Galleria Continua
San Gimignano (SI)
via del Castello, 11
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WEB
Quattro Mostre
dal 1/5/2015 al 4/9/2015

Segnalato da

Silvia Pichini




 
calendario eventi  :: 




1/5/2015

Quattro Mostre

Galleria Continua, San Gimignano (SI)

In 'Descension' Anish Kapoor presenta una serie di nuove sculture in alabastro. Jannis Kounellis occupa la galleria con un'imponente installazione. Michelangelo Pistoletto con opere 'Prima dello specchio' e Serse con 'L'esperienza del paesaggio', fondata sulla pratica paziente del disegno a grafite.


comunicato stampa

Anish Kapoor - Descension

Anish Kapoor si inserisce a pieno titolo in quella genealogia di artisti che sviluppano interrogativi alchemici e agiscono anche attraverso concetti paradossali realizzando opere che ci spingono oltre l’apparire alla ricerca dell’essere, facendoci riflettere sullo stato latente della potenza della materia stessa, dell’energia in essa contenuta e per questo metafora dell’intero universo.

A caratterizzare l'opera di Kapoor sono l’infinita capacità di reinvenzione del linguaggio artistico, nella sua dimensione monumentale come anche in quella più intima. I temi della sua ricerca, che è anche e in primo luogo ricerca filosofica, sono centrati sull’uomo e sulla consapevolezza di sé, sulla mente e l’esperienza delle cose che la circondano, sull’universalità di tempo e spazio, dalle prime opere fino alle più recenti e monumentali installazioni in musei e spazi pubblici.

L’opera di Kapoor ridefinisce e amplia il concetto di scultura nell’arte. La sua poetica implode e al contempo intensifica ed approfondisce le relazioni binarie, le energie opposte, le antitesi che costituiscono il mondo visibile. Luce ed ombra, negativo e positivo, maschile e femminile, materiale ed immateriale, interno ed esterno, concavo e convesso, lucido ed opaco, liscio e ruvido, naturale ed artificiale, rigido e morbido, solido e liquido, attivo e inerte, ordine e disordine, pieno e vuoto non sono che alcune delle polarità che l’opera di Kapoor è capace di rappresentare suscitando straordinario incanto. A proposito della relazione tra pieno e vuoto l’artista afferma: “Ho sempre pensJannis Kounellisato al vuoto come a uno spazio transitorio. E tutto ciò ha molto a che fare con il tempo. Sono sempre stato interessato al momento creativo in cui ogni cosa è possibile e niente è ancora accaduto. Il vuoto è quel momento di tempo che precede la creazione, in cui tutto è possibile”.

Descension presenta una serie di nuove sculture in alabastro in cui Anish Kapoor scava con cura una sezione ben rifinita. Queste opere invitano lo spettatore a riflettere sul concetto di infinito e sui misteri del tempo sepolti all’interno della loro forma e sostanza. Uno degli aspetti più particolari del lavoro di Kapoor, ed in particolare delle opere in pietra, è un senso di eternità. Grazie alle qualità traslucide del materiale l’artista riesce a rafforzare il senso del passaggio dalla pittura alla scultura e dalla pittura alla dissoluzione aerea fino a diventare luce. Il rosso intenso di alcune di queste sculture, così come di altre opere in mostra, richiama l’elemento organico.

L’opera che l’artista crea sul palcoscenico della galleria è una sorta di eco della Madre Terra: “…per tutta la vita ho riflettuto e lavorato sul concetto che ci sia più spazio di quello che si vede, che ci siano spazi vuoti o, per dire così, che ci sia un orizzonte più vasto. La cosa curiosa nel togliere contenuto, nel fare spazio, è che noi, come esseri umani, facciamo molta fatica ad accostarci all’assenza di contenuti. È l’horror vacui. Questo concetto platonico è alla base del mito della caverna, quella in cui gli uomini guardano verso il mondo esterno. Ma qui c’è anche un’immagine freudianamente opposta, che è quella del fondo della caverna, che poi è il fondo oscuro e vuoto dell’essere. Anche Dante, il vostro più grande poeta, si avventura in un posto del genere. Quello è il luogo del vuoto, che poi paradossalmente è pieno: di paura, di oscurità. Che lo rappresenti con uno specchio o con una forma scura, è sempre il «fondo» il punto che attrae il mio interesse e mette in moto la mia creatività. (…) Nell’affrontare il problema del fondo della caverna, come lo chiamo io, è quasi inevitabile imbattersi nella religione. È letteralmente uno scontro con una realtà che fa emergere alcune domande fondamentali sull’Essere. È inevitabile. Lo scopo della rappresentazione astratta, per me come per molti altri artisti, coincide con il tentativo di andare all’origine di queste domande. E in fondo a queste domande c’è la coscienza, cioè una dimensione che la scienza non riesce a definire, ad afferrare compiutamente. L’arte è proprio la via d’accesso privilegiata alla coscienza”.

“Descension”, l’installazione che Kapoor realizza nella platea del cinema teatro di San Gimignano prosegue formalmente “Descent into Limbo” l’opera presentata nel 1992 in occasione di documenta IX; a Kassel nel mezzo di un cubo, una specie di buco nero apparentemente senza fondo si apriva nel pavimento ‘trascinando’ lo spettatore al suo interno. “Descension” destabilizza, mette in crisi la nostra percezione della terra come elemento solido, conferma l’interesse di Kapoor per i non-oggetti e per le forme auto-generate. Nel suo stato di flusso e movimento, “Descension” ci mette di fronte a una forza perpetua, a una spinta verso il basso e verso un interno totalmente inconoscibile.

Anish Kapoor nasce a Bombay nel 1954. Negli anni ‘70 si trasferisce a Londra, città dove tutt’oggi vive e lavora. Il percorso artistico di Kapoor si compone di due fasi complementari. Alla prima appartengono le opere dei primi anni '80: oggetti scultorei con forme tra l'astratto e il naturale, completamente ricoperte di pigmento puro, il cui intenso colore nasconde l'origine di manufatto e suggerisce l'idea di sconfinamento. Negli anni ‘90 invece approfondisce quelle che possono essere riconosciute come sue caratteristiche peculiari: sculture di dimensioni sempre più monumentali e che rappresentano la sua messa in scena del vuoto,
reso tangibile da una cavità che si riempie o da una materia che si svuota. Negli ultimi trenta anni la sua opera è stata esposta nei più importanti musei ed istituzioni del mondo. Ha realizzato mostre personali alla Kunsthalle di Basilea, alla Tate Gallery e Hayward Gallery di Londra, al Reina Sofia di Madrid, al CAPC a Bordeaux, al CCBB Centro Cultural Banco do Brasil a Brasilia, Rio de Janeiro e San Paolo e, più recentemente, alla Haus der Kunst di Monaco e presso la Royal Academy di Londra. Nel 2010 ha esposto per la prima volta in India con mostre personali alla National Gallery of Modern Art di New Delhi e al Mehboob Studios di Munbai. L’artista ha inoltre preso parte a numerose mostre collettive in contesti come la Serpentine Gallery di Londra, Documenta IX di Kassel, Moderna Museet di Stoccolma, Centre Georges Pompidou, Louvre e Grand Palais di Parigi, Guggenheim di Berlino, New York e Bilbao. Molte le collezioni pubbliche e private che accolgono le opere dell’artista, tra queste MoMA di New York e Stedelijk Museum di Amsterdam. Tra le più note e apprezzate commissioni pubbliche realizzate da Anish Kapoor in questi anni: Marsyas (Tate Modern Turbine Hall, Londra), Cloud Gate (Millennium Park, Chicago), Underground (torre medioevale di Sant’Agostino, Arte Continua, San Gimignano) e Earth Cinema (Arte Pollino un altro sud con Arte Continua, Basilicata). Anish Kapoor ha ricevuto il ‘Premio Duemila’ alla Biennale di Venezia del 1990, il Turner Prize nel 1991, è stato premiato come Honorary Fellowship al London Institute nel 1997 e nel 2003 ha ricevuto il CBE. Dal 2001 è membro onorario del Royal Institute of British Architecture. Tra le più recenti commissioni pubbliche: Ark Nova, Lucerne Festival, Matsushima, Giappone (2013), Orbit, Olympic Games, Londra in collaborazione con Cecil Balmond (2012), Leviathan, Grand Palais, Parigi, Monumenta 2011 (2011). Da giugno a ottobre l’artista sarà protagonista di una grande esposizione monografica presso la Reggia di Versailles.

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Jannis Kounellis

Nell'opera di Kounellis si evidenzia da subito la ricerca di una nuova spazialità che l'artista individua in un quintale di carbone ammucchiato sul pavimento del suo studio, quale elemento per una diversa concezione del fare pittorico. L'impiego diretto e dal vero dei materiali ritenuti extrapittorici lo introduce a forme, colori, odori distintivi degli elementi primari naturali o tecnologici da trasformare in energie poetiche attraverso i meccanismi dell'immaginario, del mito, della cultura, degli ideali classici e religiosi, delle passioni. L'abbandono del concetto tradizionale di rappresentazione pittorica con una radicale "uscita dal quadro" lo munisce di una lingua con la quale, a partire dal ‘67, giunge al pronunciamento di una spazialità ricavabile ogni volta da luoghi e contesti differenti.

Il viaggio di Kounellis trae origine dalla dinamo libertaria e sognatrice di un'arte fondata su un'estrema mobilità dialettica con luoghi, persone e segni. La dimensione del tempo è stata ed è tuttora una delle preoccupazioni principali nell’opera di Kounellis, elaborata attraverso un continuo confrontarsi con la storia, con qualcosa che va oltre il presente e stimola sempre una tensione tra passato e futuro. In questo quadro la sua opera sembra non essere influenzata dall’attualità, ma dalla tragedia che supera la problematica del tempo. “Io cerco tra i frammenti, emozionali e formali, le deviazioni della storia, afferma l’artista, sono drammaticamente alla ricerca di un’unità, per quanto questa sia irraggiungibile, utopica, impossibile, e proprio per queste ragioni drammatica”. Dopo aver contribuito alla nascita e allo sviluppo dell’Arte Povera, recentemente Jannis Kounellis ruota attorno ai problemi riguardo il ruolo dell’artista e la missione civile dell’arte nella società contemporanea.

I lavori di Kounellis sono intrisi di alto lirismo e hanno una forma austera. Il lessico del suo linguaggio muove da ciò che è legato al sensibile, alla vita e al retaggio dell’uomo, e arriva a toccare le parti intrinseche del vissuto, i segni atavici dei luoghi. L’artista lavora con “strutture di resistenza” che possiedono un loro peso, ed eludono ciò che è vago e suggestivo, strutture che restituiscono sovranità e potere al substrato comune. A volte sono porte e ampie finestre riempite di sassi o libri, occupate da frammenti di sculture o colonne di pietra. Altre volte si presentano come pareti di lamiere munite di mensole su cui stazionano sacchi vuoti o pieni. In questo caso, nell’opera allestita a San Gimignano ci troviamo di fronte ad un’imponente trave, una sorta di croce, che sostiene un sacco trafitto da un coltello. Per cogliere il significato dei materiali utilizzati da Kounellis, come per evidenziare la loro portata esoterica, è sempre opportuno osservarne le capacità evocative, le possibili reminiscenze letterarie ricavabili dalla loro presentazione. “La creta è materia, il ferro è materia, la carta è materia, abbiamo bisogno di ampliare il concetto di materia: materia significa disegnare, materia significa acquisire un significato, acquisire un senso. Cento libre di carbone: non plastica dipinta come carbone, non un peso astratto. Il peso è quello che nasconde la propria storia, la propria moralità. Le cose diventano più vere”, dichiara Kounellis.

Jannis Kounellis nasce al Pireo nel 1936. Vive e lavora a Roma dalla fine degli anni Cinquanta. Nei dipinti di quegli anni l’artista delinea parole, lettere, numeri, segni direzionali che campeggiano su superfici monocrome accogliendo i segnali visivi del contesto urbano nell’ambito dei linguaggi pittorici. Nel 1968 partecipa alla rassegna “Arte Povera + Azioni Povere" presso gli Antichi Arsenali di Amalfi. Nel 1969 presenta la celebre opera con dodici cavalli vivi ed espone alla mostra “Arte Povera" a Genova. Inizia a creare grandi installazioni utilizzando elementi naturali oppure oggetti che rimandano al quotidiano come persone vere e animali vivi, pietre, piante grasse, caffè in polvere, lana cardata, sacchi di juta vuoti o riempiti di granaglie, il fuoco sprigionato da fiamme ossidriche, frammenti di copie di sculture classiche, lampade al petrolio, mensole di ferro e binari. Fin dall’inizio realizza anche progetti e scenografie per il teatro. Nelle installazioni più recenti, oltre ai frammenti di copie classiche posti su mensole, ricorrono mobili e oggetti d’uso comune, che dispone in allestimenti di scala monumentale. Kounellis ha partecipato per sette edizioni alla Biennale di Venezia a partire dal 1972 (una sua opera sarà presentata al Padiglione Italiano nell’edizione di quest’anno) e a Documenta a Kassel nel 1972 e nel 1982. Tra le esposizioni più recenti, si ricordano quella al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris nel 1980, al Museum of Contemporary Art di Chicago, allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1990, al Museo Nacional Centro Reina Sofia di Madrid nel 1996, al Ludwig Museum di Colonia nel 1997, al Museo Pecci di Prato nel 2002, al Museo Madre di Napoli nel 2006, al Neue National Galerie a Berlino nel 2007, al Museo Heart di Herning nel 2009, al Today Art Museum a Pechino nel 2011, al Museum of Cycladic Art di Atene nel 2012, al Musée d’art contemporain a Saint-Etienne nel 2014.

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Michelangelo Pistoletto: Prima dello specchio

Pistoletto percepisce nella pittura figurativa la via più consona alla propria formazione e cultura. L’autoritratto è lo strumento che individua per rispondere a tali esigenze e in esso concentra fin dall’inizio la sua ricerca e produzione. Tra il 1956 e il 1958 dipinge autoritratti di grandi dimensioni, fra l'astratto e il materico, in cui il viso occupa l'intera superficie della tela. Prima dello specchio accoglie due di questi primissimi quadri olio e acrilico su tela.

Negli anni successivi la ricerca dell’artista si concentra sul problema della realizzazione del fondo nei propri autoritratti. “Tra il 1956 e il 1958 facevo quei ritratti, che col tempo diventarono sempre più grandi, con un testone sempre più grande. (…) Successivamente, le teste si sono ristrette per lasciar posto al corpo e allo spazio intorno. In questo tipo di riduzione della figura a dimensione reale sono stato molto coadiuvato dalla mostra di Bacon alla Galatea. Vedendo Bacon ho percepito che il mio problema, il mio dramma erano già lì, dichiarati, di un uomo alla ricerca della propria dimensione e del proprio spazio, una gabbia di vetro impenetrabile, in cui l’uomo viveva in uno stato talmente drammatico da essere soffocato, da non aver voce e spazio. Era un uomo bloccato, braccato, malato, distrutto, angosciato, splendidamente dipinto ma, in questo stato, terribilmente isolato (…) Ho continuato la mia ricerca, condensando proprio il mio lavoro sull’uomo, ma cercando di fare il contrario di Bacon: togliere tutta l’espressione e tutto il movimento dalle figure, così da raffreddare la drammaticità. (...) Ho continuato a giocare la mia partita sul rapporto tra la massa di questa persona e il suo fondo, così sono arrivato ai fondi d’oro, ai fondi neri. Facevo fondi che volevano essere luce, da cui la vetrata, o fondi assolutamente automatici ed inespressivi. Erano migliaia di righette oppure erano superfici tipo lineolum, cioè fondi decorativi anonimi e da questa anonimità del fondo mi aspettavo di veder accadere qualcosa.” (M.Pistoletto, intervista con G.Celant, in Pistoletto, Electa, Firenze 1984, p 23). Autoritratto su fondo argento, Il presente – Uomo di schiena, Autoritratto oro sono alcune delle opere realizzate dall’artista tra il 1960 e il 1961 e ospitate negli spazi di Galleria Continua. In queste tele Pistoletto si raffigura a dimensione reale, su fondi monocromi, sempre più immobile e inespressivo, come un prototipo di comune essere umano.

Nel 1961 avviene infine la svolta che porta ai quadri specchianti. “Quando nel 1961, su un fondo nero, verniciato fino a diventare specchiante, ho cominciato a dipingere il mio viso, l’ho visto venirmi incontro, staccandosi nello spazio di un ambiente in cui tutto si muoveva, e ne sono rimasto scioccato. Mi sono anche accorto che non dovevo più guardarmi in un altro specchio, ma che potevo copiarmi guardandomi direttamente nella tela. Nel quadro successivo girai la figura di spalle, perché ancora gli occhi dipinti erano artificiali, mentre quelli del riflesso apparivano veri come quelli della figura che ora stava sulla superficie del quadro guardando nel quadro. Infatti essa, essendo adesso girata nella mia stessa direzione, possedeva i miei stessi occhi.” (M. Pistoletto, Il rinascimento dell’arte, 1979 - manoscritto inedito). Persona di schiena, un quadro specchiante realizzato nel 1962, è una delle opere che chiudono la mostra.

Michelangelo Pistoletto nasce a Biella nel 1933. Nel 1960 prima personale alla Galleria Galatea di Torino. Tra il 1961-1962 realizza i Quadri Specchianti e tra il 1965 e il 1966 produce un insieme di lavori intitolati Oggetti in meno, considerati basilari per la nascita dell’Arte Povera. Nel 1967 con la formazione del gruppo lo Zoo realizza la “collaborazione creativa” che svilupperà nel corso dei decenni successivi, mettendo in relazione artisti provenienti da diverse discipline e settori della società. Nel 1978 presenta due fondamentali direzioni della sua futura ricerca: Divisione e moltiplicazione dello specchio e L’arte assume la religione. Negli anni '90 con Progetto Arte e con la creazione a Biella di Cittadellarte- Fondazione Pistoletto e dell’Università delle Idee, mette l’arte in relazione attiva con i diversi ambiti del tessuto sociale al fine di ispirare e produrre una trasformazione responsabile della società. Nel 2003 è insignito del Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale di Venezia. Nel 2004 l'Università di Torino gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze Politiche: l'artista annuncia la fase più recente del suo lavoro Terzo Paradiso. Nel 2007 riceve a Gerusalemme il Wolf Foundation Prize in Arts, “per la sua carriera costantemente creativa come artista, educatore e attivatore, la cui instancabile intelligenza ha dato origine a forme d'arte premonitrici che contribuiscono ad una nuova comprensione del mondo”.  Nel 2011 è stato Direttore Artistico di Evento 2011 a Bordeaux. Nel 2013 tiene una mostra personale al Museo del Louvre, “Année1 - Le Paradis sur Terre”. In questo stesso anno riceve a Tokyo il Praemium Imperiale per la pittura. Sue opere sono presenti nelle collezioni dei maggiori musei d’arte moderna e contemporanea.

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Serse - L’esperienza del paesaggio

Da oltre vent'anni, rinunciando al colore, Serse persegue con coerenza una ricerca fondata sulla pratica paziente ed originaria del disegno a grafite. “La grafite è il mezzo che mi permette di sottolineare il gesto tautologico del disegnare e fabbricare un’opera che non mente sulla propria natura di puro disegno, in questa visione va inscritta la stuttura fisica dell’opera: assenza di spessore, di cornice, di vetro protettivo. E` il solo disegno che si mostra; è la finestra aperta sul mondo” afferma l’artista.

Come sottolinea Costantino D’Orazio in un recente testo critico, Serse parte dalla realtà e attraverso il disegno costruisce un pensiero sulla natura dello sguardo e della rappresentazione. Crea forme che non restano confinate nel perimetro di un foglio, ma evocano una dimensione molto più ampia, una vera e propria filosofia: “Grazie al gesto costante di Serse il foglio diventa quasi trasparente e si rende disponibile alla luce, che lo attraversa con affabile eleganza. Se la carta fotografica assorbe la luce e ingabbia la realtà su una superficie opaca, le opere di Serse raggiungono l’effetto contrario. La materia del foglio, dopo il suo intervento, perde consistenza e diventa liquida nel caso dell’acqua, soffice nel caso delle nuvole o puro fiato”.

Dalla grafite di Serse è scaturita una delle più intense riletture del tema del paesaggio nell’arte contemporanea: mari, cieli di nubi, montagne altissime, boschi innevati, spazi naturali privati di ogni presenza umana, trasfigurati da luce ed ombra. Quasi fosse possibile sondare, attraverso la concreta materialità della grafite, l’anima minerale della terra, le cui trasformazioni avvengono su una scala temporale che non è quella antropologica. I suoi paesaggi sono visioni sospese nel tempo e prive di suono. Serse racconta la natura in ogni suo aspetto; il disegno è analitico, dettagliato, tirato al limite più estremo della rappresentabilità, tanto da giungere all’estremo opposto diventando così impercorribile e paradossalmente irreale. Serse in questo modo giunge al superamento del dato oggettivo; il soggetto, spogliato di ogni dinamicità, estraniato dal contesto, viene proiettato in una dimensione ‘altra’.

Le immagini che l’artista ci regala in questa mostra sono esperienze dello sguardo, sono rappresentazione dell’idea del Sublime. A proposito del sublime Lóránd Hegyi scrive: “…il confronto con il – possibile – sublime acquista anche un significato critico, scettico che in parte relativizza la potenza e la competenza del sublime. La questione della possibilità di conoscere il sublime, ovvero della possibilità del sublime in assoluto diviene allo stesso tempo l’interrogativo circa la competenza del disegno, il confronto critico con la credibilità delle realtà visive dell’immagine. L’esatta formulazione di tale duplice interrogativo determina il lavoro artistico di Serse che non tollera deviazioni letterarie arbitrarie o aneddotiche bea oltre vent'anni, rinunciando al colore, Serse persegue con coerenza una ricerca fondata sulla pratica paziente ed originaria del disegno a grafite. “La grafite è il mezzo che mi permette di sottolineare il gesto tautologico del disegnare e fabbricare un’opera che non mente sulla propria natura di puro disegno, in questa visione va inscritta la stuttura fisica dell’opera: assenza di spessore, di cornice, di vetro protettivo. E` il solo disegno che si mostra; è la finestra aperta sul mondo” afferma l’artista.

Come sottolinea Costantino D’Orazio in un recente testo critico, Serse parte dalla realtà e attraverso il disegno costruisce un pensiero sulla natura dello sguardo e della rappresentazione. Crea forme che non restano confinate nel perimetro di un foglio, ma evocano una dimensione molto più ampia, una vera e propria filosofia: “Grazie al gesto costante di Serse il foglio diventa quasi trasparente e si rende disponibile alla luce, che lo attraversa con affabile eleganza. Se la carta fotografica assorbe la luce e ingabbia la realtà su una superficie opaca, le opere di Serse raggiungono l’effetto contrario. La materia del foglio, dopo il suo intervento, perde consistenza e diventa liquida nel caso dell’acqua, soffice nel caso delle nuvole o puro fiato”.

Dalla grafite di Serse è scaturita una delle più intense riletture del tema del paesaggio nell’arte contemporanea: mari, cieli di nubi, montagne altissime, boschi innevati, spazi naturali privati di ogni presenza umana, trasfigurati da luce ed ombra. Quasi fosse possibile sondare, attraverso la concreta materialità della grafite, l’anima minerale della terra, le cui trasformazioni avvengono su una scala temporale che non è quella antropologica. I suoi paesaggi sono visioni sospese nel tempo e prive di suono. Serse racconta la natura in ogni suo aspetto; il disegno è analitico, dettagliato, tirato al limite più estremo della rappresentabilità, tanto da giungere all’estremo opposto diventando così impercorribile e paradossalmente irreale. Serse in questo modo giunge al superamento del dato oggettivo; il soggetto, spogliato di ogni dinamicità, estraniato dal contesto, viene proiettato in una dimensione ‘altra’.

Le immagini che l’artista ci regala in questa mostra sono esperienze dello sguardo, sono rappresentazione dell’idea del Sublime. A proposito del sublime Lóránd Hegyi scrive: “…il confronto con il – possibile – sublime acquista anche un significato critico, scettico che in parte relativizza la potenza e la competenza del sublime. La questione della possibilità di conoscere il sublime, ovvero della possibilità del sublime in assoluto diviene allo stesso tempo l’interrogativo circa la competenza del disegno, il confronto critico con la credibilità delle realtà visive dell’immagine. L’esatta formulazione di tale duplice interrogativo determina il lavoro artistico di Serse che non tollera deviazioni letterarie arbitrarie o aneddotiche bensì trasmette con insolito rigore la problematica basilare della percezione delle realtà dell’immagine”.

I paesaggi di Serse sono paesaggi dell’anima, disegnati idealmente ad occhi chiusi. L’artista attinge dal sublime della natura, quale presa di posizione contro l’odierno avvicendarsi incontrollato d’immagini, rimanendo un pittore di antica contemporaneità. “Il ‘punto di vista’ che vado a cercare, afferma Serse, si trova nell’esercizio d’immersione nelle profondità di noi stessi; un punto di vista che ti fa venire a contatto con una nuova realtà assolutamente “qualitativa, mobile, indivisa” (Bergson), che sfugge alla quantificazione del numero e della misura. E` la ‘realtà’ espressa dalla sublimità della natura, dalla smisuratezza che la distingue e ci attraversa, lasciando in noi i segni indelebili della sua grandezza. E` il gigantesco che non compete all’occhio aperto, ma all’occhio chiuso. Ho trovato la vertigine annullando la prospettiva con il gesto metaforico dello “Strapparsi le palpebre”, oppure nel “Rovesciare i propri occhi” (G. Penone, 1970), così da abbracciare la visione del mondo al massimo della sua estensione”.

Serse nasce nel 1952 a San Polo di Piave. Vive e lavora a Trieste. L’artista ha prodotto negli anni una serie straordinaria di immagini che gli hanno valso l’inserimento nel volume “Drawing” edito dalla Phaidon Press, nonché la partecipazione a rassegne nazionali e internazionali di grande rilievo tra le quali ricordiamo: Centre Pompidou, Musée National d´Art Moderne, Parigi, Francia (2013); Museo d'Arte Moderna e Contemporanea, Rimini (2012); Musée des beaux-arts et d’archèologie de Besancon, Francia (2010); Palazzo Reale, Milano (2007); De Garage Cultuurcentrum, Mechelen, Belgio (2006); III Biennale di Valencia, Spagna (2005); Villa Manin–Centro d’Arte Contemporanea, Codroipo (2004); S.M.A.K., Gent, Belgio (2004); Het Domein, Sittard, Olanda (2003); Museo Rufino Tamayo, Città del Messico, Messico (2002); Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato (2002); Centro Difusor de Arte, Lisbona, Portogallo (2000); Kunstverein Augsburg, Germania (2000); Musée de Beaux Arts, Gent, Belgio (1999); Gian Ferrari Arte Contemporanea, Milano (1998); Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia (1997): Museo Revoltella, Trieste (1995). Visibile ancora fino a maggio presso il Musée d’art moderne et contemporaine de Saint-Etienne Métropole “Paysage analogue”. L’esposizione raccoglie una settantina di opere realizzate tra il 1994 e il 2014, di cui il ciclo sull’acqua viene presentato in parte per la prima volta, mentre il resto proviene prevalentemente dalle collezioni di diversi musei e privati sparsi nel mondo. La mostra è accompagnata da un catalogo con testi di Lóránd Hegyi e Costantino D’Orazionsì trasmette con insolito rigore la problematica basilare della percezione delle realtà dell’immagine”.

I paesaggi di Serse sono paesaggi dell’anima, disegnati idealmente a oltre vent'anni, rinunciando al colore, Serse persegue con coerenza una ricerca fondata sulla pratica paziente ed originaria del disegno a grafite. “La grafite è il mezzo che mi permette di sottolineare il gesto tautologico del disegnare e fabbricare un’opera che non mente sulla propria natura di puro disegno, in questa visione va inscritta la stuttura fisica dell’opera: assenza di spessore, di cornice, di vetro protettivo. E` il solo disegno che si mostra; è la finestra aperta sul mondo” afferma l’artista.

Come sottolinea Costantino D’Orazio in un recente testo critico, Serse parte dalla realtà e attraverso il disegno costruisce un pensiero sulla natura dello sguardo e della rappresentazione. Crea forme che non restano confinate nel perimetro di un foglio, ma evocano una dimensione molto più ampia, una vera e propria filosofia: “Grazie al gesto costante di Serse il foglio diventa quasi trasparente e si rende disponibile alla luce, che lo attraversa con affabile eleganza. Se la carta fotografica assorbe la luce e ingabbia la realtà su una superficie opaca, le opere di Serse raggiungono l’effetto contrario. La materia del foglio, dopo il suo intervento, perde consistenza e diventa liquida nel caso dell’acqua, soffice nel caso delle nuvole o puro fiato”.

Dalla grafite di Serse è scaturita una delle più intense riletture del tema del paesaggio nell’arte contemporanea: mari, cieli di nubi, montagne altissime, boschi innevati, spazi naturali privati di ogni presenza umana, trasfigurati da luce ed ombra. Quasi fosse possibile sondare, attraverso la concreta materialità della grafite, l’anima minerale della terra, le cui trasformazioni avvengono su una scala temporale che non è quella antropologica. I suoi paesaggi sono visioni sospese nel tempo e prive di suono. Serse racconta la natura in ogni suo aspetto; il disegno è analitico, dettagliato, tirato al limite più estremo della rappresentabilità, tanto da giungere all’estremo opposto diventando così impercorribile e paradossalmente irreale. Serse in questo modo giunge al superamento del dato oggettivo; il soggetto, spogliato di ogni dinamicità, estraniato dal contesto, viene proiettato in una dimensione ‘altra’.

Le immagini che l’artista ci regala in questa mostra sono esperienze dello sguardo, sono rappresentazione dell’idea del Sublime. A proposito del sublime Lóránd Hegyi scrive: “…il confronto con il – possibile – sublime acquista anche un significato critico, scettico che in parte relativizza la potenza e la competenza del sublime. La questione della possibilità di conoscere il sublime, ovvero della possibilità del sublime in assoluto diviene allo stesso tempo l’interrogativo circa la competenza del disegno, il confronto critico con la credibilità delle realtà visive dell’immagine. L’esatta formulazione di tale duplice interrogativo determina il lavoro artistico di Serse che non tollera deviazioni letterarie arbitrarie o aneddotiche bensì trasmette con insolito rigore la problematica basilare della percezione delle realtà dell’immagine”.

I paesaggi di Serse sono paesaggi dell’anima, disegnati idealmente ad occhi chiusi. L’artista attinge dal sublime della natura, quale presa di posizione contro l’odierno avvicendarsi incontrollato d’immagini, rimanendo un pittore di antica contemporaneità. “Il ‘punto di vista’ che vado a cercare, afferma Serse, si trova nell’esercizio d’immersione nelle profondità di noi stessi; un punto di vista che ti fa venire a contatto con una nuova realtà assolutamente “qualitativa, mobile, indivisa” (Bergson), che sfugge alla quantificazione del numero e della misura. E` la ‘realtà’ espressa dalla sublimità della natura, dalla smisuratezza che la distingue e ci attraversa, lasciando in noi i segni indelebili della sua grandezza. E` il gigantesco che non compete all’occhio aperto, ma all’occhio chiuso. Ho trovato la vertigine annullando la prospettiva con il gesto metaforico dello “Strapparsi le palpebre”, oppure nel “Rovesciare i propri occhi” (G. Penone, 1970), così da abbracciare la visione del mondo al massimo della sua estensione”.

Serse nasce nel 1952 a San Polo di Piave. Vive e lavora a Trieste. L’artista ha prodotto negli anni una serie straordinaria di immagini che gli hanno valso l’inserimento nel volume “Drawing” edito dalla Phaidon Press, nonché la partecipazione a rassegne nazionali e internazionali di grande rilievo tra le quali ricordiamo: Centre Pompidou, Musée National d´Art Moderne, Parigi, Francia (2013); Museo d'Arte Moderna e Contemporanea, Rimini (2012); Musée des beaux-arts et d’archèologie de Besancon, Francia (2010); Palazzo Reale, Milano (2007); De Garage Cultuurcentrum, Mechelen, Belgio (2006); III Biennale di Valencia, Spagna (2005); Villa Manin–Centro d’Arte Contemporanea, Codroipo (2004); S.M.A.K., Gent, Belgio (2004); Het Domein, Sittard, Olanda (2003); Museo Rufino Tamayo, Città del Messico, Messico (2002); Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato (2002); Centro Difusor de Arte, Lisbona, Portogallo (2000); Kunstverein Augsburg, Germania (2000); Musée de Beaux Arts, Gent, Belgio (1999); Gian Ferrari Arte Contemporanea, Milano (1998); Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia (1997): Museo Revoltella, Trieste (1995). Visibile ancora fino a maggio presso il Musée d’art moderne et contemporaine de Saint-Etienne Métropole “Paysage analogue”. L’esposizione raccoglie una settantina di opere realizzate tra il 1994 e il 2014, di cui il ciclo sull’acqua viene presentato in parte per la prima volta, mentre il resto proviene prevalentemente dalle collezioni di diversi musei e privati sparsi nel mondo. La mostra è accompagnata da un catalogo con testi di Lóránd Hegyi e Costantino D’Orazioad occhi chiusi. L’artista attinge dal sublime della natura, quale presa di posizione contro l’odierno avvicendarsi incontrollato d’immagini, rimanendo un pittore di antica contemporaneità. “Il ‘punto di vista’ che a oltre vent'anni, rinunciando al colore, Serse persegue con coerenza una ricerca fondata sulla pratica paziente ed originaria del disegno a grafite. “La grafite è il mezzo che mi permette di sottolineare il gesto tautologico del disegnare e fabbricare un’opera che non mente sulla propria natura di puro disegno, in questa visione va inscritta la stuttura fisica dell’opera: assenza di spessore, di cornice, di vetro protettivo. E` il solo disegno che si mostra; è la finestra aperta sul mondo” afferma l’artista.

Come sottolinea Costantino D’Orazio in un recente testo critico, Serse parte dalla realtà e attraverso il disegno costruisce un pensiero sulla natura dello sguardo e della rappresentazione. Crea forme che non restano confinate nel perimetro di un foglio, ma evocano una dimensione molto più ampia, una vera e propria filosofia: “Grazie al gesto costante di Serse il foglio diventa quasi trasparente e si rende disponibile alla luce, che lo attraversa con affabile eleganza. Se la carta fotografica assorbe la luce e ingabbia la realtà su una superficie opaca, le opere di Serse raggiungono l’effetto contrario. La materia del foglio, dopo il suo intervento, perde consistenza e diventa liquida nel caso dell’acqua, soffice nel caso delle nuvole o puro fiato”.

Dalla grafite di Serse è scaturita una delle più intense riletture del tema del paesaggio nell’arte contemporanea: mari, cieli di nubi, montagne altissime, boschi innevati, spazi naturali privati di ogni presenza umana, trasfigurati da luce ed ombra. Quasi fosse possibile sondare, attraverso la concreta materialità della grafite, l’anima minerale della terra, le cui trasformazioni avvengono su una scala temporale che non è quella antropologica. I suoi paesaggi sono visioni sospese nel tempo e prive di suono. Serse racconta la natura in ogni suo aspetto; il disegno è analitico, dettagliato, tirato al limite più estremo della rappresentabilità, tanto da giungere all’estremo opposto diventando così impercorribile e paradossalmente irreale. Serse in questo modo giunge al superamento del dato oggettivo; il soggetto, spogliato di ogni dinamicità, estraniato dal contesto, viene proiettato in una dimensione ‘altra’.

Le immagini che l’artista ci regala in questa mostra sono esperienze dello sguardo, sono rappresentazione dell’idea del Sublime. A proposito del sublime Lóránd Hegyi scrive: “…il confronto con il – possibile – sublime acquista anche un significato critico, scettico che in parte relativizza la potenza e la competenza del sublime. La questione della possibilità di conoscere il sublime, ovvero della possibilità del sublime in assoluto diviene allo stesso tempo l’interrogativo circa la competenza del disegno, il confronto critico con la credibilità delle realtà visive dell’immagine. L’esatta formulazione di tale duplice interrogativo determina il lavoro artistico di Serse che non tollera deviazioni letterarie arbitrarie o aneddotiche bensì trasmette con insolito rigore la problematica basilare della percezione delle realtà dell’immagine”.

I paesaggi di Serse sono paesaggi dell’anima, disegnati idealmente ad occhi chiusi. L’artista attinge dal sublime della natura, quale presa di posizione contro l’odierno avvicendarsi incontrollato d’immagini, rimanendo un pittore di antica contemporaneità. “Il ‘punto di vista’ che vado a cercare, afferma Serse, si trova nell’esercizio d’immersione nelle profondità di noi stessi; un punto di vista che ti fa venire a contatto con una nuova realtà assolutamente “qualitativa, mobile, indivisa” (Bergson), che sfugge alla quantificazione del numero e della misura. E` la ‘realtà’ espressa dalla sublimità della natura, dalla smisuratezza che la distingue e ci attraversa, lasciando in noi i segni indelebili della sua grandezza. E` il gigantesco che non compete all’occhio aperto, ma all’occhio chiuso. Ho trovato la vertigine annullando la prospettiva con il gesto metaforico dello “Strapparsi le palpebre”, oppure nel “Rovesciare i propri occhi” (G. Penone, 1970), così da abbracciare la visione del mondo al massimo della sua estensione”.

Serse nasce nel 1952 a San Polo di Piave. Vive e lavora a Trieste. L’artista ha prodotto negli anni una serie straordinaria di immagini che gli hanno valso l’inserimento nel volume “Drawing” edito dalla Phaidon Press, nonché la partecipazione a rassegne nazionali e internazionali di grande rilievo tra le quali ricordiamo: Centre Pompidou, Musée National d´Art Moderne, Parigi, Francia (2013); Museo d'Arte Moderna e Contemporanea, Rimini (2012); Musée des beaux-arts et d’archèologie de Besancon, Francia (2010); Palazzo Reale, Milano (2007); De Garage Cultuurcentrum, Mechelen, Belgio (2006); III Biennale di Valencia, Spagna (2005); Villa Manin–Centro d’Arte Contemporanea, Codroipo (2004); S.M.A.K., Gent, Belgio (2004); Het Domein, Sittard, Olanda (2003); Museo Rufino Tamayo, Città del Messico, Messico (2002); Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato (2002); Centro Difusor de Arte, Lisbona, Portogallo (2000); Kunstverein Augsburg, Germania (2000); Musée de Beaux Arts, Gent, Belgio (1999); Gian Ferrari Arte Contemporanea, Milano (1998); Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia (1997): Museo Revoltella, Trieste (1995). Visibile ancora fino a maggio presso il Musée d’art moderne et contemporaine de Saint-Etienne Métropole “Paysage analogue”. L’esposizione raccoglie una settantina di opere realizzate tra il 1994 e il 2014, di cui il ciclo sull’acqua viene presentato in parte per la prima volta, mentre il resto proviene prevalentemente dalle collezioni di diversi musei e privati sparsi nel mondo. La mostra è accompagnata da un catalogo con testi di Lóránd Hegyi e Costantino D’Oraziovado a cercare, afferma Serse, si trova nell’esercizio d’immersione nelle profondità di noi stessi; un punto di vista che ti fa venire a contatto con una nuova realtà assolutamente “qualitativa, mobile, indivisa” (Bergson), che sfugge alla quantificazione del numero e della misura. E` la ‘realtà’ espressa dalla sublimità della natura, dalla smisuratezza che la distingue e ci attraversa, lasciando in noi i segni indelebili della sua grandezza. E` il gigantesco che non compete all’occhio aperto, ma all’occhio chiuso. Ho trovato la vertigine annullando la prospettiva con il gesto metaforico dello “Strapparsi le palpebre”, oppure nel “Rovesciare i propri occhi” (G. Penone, 1970), così da abbracciare la visione del mondo al massimo della sua estensione”.

Serse nasce nel 1952 a San Polo di Piave. Vive e lavora a Trieste. L’artista ha prodotto negli anni una serie straordinaria di immagini che gli hanno valso l’inserimento nel volume “Drawing” edito dalla Phaidon Press, nonché la partecipazione a rassegne nazionali e internazionali di grande rilievo tra le quali ricordiamo: Centre Pompidou, Musée National d´Art Moderne, Parigi, Francia (2013); Museo d'Arte Moderna e Contemporanea, Rimini (2012); Musée des beaux-arts et d’archèologie de Besancon, Francia (2010); Palazzo Reale, Milano (2007); De Garage Cultuurcentrum, Mechelen, Belgio (2006); III Biennale di Valencia, Spagna (2005); Villa Manin–Centro d’Arte Contemporanea, Codroipo (2004); S.M.A.K., Gent, Belgio (2004); Het Domein, Sittard, Olanda (2003); Museo Rufino Tamayo, Città del Messico, Messico (2002); Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato (2002); Centro Difusor de Arte, Lisbona, Portogallo (2000); Kunstverein Augsburg, Germania (2000); Musée de Beaux Arts, Gent, Belgio (1999); Gian Ferrari Arte Contemporanea, Milano (1998); Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia (1997): Museo Revoltella, Trieste (1995). Visibile ancora fino a maggio presso il Musée d’art moderne et contemporaine de Saint-Etienne Métropole “Paysage analogue”. L’esposizione raccoglie una settantina di opere realizzate tra il 1994 e il 2014, di cui il ciclo sull’acqua viene presentato in parte per la prima volta, mentre il resto proviene prevalentemente dalle collezioni di diversi musei e privati sparsi nel mondo. La mostra è accompagnata da un catalogo con testi di Lóránd Hegyi e Costantino D’Orazio.

Immagine: Serse, Gas, 100 x 142 cm, 2008, grafite su carta su alluminio / graphite on paper on aluminium, Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins.

Ufficio Stampa: Silvia Pichini

Inaugurazione sabato 2 maggio ore 18-24

Galleria Continua
via del Castello, 11
San Gimignano (SI) Toscana Italia
Orario: da lunedì a sabato, 10-13 / 14-19

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Marcelo Cidade
dal 30/10/2015 al 8/1/2016

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