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Juliet Anno Numero 90 dic '98



Jennifer Bornstein

A cura di Ivana Mulatero



Art magazine
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Lo spazio in cui è collocata l'opera complessiva, fotografie+proiettore+gradinate in legno, si può intendere come schermo?
Si può pensare come specchio. Il progetto prevede una collocazione particolare nello spazio in modo che sulle gradinate le persone si possano sedere e guardare il film. Ma la proiezione è stata strutturata in modo tale per cui il film stesso passa in secondo piano e diventano invece importanti le persone che lo guardano. L'ambiente è stato predisposto affinché ci sia la possibilità per chiunque di sentirsi parte integrante dell'opera e non semplice spettatore.

Com'è il luogo in cui lavori?
L'ambiente operativo, non uno studio inteso in senso tradizionale, si crea di volta in volta a seconda del luogo in cui decido di intervenire per elaborare un'opera. Preferisco lavorare in ambienti esterni, all'aperto, perché non mi piace nascondermi all'interno di uno studio.

I soggetti delle tue foto sono tutte persone incontrate casualmente?
Sì, non le conoscevo prima.

Quindi da un punto di vista ideativo inizi con un progetto di location nel quale le persone sono la variabile dipendente.
Sì, nella fase di ideazione dei lavori so già quali luoghi utilizzerò però non le persone che capiteranno casualmente in quei luoghi.

Osservando ogni gruppo fotografico si avverte la sensazione che ci sia un legame di affetto e di amicizia tra di voi, che tuttavia non è reale dal momento che questi incontri sono basati sulla casualità. Allora emerge un'altra sensazione: che tu stessa appartenga a una condizione di casualità e di estraneità.
Esatto. Tutte le persone sono a me estranee, ma dal modo in cui sorridono e si relazionano, sembra che io le conosca benissimo, mentre non è così, ognuna di loro, dopo l'incontro, torna alla sua vita e così faccio io. Il risultato che ne consegue è una documentazione fotografica, un souvenir di quell'istante. La cosa molto importante per me è poter utilizzare il linguaggio della macchina fotografica per presentare delle avvenute interazioni con le persone, perché, come tu dici, 'l'estraneo entra a far parte della fotografia e io al tempo stesso divento estranea'.

La tua ricerca riflette anche su alcune modalità di rapporto tra le persone all'interno della società americana, e in particolare in una grande città come Los Angeles. Una società massificata e resa anonima nella quale c'è una evidente difficoltà a stabilire dei rapporti interpersonali e dove un mezzo riproduttore della realtà, quale la fotografia, pare essere lo strumento più adatto per creare 'spazi e tempi ideali' nei quali l'incontro con gli altri si verifica e si ottimizza nel vicendevole piacere dello scambio di emozioni, che in ogni caso è di qualità effimera nella realtà, e 'per sempre' nell'immagine.
Nelle mie opere, sia fotografiche che video, cerco di far emergere un sentimento da quei momenti di incontro. In questa ricerca si possono individuare due momenti precisi basati rispettivamente sugli incontri casuali con le persone -che portano con sé una connotazione di fugacità, da cui ne discende una devalorizzazione delle persone in quanto ognuna ha una sua vita che io non conosco- e sui sentimenti nati dagli incontri con estranei, che riconferiscono un valore a quelle persone e dimostrano che io sono intervenuta nella loro vita così come loro sono intervenute nella mia.