L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Juliet Anno 20 Numero 103 maggio/giugno 2001



Infinity to Zero

Piero Gilardi

Lettera aperta a Germano Celant in occasione dell'apertura della mostra "Zero to infinity. Arte Povera 1962-72" alla Tate Modern di Londra (31 maggio - 19 agosto)



Art magazine
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Adrian Paci
Maria Vinella
n. 173 giugno-luglio 2015

Case chiuse, corpi aperti
Roberto Borghi
n. 172 aprile-maggio 2015

Yang Xinguang e la materia
Sara Bortoletto
n. 171 febbraio-marzo 2015

Eugenio Re Rebaudengo
Giulia Bortoluzzi
n. 170 dicembre-gennaio 2015

Biennale Architecture
Gabriele Pitacco Marco Gnesda
n. 169 ottobre-novembre 2014

Biennale Marrakech
Emanuele Magri
n. 168 giugno-luglio 2014


Piero Gilardi, ritratto

Opera di Piero Gilardi, foto UnDo.Net da Artissima '98 http://www.undo.net/artissima

Uno specchio di Michelangelo Pistoletto alla mostra Boom! - Manifattura Tabacchi Firenze http://www.grandtour.undo.net

Tra non molto si apre questa mostra che nell'intento dei suoi curatori si pone come la "mostra storica" dell'Arte Povera; la mostra di celebrazione museale ma anche di bilancio di un movimento artistico che ha segnato profondamente l'arte del XX° secolo. Quale occasione migliore per tutti noi di arrivare a un chiarimento sugli intenti, sui contenuti teorici e sugli esiti culturali di quel movimento?
Rileggendo il tuo libro del 1976 -Precronistoria 1966-69 - mi pare che tu cogliessi attraverso quella narrazione tutti i fermenti, gli intrecci e la complessità della situazione che alla metà degli anni '60 preparava la nuova filosofia artistica ed esauriva la problematica delle "strutture primarie, che io ho sempre considerato il distillato concettuale della Pop Art.
Ma mi piacerebbe ritornare con te sulla "posta in gioco" che era sottesa a tutte quelle esperienze -da Torino alla West Coast- in rapporto alla trasformazione dell'arte e dei suoi fondamenti storici in quell'inizio di fine della modernità.
Si parlava, ricordi, di "non-arte" e i filosofi come Adorno ci guardavano un po' orripilati. Criticavano il nostro obbiettivo di fondere l'arte con la vita dicendo che l'arte non può divenire realtà se non auto-abrogandosi, mentre noi facevamo mostre, festival ed eventi in cui si vedevano oggetti di una fisicità assoluta o messe in scena autoevidenti che sconcertavano chi si aspettava il segno artistico. E dire che non era difficile capire che si trattava di frammenti dell'immaginario soggettivo quotidiano che si prestavano benissimo a incarnare delle nuove metafore estetiche; bastava essere ricettivi rispetto alla nuova posizione soggettiva che aggallava nei comportamenti individuali e collettivi, rivelando i nuovi bisogni esistenziali che maturavano come tensione negli individui incasellati fino ad allora in quella immensa fabbrica fordista che era la società industriale occidentale "matura".
Io penso però che la "posta in gioco" non fosse solo l'avvicendamento di nuove metafore estetiche, ma qualcosa di più sostanziale che riguardava l'orizzonte culturale di tutti quanti, cioè avvicinare l'arte e la vita sull'onda di quell'energia soggettiva che anima le grandi trasformazioni della società umana. Per me, per Pistoletto, come anche per Beuys, era abbastanza chiaro che la separazione tra l'arte e la vita reale poteva essere superata nella misura in cui la realtà andava verso l'arte, attraverso una propria trasformazione qualitativa; questo voleva dire che doveva esserci una rivoluzione sociale capace anche di liberare le possibilità estetiche rimosse degli esseri umani e di realizzare un connubio tra tecnica e arte per una ricostruzione generale dell'ambiente umano.
In effetti di turbolenza politica ce n'è stata molta nel decennio seguente, ma l'obbiettivo della nuova società come ben sappiamo, è stato mancato, o meglio si è realizzato solo sul piano della cultura e in parte sul piano dei rapporti interpersonali.
Il senso dell'Arte Povera e delle analoghe espressioni artistiche che si andavano facendo in tutto l'occidente negli anni '60, era in fondo quello, anche se si articolava in diversi significanti simbolici che indicavano ognuno un itinerario ed una possibilità di azione nella prassi. La scelta di itinerario operativo che hai fatto tu è stata chiara e vorrei dirti che riconosco il tuo merito di aver portato un gruppo di artisti ad un livello di maturazione estetica e teorica di respiro internazionale e così pure di aver portato il "genius loci" italiano che essi esprimevano, nelle istituzioni artistiche più rappresentative del mondo.
Nel contempo ti prego di riconsiderare, appunto nella lucidità della distanza storica, che altri itinerari simbolici erano praticabili, con delle prassi extra-artistiche, ma non meno coerenti con l'assunto di partenza.
Nel mio caso la scelta è andata così: nei primi cinque o sei anni dopo il '68, ho fatto il militante politico "puro", cioè mi sono preso il rischio di lavorare per una rivoluzione sociale che se avesse avuto la capacità di "dare il giro" alla vecchia società capitalistica avrebbe potuto iniziare a liberare quelle "possibilità estetiche rimosse" di cui parlavo prima. Invece questa sfida esistenziale politica ha subito uno scacco politico e per certi aspetti è degenerata, ad esempio nel leninismo anacrostico o nel terrorismo rosso. Così a partire dal '74 ho cominciato a lavorare nella "controcultura" cercando di contribuire alla sperimentazione di un'arte liberata attraverso la creatività collettiva e diffusa, cioè le pratiche estetiche autoctone di operai, studenti e finanche di tribù del terzo mondo in lotta, ma anche attraverso la creatività individuale di non-artisti come i pazienti psichiatrici.
Adesso, per concludere, ti chiedo: oggi che cosa rimane degli esiti delle tue e delle mie vicende artistiche? Il messaggio simbolico-estetico dell'arte povera ad esempio che cosa può ancora dire ai giovani artisti -e non solo- che, sono attoniti di fronte a una società, e quindi ad una prospettiva esistenziale, globalizzate, virtualizzate e appiattite sul presente? Sarei felice di ascoltare una tua eventuale risposta.
Per parte mia posso rispondere che in questo lasso storico il fatto di non aver semantizzato esteticamente il senso profondo di quel movimento degli anni '60 mi ha permesso una buona mobilità nello scegliere e nell'impegnarmi via via nelle problematiche socio-culturali cruciali che si sono susseguite nei decenni di fine secolo e di portare avanti al loro interno varie forme di interazione artistica con la politica, con la filosofia, con la psicologia, con la scienza post-deterministiche e con le tecnologie digitali.
È vero che la creatività diffusa degli anni '70 si è tradotta oggi nell'estetizzazione ridondante della società iperconsumistica, ma quel suo originario nucleo relazionale, empatico più che utopico, si è invece sviluppato ed ora dilaga nel cyberspazio di Internet (come interazione simbolica nelle tecnologie immateriali) e fluisce nelle pratiche espressive sottratte ai palinsesti dell'enterteinement commerciale. È pur vero, che oggi faccio anche delle opere in Virtuale con interfaccia fisiologico-bionici ma questa è solo un'ansa di quell'onda sinusoidale di relazioni creative -dagli stages di multimedialità alle lettere amorose, dai seminari di semiologia alle animazioni di carnevale, ect.- che considero nel loro insieme come il mio attuale e molecolare "fare arte".
Dunque, arrivederci a Londra
Piero Gilardi
marzo 2001