Lasciare la presa o ri-attuare la visione?

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Indice :

1 Si può rifare la storia?

2 La posizione dell'artista nello spazio: coesistenza o antagonismo?

3 La visione dell'opera: quale lo spazio deputato del fruitore?

4 Il tempo interviene sul lavoro: la documentazione é l'opera?

5 Lasciare la presa o ri-attuare la visione?

6 Altri sguardi/note critiche al margine






























Osservare “Vendetta” per ore, ormai quasi del tutto seccata e cercare di capire come intervenire per restituirle massa, il senso di un dilagare.

“Perché farlo” o “perché non farlo” sono stati gli ultimi dubbi che ho consentito a me stessa, gli ultimi scogli da superare per arrivare al termine di questa singolar tenzone tra me e lo spazio. No, non avrei mai potuto rifare l’opera da capo, cancellando ogni traccia del tempo su di lei; parimenti non volevo lasciarla priva di identità e di relazione visiva con l’immaginario da cui ero partita.
Sapevo che ci sarebbe stata una visita finale degli spettatori il 1 di febbraio, dunque il problema di cosa restituire a quel nuovo sguardo era di cruciale importanza per me.

Lasciare la presa o riattivare la visione?

Credo, alla fine, di aver fatto entrambe le cose, perseguendo l’unico modo possibile per concludere la mia epica stupida con la Colata Room. Ho com-preso le differenze, tenuto in campo entrambe le istanze, lasciando visibili alcune tracce del tempo ma colmando altre parti con nuova materia.
Ho ragionato visivamente in chiaro-scuro, una tecnica di disegno che non mi è davvero propria, ma si è rivelato il modo giusto per risolvere il mio dilemma. Ho valutato cosa tenere in chiaro (ovvero ciò che era già secco) e quali parti invece accendere di rosa con nuova massa, creando in tal modo una complessa mappatura di pieni e vuoti cromatici. Ho lasciato visibile il prosciugamento del buco sul pavimento e il cambiamento di colore delle pietre intorno, esaltandone l’aspetto di corrosione operata dal tempo e di suggestione di un moto ormai spento. Ho aggiunto invece materia facendola colare dalle crepe dei muri e poi addensandola nella lingua a terra che puntava verso l’uscita, regalando nuovo dinamismo e corpo. Ho infine sollevato la luce da terra, rinunciando al precedente taglio drammatico per una visione d’insieme che fosse comprensiva di ogni sfumatura. La visione finale che ne ho ricavato è diventata ai miei occhi l’atto conclusivo; mi è sembrato per una volta che fossimo davvero insieme, io e lo spazio, abbracciati in quella materia non più uniforme ma accidentata dai nostri segni e dalle nostre perdite.

Il giorno dopo, sabato 1 febbraio, ho inaspettatamente mollato la presa in modo definitivo e il caso mi ha graziosamente aiutato a farlo. La performer che doveva compiere il mio intervento per il quadro di Antonello Bulgini “Cane che parla” quel pomeriggio non è più potuta intervenire ed ho deciso velocemente di sostituirla, facendo io stessa la performance che avevo originariamente proprio scritto per me. Non volendo deludere le persone invitate alla visita guidata che avevo promosso per quel giorno, ho deciso che fosse prioritario offrire loro anche l’esperienza di questo lavoro. Così ho chiesto ad un artista amico, intervenuto più volte nel mio processo di riflessione sulla Colata, di fare le mie veci cortesi, rimanendo responsabilmente accanto all’installazione e permettendomi di sparire nel camino per qualche ora.

Questa scelta fortuita è stata provvidenziale: il mio non esserci, il non dovermi rapportare ad alcuna mediazione dell’installazione, nonché subire lo stress di essere inevitabilmente coercitiva verso i fruitori, mi ha liberato definitivamente dal controllo e dal possesso del lavoro. Ho chiuso gli occhi, bendati dentro e fuori, ed ho dimenticato tutto il resto, permettendo a “Vendetta” di esistere per come doveva offrirsi allo sguardo altrui e basta.

Nella condizione site-specific, in cui produrre l’opera vuol dire spesso confrontarsi con parametri spaziali e temporali non del tutto gestibili, è chiaro che l’attenzione di chi crea non può essere rivolta al punto d’arrivo bensì al processo, al percorso che fà evolvere una scelta. Pensandola poi in termini lacaniani, mi viene spontaneo considerare che sia proprio la messa in moto del desiderio ed il suo mantenimento in un circuito ‘never ending’ a produrre la dimensione estetica che soddisfa la creazione. Il punto d’arrivo, ovvero completare il lavoro, sotto questa prospettiva sembra corrispondere alla cessazione di ogni movimento, ad una piccola morte. Zizek (“Looking Awry” 1992) scrive brillantemente dell’errore in cui facilmente si tende a cadere, quello di fraintendere l’ottenimento della cosa per la cosa davvero cercata, in realtà ciò che si cerca è il cercare; attivare e riprodurre il desiderio corrisponde dunque alla sua realizzazione.

Esporre in modo così articolato riflessioni, dubbi ed idiosincrasie, ha risposto alla mia sincera necessità di osservare il processo creativo ed offrirlo agli altri dall’interno; è stata, altresì, la modalità scelta per tamponare la mia ansia (lacaniana) di arrivare troppo vicina al completamento del percorso, rischiando di perdere la necessità stessa del desiderio che ha mosso ogni cosa.

Un ultimo sguardo ancora…compio un giro netto nella testa e torno indietro…concludo questo mio scrivere dilagante (dilagante almeno quanto la vendetta che volevo il sapone operasse nel suo spazio secolare) tornando al punto di partenza, al testo con cui ho formalizzato la mia idea, quello posto all’entrata dell’installazione ed offerto ai visitatori tramite brochure:

“Vendicare la dimenticanza, trasudare memoria. Il sapone che rompe, spacca gli argini, azzera tutto, emerge da sotto, trova una rottura ed esce, melmoso cammina verso l’alto, riconquista il suo spazio riportando l’origine a casa; un’incedere lento, una materia psichica che non vuole più tacere l’inconscio che gli è proprio: stracci, legna, cenere setacciata che si perde e si appiccica addosso, il calore della fiamma che arrossa la faccia, la schiuma che non affiora mai ed il grasso dei maiali, inerme e rancido. Come da copione il calore protetto delle sontuose stanze superiori si trasforma in una fatica immensa di braccia e sudore, lavoro di corpi e corpi impresso nei muri; lo spazio guarda e testimonia la sua funzione, il suo destino: mondare ogni lordura e mantenere pulito il volto della ricchezza…mentre il resto si affanna sotto.
Vendetta.”

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