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Espoarte Anno 16 Numero 87 gennaio-marzo 2015



Andres Serrano

Isabella Falbo

L’irriverenza della verità



Contemporary Art magazine


SOMMARIO N. 87

New Media Art | Al MAXXI va di scena lo stato della New Media Art coreana | di Chiara Canali
Eppur si muove #8 | Orfani di SuperGulp | di Christian Ghisellini
Pensieri albini #20 | di Alberto Zanchetta
Esercizi di stile - Contemporary tales | Così si legge il futuro in casa Furla. Giovanna Furlanetto | di Luisa Castellini
Parlarti | Daniel Gonzalez: dal Barocco al Kitsch | di Simone Azzoni

GIANFRANCO BARUCHELLO | Origini del cinema freddo | intervista di Ginevra Bria

FOCUS | Arte terapia VOL.2 | La figura dell'arte terapeuta | di Isabella Falbo

CHANTAL JOFFE | Falling in love. Every time | intervista di Chiara Serri

BooksBox | Giochi di coppia. Storie d'amore (e non) sulla scena dell'arte | a cura di Francesca Di Giorgio

Open Studios | Roberto Coda Zabetta | Solo l’idea pura ha significato, il resto è qualcos’altro | intervista di Antonio D'Amico

MICHELANGELO GALLIANI | La materia si fa corpo | intervista di Alberto Mattia Martini

GIOVANI
Pol | Visioni post-industriali in ceramica | di Luca Bochicchio
Silvia Giambrone | La forma delle parole | di Daniela Trincia
Matteo Sanna | Il tempo di un'amorevole bugia | di Francesca Di Giorgio
Diego Soldà | Tra le pieghe del colore | di Matteo Galbiati
Mariagrazia Pontorno | Al confine. Un'arte perturbante tra natura e tecnica | di Valeria Barbera
Stefano Cumia | Dietro e dentro il quadro, dietro e dentro la pittura | di Matteo Galbiati
Daniele Franzella | Visioni scultoree per oltrepassare | di Laura Francesca Di Trapani

Arte&Impresa | Banca Sistema Arte | La voce giovane dell'arte | intervista ad Alessia Barrera di Matteo Galbiati

MASSIMO CACCIA | Animal jumping tra quadri e pagine illustrate | intervista di Livia Savorelli

Dossier Luoghi & Spazi | Il senso “civico” di un museo: Laura Barreca a Castelbuono | intervista di Simone Rebora

ANDRES SERRANO | L'irriverenza della verità | intervista di Isabella Falbo

Omaggio a DADAMAINO | Interviste a Nicoletta Saporiti e Fernando Colombo (ARCHIVIO Opera Dadamaino), Flaminio Gualdoni e Raphaelle Blanga di Matteo Galbiati

FRANCO GUERZONI | Osservare la polvere del tempo | intervista di Antonio D'Amico

SPECIALE BOLOGNA, cosa succede in città | a cura della Redazione

MARCO BOLOGNESI | Il futuro distopico | intervista di Alessandro Trabucco


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Silvia Camporesi
Chiara Serri
n. 88 aprile-giugno 2015

Michelangelo Pistoletto
Matteo Galbiati
n. 86 ottobre-dicembre 2014

Mustafa Sabbagh
Isabella Falbo
n. 85 luglio-settembre 2014

Cildo Meireles
Ginevra Bria
n. 84 aprile-giugno 2014

Beatrice Pediconi
Chiara Serri
n. 83 gennaio-marzo 2014

Barnaba Fornasetti
Francesca Di Giorgio
n. 82 ottobre-dicembre 2013


Andres Serrano, Picture of Fidel, serie Cuba, 2012.
Courtesy: l’artista e Nathalie Obadia gallery

Andres Serrano, Sir Leonard, serie Nomads, 1990.
Courtesy: l’artista e Nathalie Obadia gallery

Andres Serrano, Ryan McMahon and Shelly Cornetta McMahon, serie Residents of New York, 2014.
Courtesy: l’artista e Nathalie Obadia gallery

Andres Serrano (New York, 1950) è un artista che ha scelto di usare la macchina fotografica come proprio mezzo di espressione. La sua cifra caratteristica è la ritrattistica attraverso la quale, trasformando l’individuo in simbolo, esprime idee e concetti. Le tematiche che indaga provengono da un movimento libero nel reale in cui la dimensione del quotidiano aspira all’interazione con il divino in una logica rappresentativa interessata a far emergere rituali, atteggiamenti, pratiche e credenze dell’esistenza umana. Il linguaggio è spesso forte e scioccante ma semplice e comprensibile anche per chi non può capire, poiché Serrano concepisce l’arte come via alla liberazione, a cui tutti dovremmo aspirare.

Isabella Falbo: Nei tuoi ritratti fotografici, i “vestimenti” assumono un ruolo di importanza fondamentale. Ad esempio nella serie Nomads (1990) appaiono ritratti come in una rivista di moda. Nessun grande brand ti ha mai contattato per commissionarti immagini di questo tipo? Qual è il tuo rapporto con questo universo? Cosa ne pensi della moda intesa come forma culturale e come mezzo di espressione artistica?
Andres Serrano: Sì, vestimenti, o uniformi, sono importanti. È come la gente ti giudica. Con quello che indossi. Non ho mai fatto molto nella moda e non avrei voluto farlo. Un sacco di lavoro e senza retribuzione. E sono felice non mi venga richiesto, a meno che non sia pagato con un sacco di soldi. Sono un artista. Voglio solo fare le mie cose. Però mi piacerebbe realizzare una campagna pubblicitaria se ne avessi il totale controllo creativo. Quando avevo vent’anni, ho lavorato in un’agenzia di pubblicità per un paio di mesi e non ero in grado di decidere se volevo essere un art director o un copywriter.

La critica ha più volte fatto riferimento a come, nei tuoi ritratti, emergano le influenze dell’arte rinascimentale e, in particolare, dell’iconografia religiosa del Rinascimento. Tuttavia trovo che in molte tue immagini venga a stabilirsi un legame intenso anche con la cultura del Barocco: in riferimento alla serie The Morgue (1992) penso all’immagine della malattia (epidemie), della morte, della dissoluzione dei corpi, della violenza “sanguinaria” del Barocco controriformista che diventa in Occidente “estetica morbosa”. Il Barocco è anche il momento in cui gli apparati vestimentiari e scenografici della Chiesa cattolica raggiungono, come mai prima, forma ritualmente caratterizzante e rindondante, caratteristica spesso presente nelle tue serie, come ad esempio in The Klan (1990); il Barocco inoltre è il periodo e la “forma” con cui in America centrale le culture preesistenti finiscono sincreticamente per “soccombere” definitivamente alla religione dei conquistatori europei. È il periodo ove prende forma la religiosità popolare latino americana con immagini sacre caratterizzate da colori molto forti, come quelli che caratterizzano gli sfondi dei tuoi ritratti. Alla luce della tua formazione artistica, della tua cultura statunitense, ma pure della cultura delle tue origini familiari è sbagliato affermare che il Barocco, ben più del Rinascimento, è un nodo cruciale per la formazione delle tue visioni fotografiche?
Il Barocco, più surreale del Surrealismo, ha avuto un ruolo importante in entrambe le culture europee e latine. Le mie vere influenze da giovane artista furono, però, Marcel Duchamp e Luis Bunũel. Condivido con Bunũel il senso di riverenza, e irriverenza, allo stesso tempo. Il conflitto tra bene e male e come nessuno di essi abbia alcun senso. Duchamp ci ha insegnato che non c’è bisogno di creare alcun senso.

I liquidi corporei sono stati al centro della serie Immersions (1987-1990) che ha attirato sulla tua opera le prime attenzioni mediatiche, attribuendo al tuo lavoro una forte carica trasgressiva e trasformandoti in una celebrità sotto perenne controllo pubblico. L’utilizzo di sangue, urina, sperma come materiali artistici, ha caratterizzato le pratiche della Body Art degli anni ’70, dalle azioni di Pane ai cerimoniali orgiastici dell’Azionismo Viennese, alle performance basate sulla resistenza di Abramović, disancorando le forze dell’inconscio in direzione di pratiche liberatorie. Ma l’utilizzo dei liquidi corporei ha anche caratterizzato le pratiche “magiche” sia nella cultura popolare europea che delle culture mesoamericane. Inoltre, la magia, è stata anche al centro degli interessi di alcune avanguardie del Novecento e soprattutto dei Surrealisti o del Movimento del Realismo Fantastico e c’è chi sostiene che la fotografia abbia in sé e nei propri procedimenti chimici (penso alla fotografia tradizionale, analogica) qualcosa di “magico” nel catturare e restituire ciò che riprende. Sei interessato al pensiero magico? Quale è il tuo rapporto con la fotografia tradizionale e con la fotografia digitale?
Rilanci un punto interessante, non ho mai considerato il fatto di essere un alchimista o un mago. Certamente è un’idea potente quella di pensare che si potrebbe dar vita a magie o influenzare le persone.
Mi sono sempre visto come un creatore che registra momenti reali e artificiali allo stesso tempo. I corpi all’obitorio, per esempio, sono reali, ma li ho fotografati come se fossero stati nel mio studio. La stessa cosa avviene con The Klan.
Scatto ancora in pellicola e sono felice di questo. Mi piace l’aspetto della pellicola. Recentemente ho iniziato le riprese di alcune 4x5 su pellicola che le rende ancora più tradizionali.

La serie Holy works (2011) appare come una contemporaneizzazione dell’iconografia cristiana in cui sono ritratte le icone della religione cattolica (la Maddalena, Maria, Gesù, Sant’Antonio) e i suoi rituali (la Pietà, l’Ultima cena, Madonna con Bambino, Le Stazioni della Via Crucis). Molto del tuo lavoro è religioso ma non sacrilego. Realizzi icone degne di questa tradizione e speri che il Vaticano un giorno collezionerà il tuo lavoro. Tu che ami della Chiesa l’estetica e gli apparati più celebrativi, cosa pensi di Papa Francesco e del suo atteggiamento opposto? Hai in mente un progetto dedicato a lui?
Penso che Papa Francesco sia un Santo. Egli è veramente un uomo di Dio e del popolo. Non ho mai visto un Papa fare tante cose straordinarie in così breve tempo. Ogni giorno riesce a stupire.
Ho sempre detto che sono un artista religioso, un artista Cristiano e mi piacerebbe raggiungere la Chiesa e il Papa, nella speranza che io possa fare qualcosa degno della Chiesa. C’è stato un tempo in cui quella religiosa era l’arte più importante nella civiltà occidentale, ma quel tempo è passato da molto.

Sei newyorkese ma la tua famiglia ha origini cubane e mesoamericane. Nella serie America (2002-2004) ritroviamo i simboli dell’intero Paese. La tua serie più recente Cuba (2012) è un reportage sulla cultura cubana, che si compone di centinaia di immagini. Il tuo afflato e atteggiamento è simile a quello del grande ritrattista ed etnografo Edward Sheriff Curtis. Dopo le sperimentazioni informali e le provocazioni dei primi lavori e di serie come A History of sex (1995-1996) e The interpretation of dreams (2000-2001), il tuo approccio sembra possa inserirsi nella tradizione della fotografia etnografica, dopo Curtis portata avanti in anni più recenti anche da grandi fotografi di moda come Richard Avedon nella serie In the American West e da Irving Penn nelle foto dei Papua della Nuova Guinea, dei lavoratori o dei gruppi sociali come i bikers. Inoltre, ispirazioni appaiono tratte anche dalla ritrattistica sociale di Dorothea Lange della tradizione della fotografia americana della Farm Security Administration. Se si facesse una storia degli Stati Uniti a livello di fotografia etnografica non si potrebbe non inserire anche il tuo lavoro.
Qual è il tuo rapporto con la cultura e l’arte popolare latino-americana, quale legame hai mantenuto con la tua cultura d’origine?

Mi vedo come un newyorkese con radici culturali, sia qui che all’estero. Ho un temperamento latino con un atteggiamento da newyorkese. Sono un prodotto della mia educazione e del mio ambiente. Sono stato fortemente influenzato da Edward Curtis, quando ho fatto i ritratti della serie Nomads, molti anni fa. Mi piace molto anche il lavoro di August Sanders e Julia Margaret Cameron, oltre a quello di molti dei fotografi WPA compresi Dorothea Lange e Walker Evans. Quello che più mi interessa è che essi stavano registrando le persone e creando grandi immagini, allo stesso tempo. Non solo documentavano il loro tempo, immortalavano i momenti.
Penso di aver avuto un legame maggiore con una madre latino-americana che con la cultura o l’arte latino-americana. Amo la mia cultura d’origine, ma ho avuto un rapporto di amore-odio con mia madre. Era molto forte e ho dovuto essere forte anch’io. Certo, però, è stato proprio per lei che ho deciso di andare a Cuba per scoprire e creare Cuba.

Uno dei tuoi lavori più recenti è Sign of the Times (2013), in cui evidenzi il problema crescente degli homeless, che vedi come icone del tempo in cui viviamo. Nella realizzazione di questo lavoro abbandoni la macchina fotografica ed adotti un atteggiamento “performativo”: hai camminato per ore e ore, tutti i giorni per diverse settimane, tra le strade di New York comprando al prezzo di 20 $ i “cartelli” di queste persone e arrivando a collezionarne più di 200. In che direzione sta andando il tuo lavoro?
Sign of the Times prodotto da Creative Time Reports è più di un pezzo concettuale. Era un concetto e la collezione dei “cartelli” dei senzatetto è diventata l’opera stessa. È buffo perché il giorno prima dell’apertura della mia mostra Sign of the Times alla Galleria Yvon Lambert, Papa Francesco ha fatto il suo primo discorso papale incentrato soprattutto sui poveri e la disuguaglianza.
Voglio fare un lavoro che abbia un senso e dica la verità. Voglio fare magia.

Andres Serrano è nato nel 1950 a New York (USA), dove vive e lavora.


Eventi in corso:
Retrospettiva
Fotografiska Museum, Stoccolma (Svezia)
12 marzo – 12 giugno 2015

Galleria di riferimento:
Galerie Nathalie Obadia, Parigi / Bruxelles