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Juliet Anno 2001 Numero 101 febbraio/marzo



Max Rohr

Riccardo Salvatelli



Art magazine
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Max Rohr, "Nessuno mi aveva invitato", 1999, olio su tela 130x90 cm. courtesy Tossi arte Contemporanea

Ritratto di Max Rohr

La storia dei quadri di Max Rohr, come tutte le storie, comincia come continuazione di un'altra storia. Le persone e le cose che vengono dipinte sono già note grazie all'altra storia, non rappresentata ma tacitamente presupposta. Anche le storie di Max Rohr vogliono essere la continuazione di una storia inestricabile. Lo si vede dal fatto che gli ambienti tratteggiati o gli accadimenti che vivono all'interno di essi sono disposti secondo una gradazione psicologica, un itinerario subliminale che s'insinua nella scena rafforzando l'atmosfera di generale rassegnazione.
Non c'è mai un'ora precisa, anche se accade quasi sempre verso la fine del giorno: Max Rohr presenta una serie di indizi rispetto a un fatto che accade, cerca apparentemente di dipanarli e quindi di interessare chi vede a una eventuale soluzione. Che però non arriva mai. Perché così è la realtà: siamo esposti a un flusso magmatico di eventi e le risposte che ci diamo sono solo conclusioni di comodo. L'inizio della storia non è quindi un inizio, ma una continuazione: è lo stesso che ritorna in forme sempre più interne e compromettenti. Questa immersione è innanzitutto ottenuta diminuendo la distanza fra soggetto che osserva e oggetto da osservare, nonché tra sfera personale e vita pubblica. A dimostrazione del fatto che le cose non esistono, se non esiste lo sguardo che le vede. In questa pittura noi, come spettatori di un film, ci intratteniamo su un piano mentale, voyeuristico della visione; Max Rohr infatti determina i soggetti dei suoi quadri in modo che il loro rapporto resti ignoto e confuso. La storia del quadro tace il vero rapporto esistente tra gli oggetti dipinti. Consiste in un gioco di possibili rapporti tra gli oggetti. Consiste in uno slittamento continuo dove si diventa comprimari e compartecipi di storie altrui, anche senza accorgersene, vissuti da, o complici di, narrazioni e proiezioni.
Per questo fine, il punto di vista della sua descrizione è quello di una persona che non conosce le circostanze, di una persona che arriva in un posto in cui qualcosa, un qualcosa che non ha ancora nome né volto, è già accaduta senza preavviso, senza segni di nessun tipo, se non quelli che rimangono: il punto di vista della sua descrizione è quello di un estraneo. Max Rohr dà la libertà allo spettatore di percorrere come vuole il labirinto metropolitano e la minima scompostezza delle scene rappresentate. Ma di fatto, il quadro denuncia un'assenza di libertà, provoca disagio e senso di soffocamento. Prima di tutto con una riduzione che è un'equivalenza: di tutti gli ambienti Max Rohr riprende, con poche eccezioni, solo un'area limitata, quella di una stanza o di un particolare di essa. Il viaggio attorno a quella stanza diventa il viaggio all'interno di quegli oggetti che vicini e a portata di mano, fanno il discorso quotidiano, il discorso di ogni giorno. Certo, perché l'ambiente non è uno sfondo: è un personaggio con la sua psicologia, e come tale va trattato. Per un attimo, l'attimo in cui la vista ci riporta al passato di quell'ambiente, appare il risvolto interno della storia pubblica, una risonanza sentimentale, la riservatezza di una coppia nell'alone di luce, ovvero tutti quegli indizi che ricordano un'età non felice e un futuro che non lascia presagire niente di buono. Ora il passato non sta davanti a noi, ma tra di noi. Siamo noi, chiamati a seguire la stessa storia. Ma quali implicazioni, quali conseguenze provoca l'essere "nel" quadro? E in che modo, tecnicamente, è possibile farlo?
Poco interessato a sperimentare i nuovi linguaggi videoelettronici, Max Rohr ha scelto la pittura perché, dice, consente un'esperienza ben più intima e coinvolgente. Tuttavia deve quotidianamente fare i conti con i meccanismi predeterminati dalle rappresentazioni video, televisive, cinematografiche, fumettistiche, pubblicitarie; tutti apparati in cui l'emblema fondamentale è lo schermo in cui proiettarsi ed essere proiettati. Siccome ogni esperienza oggi parte da qui, Max Rohr anche volendo non può ignorare tutto questo. L'affronta e, simbolicamente, la risolve. Di regola, si muove in una direzione da cui le storie non si riferiscono al mondo virtuale o reale della schermo, bensì al racconto che vi è narrato. La sua esperienza, il suo sguardo, il suo modo di raccontare e di comunicare è una proiezione di pensieri e pulsioni sul mondo, e il mondo è a sua volta uno schermo dove scorrono proiezioni. La proiezione deve essere appariscente per giustificare una descrizione della storia. Nello stesso tempo, agli occhi di chi guarda, la proiezione deve integrarsi nella scena, come se non vi fosse più la necessità dello schermo in quanto il soggetto diventa egli stesso schermo e identità proiettata. Quest'ordine particolare si manifesta dando corpo alle proiezioni, poiché dare corpo alle proiezioni è anche restituire la proiezione al suo autore, e il corpo di Max Rohr autore è il quadro. Il suo strumento è la pittura, strumento materiale e fisico. Ogni proiezione di conseguenza dovrà essere materiale e fisica, oggetto della pittura stessa.
Max Rohr riduce gli eventi a stati metafisici, a segni base, e li colloca in un vuoto sociale, raccontando i disagi prodotti dalla società, ma di una società che non si vede mai, di cui si vedono soltanto le conseguenze. Ci sono anche degli uomini e delle donne, ma forse è più giusto dire personaggi. Figure postume che vagano o restano assorte in un luogo incomprensibile per loro come per noi, che assistono per caso a un fatto, rivedono il già visto, dubitano di tutto, in primo luogo della propria identità. L'unica certezza sta nel fatto che queste cose sono state viste da qualcun'altro. Se nel quadro il sistema della comunicazione agisce a più livelli, molto spesso sul piano dell'inconscio, e non si può di certo staccare una pelle, quella superficiale della realtà, dal resto della storia, è evidente che la storia deve prendere le mosse da un personaggio che si distingue dagli altri nei segni esteriori. È lui il fulcro della storia. È lui che vede le cose situate sul luogo dell'azione. È lui che innazitutto deve percepire. Ma può anche sopraggiungere in un luogo dove ogni cosa, ogni persona è in contrasto con la sua presenza. Ogni volta, qualunque sia il suo contegno, è su di lui che le immagini proiettive acquistano un nuovo significato, anzitutto per il valore deformante degli inusuali schermi (non neutrali e con forme proprie). Infatti la storia (la parte principale della storia) risulta proiettata sul suo corpo, è parte del suo corpo. Il torace assume così il valore di specchio, di radiografia pubblica, e il corpo che accoglie le immagini diventa esso stesso testimone della storia, e simbolo di realtà. Una realtà incentrata su un mistero, che non deve essere per forza un delitto: il mistero più complesso, dopotutto, è l'anima umana.

Riccardo Salvatelli