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Juliet Anno Numero 90 dicembre 98



GLOCALCULT - 4^ puntata

a cura di Luciano Marucci



Art magazine
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Termina qui l'indagine sul fenomeno della globalizzazione, svolta tra personalità rappresentative di vari ambiti disciplinari, ma ci auguriamo che il dibattito possa proseguire efficacemente in altre sedi, anche perché riguarda la trasformazione dell'identità individuale e collettiva, cioè il nostro essere nella comunità. Ovviamente una questione così complessa e aperta non consente di tracciare un bilancio; tuttavia, dalle testimonianze sono emersi significativi orientamenti e stimoli per una riflessione più attenta.
Oggi sulla terra restano solo poche culture dominanti che hanno assorbito le altre. Alcuni giudicano questo cambiamento radicale un vero "genocidio culturale", per cui la tendenza alla cultura unica fa la stessa paura di quanta ne fece ai nostri antenati la nascita della diversificazione. Altri, ottimisticamente credono che, tutto sommato, nel villaggio globale continueremo a essere uguali nella diversità. D'altra parte si deve riconoscere che l'ostinata difesa di posizioni superate può ostacolare un naturale processo di avanzamento.
La fase di transizione che ci troviamo a vivere è caratterizzata da una forte instabilità e da profonde contraddizioni, a cominciare dalla crisi mondiale dell'economia che ci fa percepire la portata delle mutazioni in atto. Nella sfera delle comunicazioni riusciamo a essere iperinformati in diretta su ciò che accade in sperdute aree del pianeta, mentre non sappiamo ancora chi siamo e dove stiamo andando. Tra tante incertezze è chiara solo una cosa: l'evoluzione del sistema sociale non segue più dinamiche spontanee e il governo del grande numero è insoddisfacente.
In questa puntata abbiamo voluto ospitare anche i punti di vista di due artisti americani - diversi per formazione e generazione - per dare una valenza internazionale all'inchiesta, e gli interventi visivi di due autori che esprimono mondi distanti fra loro: quello in cui è ancora diffuso il senso di appartenenza e quello dove i soggetti sono divenuti oggetti di identità altrui. A chiusura del lavoro, abbiamo scelto un testo di Pier Paolo Pasolini, intellettuale impegnato, che ha saputo analizzare precocemente e con lucidità, certe problematiche esistenziali di questo secolo.

Gian Ruggero Manzoni, poeta e teorico dell'arte
Il re della provincia barbara. Io sono un provinciale, un naïf, uno che racconta storie al Bar Sport, che urla, che sbraccia, che s'infervora discorrendo di donne e di calcio. Ho vissuto a San Lorenzo di Lugo (900 abitanti), a Fano (40.000 abitanti), a Grottammare (7.000 abitanti), a Wester (Germania, 8.500 abitanti), ora a Faenza (60.000 abitanti). Là dov'ero sono riuscito a creare situazioni da 'piccola Parigi' dell'arte. Se negli anni '60 e '70 ancora esistevano capitali deputate della creatività, se negli anni '80 abbiamo negato quei primati, negli anni '90 l'evento espressivo 'sano' nasce finalmente ai margini della galassia, nel cuore produttivo dell'Europa, in quei gangli 'barbari' dislocati negli angoli più appartati di un 'impero' allo sfascio. Gli artisti stanno tornando alla campagna; molti (i più) dovrebbero abbandonare la penna e il pennello per dedicarsi unicamente alla coltivazione dei pomodori; quei pochi restanti, l'élite, dai 'confini' di certo respireranno quell'energia primigenia che li ritonificherà, in attesa della prossima battaglia, una battaglia che sul confine (sul bordo dell'abisso) verrà combattuta. 'La madre di tutte le battaglie', come farfugliava Saddam, che vedrà quali protagonisti quei guerrieri dell'inventiva non ancora 'contaminati' da un sistema ormai gestito da caricature di uomini o da fantasmi, da onanisti, da imbalsamati, da subdoli intrallazzatori affamati di soldi e cocaina. In provincia, attorno ai fuochi dei bivacchi, parliamo ancora di noi e fra noi, mentre affiliamo le armi. La carne di cui siamo fatti giunge da lontano, in ogni attimo se ne ha coscienza, così come ci si rende conto che l'uomo (l'umanità) ancora è giovane, nonostante il tecnologico avanzato e le mille altre panzane che i media di regime ci sparano. Gli 'aristocratici barbari' che da sempre abitano il Vecchio Continente si alleeranno con gli 'aristocratici barbari' del terzo e quarto mondo... del Sud del Mondo. Lo scontro/confronto è vicino (...anche i 'profeti' rimasti vivono in provincia, come pure i druidi e gli sciamani) e da tale conflitto si delineeranno i tratti somatici del nuovo millennio. Forse perderemo, forse dai gas e dal marcio verremo decimati, forse alcuni, per poche briciole, si venderanno (tradendoci) al nemico, ma almeno, chi resterà, potrà dire: "Loro hanno avuto il coraggio di ribellarsi; loro hanno combattuto per un'idea fino all'ultimo"; e questa è la morte che mi auguro, questo il giuramento che abbiamo fatto.

Carlo Bo, critico letterario
La periferia esiste ancora, ma con una diversa fisionomia. Un tempo, quando si dava del provinciale a qualcuno, si pensava che egli fosse parte di un'isola, di qualcosa che non avesse contatto con il resto del Paese, tanto meno con il centro. Oggi questo non c'è più, perché i mezzi di comunicazione (radio, televisione e altri sistemi) consentono una presenza quotidiana maggiore.
Mi sembra che la periferia abbia maggiore autonomia e maggiore coscienza dei suoi diritti.
La trasformazione è stata determinata dal mutamento stesso della società. Una volta tutto confluiva al centro, adesso si è cominciato a capire che anche nelle regioni, nelle province ci sono delle possibilità, condizioni diverse. Quindi, una maggiore ricchezza e partecipazione.

Mario Giacomelli, fotografo
Sono stato spinto a rivolgere particolari attenzioni alla mia regione da tante bellezza di forme che essa aveva e che sprigionava. Una forza espressiva unica, da farmi sentire onorato di esserle figlio.
In questi ultimi anni tutto è cambiato. Le ferite inflitte nel corpo stesso della terra sono sempre più profonde. Si è spezzato l'equilibrio, il rapporto fra la natura e l'individuo, anche con il dramma ecologico, fino a sentire le pulsazioni di angoscianti solitudini e di morte.
Credo che sia meno possibile per me trovare immagini degne d'attenzione, anche se sono consapevole che tutto deve essere documentato tenendo conto del declino di forme, di modelli aziendali, di culture nuove, di rinnovamento tecnico. Io pensavo di raccontare la mia terra come un giardino e che gli uomini non dovessero mai abbandonarla; che non perdesse mai il suo odore per quello sgradevole della nafta, dei robot meccanici e del cemento.
Oggi punto l'obbiettivo su altre realtà: sulla durata della poesia, sulla materia dei sogni, su quanto respira per me sotto questo silenzioso cielo.
Voglio rifabbricare il mio mondo in un continuo ricominciare di esperienze; fotografare quello che penso, lontano dalla cattiveria dell'uomo in un succedersi di passioni e di meditazione.
I centri urbani non mi interessano di meno, ma non riesco ad accarezzarli come il grano quando il vento lo piega.

Mark Kostabi, pittore e musicista
Se globalizzazione significa superamento del provincialismo e raggiungimento di una maggiore integrazione tra le nazioni, tra le razze, mi sta bene. Il mio essere in Italia ne è uno dei risultati. Penso che quando saremo ben integrati non sarà più necessario fare la guerra. Nella stessa famiglia viene superata la logica dell'autodistruzione. Se oggi a Mosca ci sono McDonald, Yves Saint Laurent, Moschino, Versace; se in tutti i paesi, anche in Africa e in Sud America, saranno in vendita gli stessi prodotti, regnerà la pace...
Al momento in America nessuno conosce Giulio Turcato, considerato il migliore artista astratto italiano. Questo è un peccato. Parimenti, in Italia nessuno sa chi sia Ivan Albright (artista americano figurativo di grande valore) anch'egli scomparso. I galleristi in Italia viaggiano poco, per cui, per esempio, in Giappone quasi mai sono proposti artisti italiani. Io sto lavorando per cambiare questo sistema. Ho cominciato a scrivere di arte sulla rivista americana "Shout Magazine" ed ho intenzione di pubblicare articoli su artisti italiani. Ho iniziato appunto con Giulio Turcato a cui dovrebbe essere dedicata una grande retrospettiva al Moma di New York.
D'altra parte sono convinto che l'unificazione non sia raggiungibile totalmente. In America, nei cinquanta Stati, tutti parlano la stessa lingua, ma con dialetti e accenti diversi. Il modo di vita è differente a New Orleans rispetto a Los Angeles o New York.

Haim Steinbach, artista
Il rispetto dell'identità locale è importante quanto il rispetto per i diritti individuali o per la "libertà di espressione". Il "villaggio globale" può essere sempre più una realtà esistenziale del pianeta in cui dovrebbe esserci una democrazia globale.
La differenziazione esisterà sempre. Nel futuro potremo parlare tutti la stessa lingua, tuttavia differenti strutture di comunicazione si svilupperanno all'interno di nuove tecnologie di comunicazione.
Dovremo frequentare l'università a Parigi o a New York? oppure dovremo rimanere fedeli alla regione della nostra provincia di origine? La grande arte trascende l'identità nazionale. L'ibridismo è uno sviluppo che deriva dalle necessità del presente.

Pier Paolo Pasolini, scrittore
[...] Stupenda e misera città, / che m'hai insegnato ciò che allegri e feroci / Gli uomini imparano bambini, // le piccole cose in cui la grandezza / della vita in pace si scopre, come / andare duri e pronti nella ressa... Stupenda e misera / città che mi hai fatto fare // esperienza di quella vita / ignota: fino a farmi scoprire / ciò che, in ognuno, era il mondo.
Però, da cinque o sei anni tutto questo è finito. [...] Perché finché il protagonista della vita romana era il popolo, Roma è rimasta una metropoli, una metropoli scomposta, disordinata, divisa, frazionata, ma comunque una grande, confusa, magmatica metropoli. Nel momento, invece, in cui s'è compiuta l'acculturazione, attraverso soprattutto i mass-media, il modello del popolo romano non è più nato da sé stesso, dalla propria cultura, ma è stato un modello fornito dal centro: e da quel momento Roma è diventata una delle tante piccole città italiane. Piccolo borghesi, meschine, cattoliche, impastate di inautenticità e di nevrosi. [...] Questo processo di acculturazione, cioè di trasformazione delle culture particolari e marginali in una forma di cultura centrale che omologa tutto, è avvenuto pressoché contemporaneamente in tutta Italia. A ciò hanno concorso diversi elementi. Lo sviluppo della motorizzazione, per esempio. Quando cade il diaframma delle distanze, vengono meno anche certi modelli umani. Oggi il ragazzo della borgata inforca la motoretta e viene "al centro". Non si dice neanche più, come si diceva, "vado dentro Roma". Il centro li ha raggiunti. È finita l'avventura. Il ricambio tra centro e periferia è rapido e continuo. [...] C'è un diaframma tra il centro e la periferia. Fino a qualche anno fa erano addirittura due città diverse. Adesso in apparenza un po' meno. [...] Prima gli uomini e le donne delle borgate non sentivano nessun complesso di inferiorità per il fatto di non appartenere alla classe cosiddetta privilegiata. Sentivano l'ingiustizia della povertà, ma non avevano invidia del ricco, dell'agiato. Lo consideravano, anzi, quasi un essere inferiore, incapace d'aderire alla loro filosofia. Oggi, invece, sentono questo complesso d'inferiorità. Se osserva i giovani popolani vedrà che non cercano più di imporsi per quello che essi sono, ma cercano invece di mimetizzarsi nel modello dello studente, addirittura si mettono gli occhiali, anche se non ne hanno bisogno, per avere un'aria da "classe superiore".
(Da un'intervista di Luigi Sommaruga, Il Messaggero, Roma, 9 giugno 1973)