L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Virus (1994 - 1998) Anno Numero 12 febbraio 98



Sukran Moral

Conversazione con Fam



Mutation
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

LOIS KEIDAN
intervista di Franko B
n. 2 febbraio '98

Fear and loathing in Las Vegas di Terry Gilliam
Gianni Canova
n. 4 sett-ott-nov

Jenny Holzer - Interview
by Florence Lynch
n. 10 gennaio 1997

Incontro con Lea Vergine
FAM
n. 10 gennaio 1997

Renée Cox
Interview by Cristinerose Parravicini
n. 14 ott-nov '98

Movimento lento
di Renata Molho
n. 14 ott-nov '98


Sukran Moral - 1997 Speculum, diffidate della storia dell'arte

Incontro con una delle più interessanti artiste contemporanee, dopo la sua partecipazione, intelligente e rivoltosa, alla Biennale di Istanbul. Turca, da qualche anno "in transito" a Roma, Sukran è un esempio della nuova mentalità, multi-identitaria e multi-etnica, che introduce il prossimo Millennio.

Cosa vuol dire essere una artista (donna) e turca?

E perché non anche negra, ebrea, comunista, lesbica e zingara? Essere artista turca vuol dire combattere i pregiudizi della gente. Essere precaria, nomade, libera e non libera, vivere con valigie in mano, essere espulsa, iniziare sempre daccapo. Sfidare se stessa. Ma vuol dire anche mettere alla prova gli altri, studiarne le reazioni, il comportamento, il pensiero e il livello culturale... Vuol dire essere costretti a mostrare non di essere solo brava ma bravissima nel mio campo. Ho sentito molte volte dire che galleristi e collezionisti non credono alle artiste donne, ma la cosa più grave è che questa diffidenza ci sia anche da parte delle stesse donne galleriste e collezioniste. Ma io non sono solo turca e non sono solo donna, sono il risultato di un certo tipo di formazione culturale, di un certo tipo di scelte. La gente sceglie sempre la strada più facile per giudicarti e per instaurare un rapporto con te. I codici
che vengono usati per comprendermi in quanto persona e artista, sono alquanto banali e superficiali. Ma questo non è tanto un problema mio, quanto un problema che riguarda loro.

Si può leggere il tuo lavoro anche come un impegno nella lotta ad un razzismo culturale e territoriale?

In un certo senso si, ma non solo. Nel 1994 sono stata espulsa dall'Italia e ho dovuto inventare sulla mia drammatica situazione personale una performance ironica e trasgressiva, Matrimonio con tre, poiché in quel momento per non essere espulsa l'unica soluzione era di sposarsi. Così ho ideato una performance per mettere in scena la fantasia maschile: la voglia di creare un harem. Nell'Islam questa fantasia è concessa, mentre in Occidente ufficialmente si può avere una moglie, mentre in segreto si hanno molte amanti. Con questa performance ho ironizzato sia sull'Islam che sull'Occidente. Da questo punto di vista il mio lavoro, in generale, può essere letto come una forma di protesta,
anche se per me è un modo di vivere. Nel 1995 ho realizzato un altro lavoro intitolato Diffidate della storia dell'arte, la storia dell'arte occidentale non
analizza mai l'arte delle altre culture e civiltà, o meglio, si parla di queste altre forme di arte ma trattandole come decorazione, qualcosa di esotico, naif, una medicina contro la noia, ecc. Nello stesso anno ho realizzato una bandiera della comunità europea scrivendoci sopra in turco: "La cultura europea è razzista". Ma non vorrei che il mio lavoro passasse unicamente come politico o
sociale, perché tutto è politico e niente è politico. Anche l'amore. In un altro lavoro, realizzato in video, ho pianto davanti alla telecamera. Questo per me è un atto politico e intimo al tempo stesso.

Jan Chambers in "Dialoghi di confine" individua due anime della nuova letteratura inglese, una bianca più culturalmente omogenea e un'altra più eterogenea, meticcia. Qual è la tua opinione in proposito?

Trovo molte affinità tra il mio lavoro molto e ciò che scrive Chambers dal punto di vista filosofico o sociologico nel suo libro. Per esempio quando cita la teoria di Benjamin sulla storia scritta dai vincitori".

Ritieni che gli artisti di nazionalità "mista" siano più adatti per formazione a registrare i cambiamenti etnici e sociali e a offrirci il mondo da una angolazione più interessante?

Certamente. Gli artisti europei che sono fuggiti in America durante gli anni del nazismo hanno costituito in un paese a loro straniero una cultura estremamente stimolante. Oggi continua ad esser così. Questo perché persone che hanno già una cultura consolidata, che hanno il coraggio di emigrare e di ricominciare daccapo, sono in grado di conoscere ancora meglio la propria cultura e se stessi, entrando in contatto con una nuova cultura. A me è capitato di conoscere ancora più profondamente la mia cultura turca e me stessa, venendo a lavorare in Europa. Le persone troppo legate alla propria terra, alla propria nazione, in molti casi, rischiano di vivere conformisticamente, di vedere le cose in modo bigotto, hanno paura di confrontarsi con l'altro. Invece gli artisti che emigrano, che hanno il coraggio di spostarsi - sia fisicamente che psicologicamente (essere nomadi è più un fatto psicologico) - hanno più chances di non essere bigotti, ma anticonformisti e "scomodi". Gli intellettuali che emigrano creeranno nel terzo millennio una cultura e un'etica più vivace e interessante, più cosmopolita, più positiva.

I tuoi 'protagonisti' cercano di costruire la propria identità su radici neo-antiche, che cos'è per te in questo caso l'identità?

E' difficile definire che cosa sia "identità". Penso che questo genere di problema ci sia sempre stato, per esempio negli anni '60, ma è soprattutto nell'arte degli anni '90 - dopo il boom edonistico del decennio precedente - che è tornato alla ribalta. Questo perché è collegato al rinnovamento delle tecnologie, allo sviluppo delle scienze umane. L'intensificarsi della comunicazione (vedi Internet) ha comportato un allargamento di frontiera. Nella nostra società il comportamento antropologico non si è mai sviluppato parallelamente a quello tecnologico. C'è sempre stato un divario tra uomo e scienza. Il disagio che ne deriva crea problemi di identità al soggetto. A proposito dell'identità dei miei "protagonisti", nel mio lavoro Museo & Obitorio, ho mostrato una donna sul lettino ginecologico con un monitor tra le gambe, il monitor si identifica con la vagina della donna e si sostituisce ad essa. Ma la mia vagina-monitor è "critica". Il pubblico non vede più un oggetto o un soggetto passivo, ma un soggetto critico che li obbliga a guardare ciò che non vorrebbero. Questa azione è come un pugno in un occhio. Invece la donna nella storia dell'arte è sempre stata raffigurata come una santa e una madre ubbidiente. Ne L'origine del mondo Courbet raffigura la donna come la guardano gli altri uomini, cioè come un oggetto. Così anche nell'opera di Duchamp, che
raffigura una donna con le gambe aperte vista dal buco della serratura, viene rappresentata la passività della donna e il voyeurismo della società. Gli artisti contemporanei invece, particolarmente le donne, ben conoscono i codici maschilisti della storia dell'arte e li smascherano.

L'integralismo è solo dei paesi islamici o c'è un integralismo culturale altrettanto forte in occidente?

Alla Biennale di Istanbul, quando ho realizzato la mia performance nella chiesa di S. Irene, un sacerdote di religione cristiana ha cominciato a urlare e inveire contro di me, dicendo che in un luogo sacro era vergognoso per l'umanità mettere in scena un'orgia, si riferiva al mio video ambientato nel bagno turco. Quando i giornalisti presenti mi hanno chiesto cosa pensavo di questa reazione, ho risposto che l'integralismo non c'è soltanto nella cultura islamica ma anche in quella cattolica. Credo che oggi dobbiamo soprattutto essere attenti al
colonialismo culturale. Per quanto riguarda l'integralismo nell'arte, basta guardare tutte le più importanti biennali, manifestazioni e fiere-mercato del mondo. L'arte contemporanea secondo me è gestita unicamente da bianchi, uomini e maschilisti (sono maschiliste molte volte anche le donne).

Distacco e ironia sono due elementi che contraddistinguevano il tuo lavoro; in questa tua ultima serie di lavori, il tuo linguaggio mi sembra modificato. Quanto l'identità turca, che hai registrato in questa serie, ti turba e quanto ti trova distante?

L'ultima serie di lavori fatti per la Biennale di Istanbul sono stati fatti appositamente. Ci tenevo molto infatti a lavorare sul posto. I video utilizzati nella performance, sono stati realizzati nei posti più marginali della città:
l'obitorio, il manicomio e il bordello. Avrei voluto fare anche delle riprese in carcere ma il ministero della giustizia mi ha negato il permesso. Nel mio lavoro mi sono volutamente lasciata influenzare dal posto, dal momento e dal caso. La strada dove ho girato la scena del bordello è molto famosa e legalmente riconosciuta. E' come una sorta di Vaticano, una città dentro la città. Per avere il permesso ho dovuto faticare moltissimo, al commissariato hanno cercato in tutti i modi di scoraggiarmi e, infine, mi hanno autorizzato ma sono dovuta entrare scortata da un poliziotto. Appena hanno visto la telecamera tutti sono scappati e hanno iniziato a urlarmi contro, aggredendo il poliziotto. Sono riuscito a convincere solo una prostituta non solo a farmi fare la performance nella sua casa, ma anche a insegnarmi il mestiere. Così ho intessuto un dialogo caloroso con questa persona. Questa performance mi ha stimolato tantissimo, ma non l'ho ripetuta un'altra volta. Mi sono lasciata coinvolgere dall'atmosfera. Ho parlato con le altre prostitute e con i clienti, uomini che venivano a scegliere le donne come oggetti. Ho trovato molte affinità tra il bordello e il museo, infatti ho affisso sulla porta la scritta: "Museo d'arte contemporanea", in mano avevo un cartello scritto "in vendita". Questo pubblico di prostitute somigliava molto al pubblico dell'arte. In questo lavoro c'è ironia ma senza distacco. Volutamente. Non sono un'artista anglosassone ma sono mediterranea.
La performance che ho fatto nel bagno turco maschile (un luogo storico) era basata su un rovesciamento: ho creato un harem di uomini. Nel bagno turco tradizionale c'è sempre un addetto che ti lava e così anche nella mia performance sono stata lavata continuamente da un uomo. Così anche gli altri uomini si lavavano tra loro come dei bambini. Vivendo in occidente mi sono reso conto che esiste un vero e proprio mito del bagno turco, questo per me è stato irritante. Particolarmente le fantasie legate a questo luogo sono omosessuali e maschiliste. Io ho capovolto questa situazione facendomi lavare da uomini. Le mie radici turche sono molto visibili in questa performance, volutamente. Ma non si tratta di esotismo.

Virus è una rivista di contaminazioni e di contaminazioni è pieno il tuo modo di lavorare. Che cosa è per te la contaminazione?

Contaminare per me vuol dire sporcare. Viviamo in un mondo falsamente puritano e io cerco di sporcare la mia mente, il mio lavoro e anche il mio modo di vivere. Per me la parola contaminazione si può scomporre in "conta-mine-azione", ovvero che tutto quello che conta è realizzare una azione illegale esplosiva?