questo dilagante percorso di scrittura, ho chiesto a tre curatori e critici un contributo a riguardo, scegliendoli in relazione a 3 diversi gradi di separazione da "Vendetta":

Claudio Libero Pisano, curatore dell'installazione;

Stefano Taccone, lettore dei miei scritti e visitatore dell'opera una volta "conclusa";

Francesca Guerisoli, lettrice senza aver mai visitato l'installazione.

Buona Lettura!
Chiara Mu
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Uno spazio aperto.
Claudio Libero Pisano

La Colata Room è un piccolo ambiente di impianto longitudinale aperto sul cortile del Castello Colonna, al confine tra l’area anticamente destinata alla servitù e gli appartamenti privati principeschi. La stanza era profondamente legata all’economia domestica del palazzo, ne scandiva i ritmi e la quotidianità. In essa veniva colata, con l’ausilio di panni di lino, la cenere poi utilizzata per il bucato.
Oggi la Colata Room è affidata a progetti che nascono sullo spazio e, essendo la sua fruizione in qualche modo indipendente dal museo, ha finito per rivolgersi in modo diretto ai passanti e camminatori occasionali. E’ uno spazio molto piccolo e fortemente caratterizzato, tutti gli artisti finora invitati hanno realizzato delle installazioni che ne tenessero conto. Non si tratta di una project room in senso classico, non siamo di fronte al tipico cubo bianco al quale molti musei ci hanno abituato. Trattandosi dell’unico luogo del castello mai sottoposto a restauri esso restituisce costantemente la sua storia. I segni del tempo stratificati sono la sua cifra distintiva. Per queste ragioni non è uno spazio semplice su cui intervenire. L’eccessiva presenza di passato rischia costantemente di fagocitare qualsiasi intervento esterno e la tentazione di celebrare la rovina e il dettaglio deteriorato non è infondata.
Chiara Mu è entrata nella Colata cosciente di questi rischi, ha organizzato diversi sopralluoghi prima di elaborare un progetto definito subendo consapevolmente il fascino del luogo ma se ne è in qualche modo difesa, fin da subito. La sua ricerca storica l’ha portata a un’indagine che ha coinvolto gli abitanti di Genazzano, che conservavano la memoria orale dell’utilizzo dello spazio. La memoria reale, ancora vivida nel territorio, ha evitato la deriva citazionista. A supporto del lavoro finale l’artista ha intervistato, filmandole, alcune persone del posto, che ricordavano o che mettevano a disposizione una memoria di rimando, consegnata da familiari o parenti. Questi brevi filmati hanno il sapore di un lavoro autonomo che mira alla ricostruzione collettiva di una memoria condivisa. Il Castello Colonna e la Colata sono pezzi decisivi nella formazione del ricordo della gente di questo paese. La presenza incombente della residenza dei Colonna nel centro del paese ha visto nel corso dei secoli avvicendarsi intorno alle sue mura la vita vera dei suoi abitanti. Ancora oggi il paese si identifica con il castello. L’artista ha spostato sulla gente la pesante eredità di quelle mura, facendosi raccontare, trascorrendo con loro il tempo della loro memoria. Solo dopo, con un bagaglio consistente di vissuto “esterno” è rientrata nello spazio della Colata e ha cominciato a stabilire dei parametri equilibrati per occupare lo spazio. Quello che Mu voleva restituire era una sorta di riconquista dello spazio sulla stratificzione del tempo e dei successivi riutilizzi di quella stanza, attraverso il materiale che lo aveva identificato per secoli: il sapone. Esso avrebbe dovuto fisicamente fuoriuscire da ogni poro, da ogni incavo del muro. Riprendersi il suo spazio, stabilire la sua vendetta sul tempo. Sono stati giorni di ricerca sulle modalità di fabbricazione, sui materiali da utilizzare. Inizialmente, come ha descritto nel suo dettagliato report, ha tentato di produrre sapone con la cenere, che diversi abitanti del paese le avrebbero fornito. Dopo diversi tentativi l’artista ha deciso di restituire più che il materiale puro la sua forma. L’idea del materiale. Ha utilizzato polpa di carta, la stessa che si usa nel restauro di monumenti e affreschi. Creando un legame ideale anche sull’aspetto del recupero dello spazio operando un risarcimento strutturale delle sue mura in rovina. La poetica di Chiara Mu è molto solida e strutturata. Il suo agire non è mai episodico o approssimativo, ed è vero quanto ha scritto che quel luogo le ha creato più di un problema nello stabilire un bilanciamento tra la necessità di risarcire e quello di non creare un’opera che diventasse autonoma e che a sua volta rischiasse di sovrastare lo spazio e la sua storia. La scelta del colore di questo nuovo sapone è stata oggetto di lunghe riflessioni. Le prime prove con il materiale lasciato bianco, suo colore naturale, avevano un pregio estetico di sicuro impatto ma non risolvevano il limite di un contesto che nel complesso assorbiva il lavoro, negandole una sua propria autonomia. La scelta finale del rosa è stata decisa proprio per allontanare l’intervento dell’artista dal suo luogo deputato. Rendere il materiale più neutro possibile avvicinandolo all’immaginario comune della saponetta presente in ogni abitazione negli anni del Boom. Nella pubblicità degli anni Sessanta il panetto rosa era uno degli emblemi della modernità. Il colore trasportava un oggetto del tutto anonimo nello splendore del presente. L’attrice, più o meno nota, ne testimoniava le magnifiche sorti e progressive. Con quel colore il sapone ha restituito alla Colata la sua storia secolare ma lo ha anche posizionato nella seconda metà del Novecento. Il rosa tenue del sapone rimanda immediatamente all’igiene personale che dal dopoguerra divenne una possibilità alla portata di tutti.
Il racconto di Chiara Mu sulla costruzione di questo suo lavoro è un valore aggiunto all’opera. E’ un modo per niente scontato di spostare l’attenzione oltre il momento della presentazione di un site specific, nell’esiguo tempo a disposizione della sua visibilità. Quello che conta è la conoscenza di un processo, di un percorso che precede e scavalca il tempo breve della visibilità. La stessa visibilità che esiste solo se esiste un pensiero che la costruisce. Che con lo spazio, la storia si misura e con lo spazio attiva una sfida. Per rispettarlo e alla fine, però, vincerlo.

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Camminare domandando.
Stefano Taccone

Attraverso le cinque dense ed appassionanti puntate che scandiscono il racconto delle peripezie di Chiara Mu alle prese con il suo intervento nella Colata Room del Castello di Genazzano, l’artista intende presentare l’intera vicenda come una sorta di epico duello consapevolmente deturnato, giacché nel momento in cui sostituisci uno dei protagonisti dello schema canonico di tale genere letterario con un qualcosa di inanimato lo slittamento verso l’eroicomico - come ben sapeva il poeta seicentesco Alessandro Tassoni, autore della Secchia rapita, evidente reminiscenza grottesca del ratto di Elena di Troia - è garantito. In realtà Chiara lancia una serena, ironica ma strenua ed impietosa sfida al problematico spazio espositivo in cui si trova ad operare, ma soprattutto – contemporaneamente - a due solidi, perniciosi stereotipi propri dell’ideologia storico-artistica dominante.
In primis quello per cui non tanto e non solo un artista visivo non potrebbe scrivere - convinzione ancora assai più radicata di quanto si creda, malgrado la rivoluzione apportata su questo piano fin dalle avanguardie storiche e, soprattutto, dall’arte concettuale anglosassone -, ma ancor più non potrebbe farlo ragionando sui complessi scritti di celebri teorici dell’arte e tanto peggio se al fine di mettere in discussione le sue stesse scelte di poetica. Perché - si sa - «l'estetica» - come recita il celebre aforisma di Barnett Newman, che però curiosamente quanto contraddittoriamente era un artista che amava molto la riflessione teorica - «sta all'artista come l'ornitologia sta agli uccelli» - e, d’altra parte, che l’artista sia assimilabile ad un uccello, magari di quelli dal variopinto piumaggio e dal cinguettio leggiadro, o a qualsiasi altro meraviglioso animale, sta bene un po’ a tutti: fa comodo all’etologo, che non correrà il rischio di vedersi invaso il campo delle sue ricerche, essendo, aristotelicamente, l’unico “animale razionale”; fa comodo al guardiano del giardino zoologico, cui nessuno scipperà le chiavi delle gabbie, dato che gli animali, comprese le scimmie dalla mano prensile, non sono così intelligenti da spezzare con l’astuzia, laddove non può con la forza, le proprie catene; fa comodo ai visitatori, che potranno ancora una volta assecondare la loro pigrizia da spettatori organizzati o anche atteggiarsi a soggetti “partecipativi”, “relazionali”, “cooperatori” lanciando qualche nocciolina ai loro segregati, neoauratici oggetti animati di contemplazione.
Turba, al contrario, l’artista che dismette la sua conclamata alterità e si presenta appunto come “animale razionale tra gli animali razionali” e la razionalità – è noto – costituisce l’anticamera del dubbio e chi si lascia pervadere dal dubbio, in una società che glorifica il decisionismo, l’azione, il “ghe pense mi”, è un debole, un menagramo, un pericoloso - e contagioso – appestato dell’anima che va possibilmente isolato ed oscurato. Interrogarsi sull’arroganza con la quale l’artista arriva per imporre la sua visione a luoghi di in cui non ha mai messo piede prima; sul senso del suo ormai diffusissimo appropriarsi di metodologie proprie di altre discipline; sullo scarto tra le tipiche malcelate istanze redentive e le reali richieste – o non richieste – degli spettatori-abitanti del luogo o su quello tra le tacite richieste di una pratica “socialmente responsabile” e filologicamente corretta e la riluttante volontà creativa che reclama la libertà irriducibile di muoversi in tutt’altra direzione etc. – ché di tale tempra sono le domande senza risposta che Chiara dissemina in continuazione lungo il tortuoso percorso narrativo – rischia davvero di offrire al lettore una serie troppo fitta di botole ed inciampi perché se ne possa trarre un prodotto confortevole e facilmente consumabile, un marchio rapidamente riconoscibile e provvisto del necessario appeal…
Ma, punto per me di rilevanza ancora maggiore, l’incessante camminare domandando – così potremmo riferirci all’attitudine di Chiara Mu, prendendo in prestito un celebre ed assai felice slogan zapatista – non fa problema soltanto nella sua stessa intrinseca ostinazione interrogante, quanto – e qui vengo al secondo stereotipo cui l’artista dichiara guerra – nel merito specifico di alcuni dilemmi. Gran parte delle sue esitazioni vanno infatti in realtà a lambire assai pericolosamente i fili scoperti, le crepe malamente riverniciate, le falle dolosamente ignorate di tutta una ormai trentennale, esangue retorica della specificità del luogo, intesa quale superamento dell’univocità modernista – contro la quale peraltro si scaglia la stessa artista in un passaggio della sua travagliata epopea – nonché radicale democratizzazione e “responsabilizzazione” – concetto terribile davvero quello della “responsabilità”, cui non a caso la politica ricorre costantemente quando si tratta di somministrare l’ennesimo salasso senza che i cittadini reagiscano… – dell’arte difronte alla “comunità”. Un discorso che, a ben vedere, si basa su di un doppio fraintendimento, su di una simultanea svalutazione ed ipostatizzazione dell’arte. Se infatti da una parte fa presa sul filisteismo radicato nel senso comune borghese, per il quale l’arte avrebbe da farsi perdonare il peccato originale della sua inutilità e dunque sarebbe inaccettabile se non trovasse una giustificazione eteronoma, dall’altra, per mezzo della presunta privilegiata capacità taumaturgica che acquisirebbe nel momento in cui decide di rivedere il suo statuto in un senso che ormai non si ha più alcuna inibizione a qualificare come utile, l’arte ritrova nei fatti surrettiziamente la sua aura, o meglio la sua inavvicinabilità senza seduzione, mentre l’artista recupera il suo prestigio ma non più all’insegna dell’antica figura semidivina, del genio dei secoli passati, quanto del filantropo illuminato che rigenererebbe territori, tradizioni, relazioni etc.
Se tale paradigma va inteso effettivamente come in contrapposizione alla autonomia modernista e come suo superamento, esso deve anche essere opportunamente demistificato in quanto dispositivo di recupero così come di oblio dell’avanguardia e del suo desiderio inappagabile di trascendimento, strettamente collegato alla stessa corrosiva pulsione che induce Chiara Mu a non mettere la sordina al fragore delle contraddizioni. «Il mondo moderno», osserva il Marx dei Grundrisse, «lascia insoddisfatti e dove esso pare soddisfatto di sé, è volgare».


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Il Site-specific e la sua Vendetta: Radiografia del percorso.
Francesca Guerisoli.

Il progetto di scrittura sviluppato da Chiara Mu a seguito dell'intervento installativo Vendetta nella Colata Room del Castello di Genazzano si presenta sia come un diario di viaggio, sia come un modo per interrogarsi e interrogare sulle possibili scelte in relazione ad una pratica. Un terzo motivo, più tra le righe, riguarda la necessità da parte dell'artista di riprendere il controllo sul proprio intervento, attraverso la scrittura.
Le basi teoriche da cui muove il lavoro performativo e installativo di Chiara sono esplicitate con chiarezza nell'articolazione del progetto narrativo. Gli interrogativi e i conflitti sorti tra le modalità di azione che generalmente attua e le peculiarità dello spazio hanno richiesto interrogazioni e risoluzioni che l'artista ha successivamente deciso di portare fuori di sé, di rendere pubbliche, facendo leva su basi teoriche forti per sottolineare agli occhi del fruitore (e del critico) i possibili tranelli entro cui si trova ad operare l'artista. Quanto più la tensione con lo spazio si è resa evidente, tanto più Chiara ha avvertito l'esigenza di esplicitare i riferimenti teorici a cui le scelte adottate si riferiscono o con cui sono in dichiarata contrapposizione. Le sicurezze sul come e dove si collochi il proprio lavoro rispetto a questioni estetiche ed etiche, sono andate progressivamente in frantumi a causa delle scelte dettate dalla volontà di tutelare il tema fulcro dell'intervento. L'artista ha deciso così di prendere per per mano il fruitore/lettore, conducendolo in un percorso narrativo analitico delle fasi di Vendetta, ponendolo di fronte ai conflitti, le contraddizioni, i disagi e i dubbi con i quali si è trovata a confrontarsi in prima persona.
In particolare, due sono le scelte che più hanno messo in crisi le modalità di intervento di Chiara. La prima riguarda la fruizione dell'installazione. L'intervento realizzato ha imposto allo spazio diversi limiti alla libertà di movimento e azione del pubblico, e dunque alla possibilità di assumere punti di osservazione molteplici, così come il divieto di toccare lo spazio per non manomettere l'aspetto visivo dell'installazione. La Colata Room, costretta dunque a un solo punto di osservazione, è divenuta maggiormente fruibile a distanza che non nel suo attraversamento: lo spazio così trattato svanisce e diviene oggetto di contemplazione.
La seconda scelta conflittuale riguarda la rivisitazione dell'intervento, in quanto esso è stato inaspettatamente assorbito dallo spazio in pochi giorni. L'artista ha scelto così di recuperare l'immagine iniziale del lavoro individuandola come prioritaria rispetto all'abbandono del lavoro stesso al tempo e allo spazio. Il passaggio del tempo, valore inconfutabile per l'artista, è stato dunque scavalcato in favore della riaffermazione del concetto che sottende al lavoro.
Le due strategie di intervento adottate si collocano così in netto contrasto rispetto alle basi del lavoro artistico di Chiara. Le ha scelte comunque perché, in caso contrario, rimanendo coerente alla propria impostazione teorica, il tema dell'intervento sarebbe andato perso. In questa tensione tra scelte possibili e tra linee seguite l'artista mette in evidenza i limiti dell'intervento, offrendo le sue basi teoriche su un piatto – dice –, come la sua testa. Espone pubblicamente le basi a cui si rifà e spoglia il proprio lavoro. Il conflitto prende corpo nel momento in cui Chiara attua le possibilità che in via teorica ha negato, ritenendole normalmente conservatrici. Il progetto narrativo funge così da riarticolazione e analisi di tale conflitto. Se il lavoro nella Colata Room ha messo in crisi l'artista rispetto al suo modo di concepire l'intervento installativo, la scrittura è divenuta un modo per riappropriarsene. Con tale riappropriazione, Chiara vendica Vendetta e rivendica al tempo stesso la possibilità – o meglio la necessità – di porsi pubblicamente come narratrice e primo critico del proprio lavoro.