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Arte contemporanea Anno 9 Numero 37 gennaio-febbraio 2015



Riccardo Guarneri

Diego Collovini

Parlando della mia pittura



bimestrale di informazione
e critica d'arte


SOMMARIO N.37

Riccardo Guarneri
Parlando della mia pittura


MID - Mutamento Immagine Dimensione
Arte Cintetica e programmata 1964 - 2014

Sergio Ragalzi
Scritto sul corpo

Gli angeli, la pittura e il
novecento italiano

Maria Mulas

Impalpabili variazioni tattili
Elena Modorati, Maria Elisabetta Novello, Pino Pinelli

Donna del ‘900

Ricordo di Paolo Cotani

Pittura Analitica in Italia
Gli anni sessanta

Vasarely - Fontana
Due mondi, due culture, due scuole a confronto

Simona Caramelli
Until next morning

Fosca Rosselli
In viaggio

Arcangelo Sassolino
La scultura come performance inorganica

Ivan - Poeta di strada
Intervista all’artista

“L’urlo e il fruscio” di Maria Chiara Zarabini

Nicola Felice Torcoli
Intervista all’artista

BAU 11
Contenitore di cultura contemporanea

Emiliano Zucchini
I cieli infranti dello sguardo

La materia del colore
Ovvero di cosa parliamo quando parliamo
di colore

Francesco Diotallevi
Terre di confine

Paul Jenkins
Cosmogonie interiori

Chateau Gutenberg al Grand Palais
Quinta installazione di Virgilio Patarini al
Salon Comparaisons

Dream in a landscape e Area Open Project
Il compositore Paolo Tarsi in collaborazione con Paolo Tofani e Fauve! Gegen a Rhino

Femminicidio e valore salvifico dell’arte

Pittura Analitica a Pieve di Soligo

L’universo si ricompone nel silenzio
Note sulla pittura di Alfredo Serri

Libri d’arte

Eventi Flash

Mostre in Italia

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Maurizio Cesarini
Katiuscia Biondi Giacomelli
n. 33 febbraio-marzo 2013

Claudio Olivieri
Alessandra Alliata Nobili
n. 32 ottobre-novembre 2012


Riccardo Guarneri
Campi alterni in grigio, 2008
cm 95 x 95

Riccardo Guarneri
Contrasti, 2012
cm 95 x 120

Riccardo Guarneri
Grande campo grigio, 2007
cm 95 x 95
Coll. Meozzi

Riccardo Guarneri: Nei primi anni sessanta diventai amico di alcuni pittori di Genova: Bargoni, Esposto, Stirone, Carreri che avevano fondato il gruppo Tempo3. Fu Eugenio Battisti a proporre il nome di Tempo3 intendendolo come il terzo tempo dell'astrattismo: l'astrattismo classico geometrico, cui seguì l'informale poi questo terzo tempo, che andava oltre l'informale. Notai che avevo delle affinità con questi artisti, sebbene ognuno di noi lavorasse per conto proprio. Anche noi seguimmo la moda dei gruppi, c'era, infatti, il Gruppo1, il GruppoT, il GruppoN e così via. Tenevo allora solidi rapporti anche con gli amici del Gruppo1 e nel contempo frequentavo a Milano Aricò, Vago, ecc. Mi ritrovai così in una realtà artistica più stimolante rispetto a quella di Firenze. Intensificai quindi i contatti con Milano, Roma e Genova. Incontravo Battaglia, Verna, Vago, Matino, Griffa, Gastini, Olivieri. Questi erano i giovani per me più interessanti, tanto che mi riconoscevo nella loro ricerca e quindi mi sembrò normale condividerne il cammino. Cominciammo a esporre alla galleria la Piramide di Firenze che, con la galleria Peccolo di Livorno e il critico Lambertini, mostrava interesse per la nostra sperimentazione pittorica. Ricordo anche gli incoraggiamenti di Bruno Passamani e Vinca Masini, che mi presentò ad Apollonio e ad Argan.

Diego A. Collovini: I nomi che hai fatto e le gallerie che hai citato hanno stimolato l'attenzione verso una nuova idea di pittura. In particolare Peccolo che, con i suoi rapporti con l'Olanda, la Germania e la Francia, ha introdotto diverse novità sulla ricerca in Europa e divenne un punto di riferimento per tutti quelli che volevano fare pittura. Importante fu l'opera di Menna, “La linea analitica dell'arte moderna”, con la quale ha voluto dare un'interpretazione innovativa all'arte; molti critici, su quella scia, rifletterono sul linguaggio della pittura e dettero una forte visibilità a quel tipo di espressione pittorica definita analitica. È stata una singolare esperienza che non si è mai coagulata in un vero e proprio gruppo, ma una sommatoria di eventi che hanno studiato profondamente il linguaggio della pittura astratta. Anche tu fosti invitato più volte a queste mostre.

R.G.: Ognuno di noi, pur condividendo un comune percorso sperimentale, lavorava per conto proprio, per cui non diventammo mai un gruppo strutturato. Anch'io fui inserito in quell'ambito di ricerca, che assunse il nome di Pittura Analitica o Pittura Pittura; ad esempio posso citare la mia partecipazione alla mostra Empirica allestita da Cortenova a Rimini e poi a Verona. In quell'occasione fui inserito tra gli antesignani. Mi si chiese, infatti, di esporre alcuni quadri degli anni sessanta, come fossi un precursore di quell'esperienza. Poi ne furono allestite molte altre alle quali partecipai anche entusiasticamente. Tra tutte, ricordo Fare Pittura che si tenne a Bassano del Grappa curata da Fagone e Passamani.

D.A.C.: Credo che dobbiamo, in questo nostro colloquio, inseguire, benché solo in parte, quel tipo di riflessione, parlare cioè delle componenti linguistiche che caratterizzano il tuo fare pittura. Per primo credo sia il caso di soffermarci su un effetto peculiare del tuo operare: la luce. Nelle tue opere si percepisce una certa atmosfera, ovattata, quasi una nebulosa che copre la superficie, dalla quale però emerge una personale idea di luce, che porta con sé, quasi rispettosamente, segni, vibrazioni cromatiche, forme quasi geometriche; insomma rendi protagonista una luce riservata, come fosse formata da un andirivieni di onde che vibrano su tenui cromatismi.

R.G.: Per quando riguarda il discorso sulla luce, credo tutto sia cominciato con il mio viaggio in Finlandia. Allora suonavo in un'orchestra. Ero molto giovane e fui attratto dalla luce incredibile che hanno il mare, i ghiacci, il cielo e le soffuse nuvole di quelle zone, soprattutto in inverno o inizio primavera. In quell'occasione si è manifestato un interesse verso la luce fredda e tersa; in effetti, io non amo molto il sole o i colori forti dei paesi mediterranei, e mi affascina di più la nebbia, mi attirano i cieli bianchi e i mari argentati. All'Aia fui conquistato dagli ultimi autoritratti di Rembrandt, e dalle opere di Seghers, che dipingeva dei quadri molto chiari e luminosi, o dai colori di Vermeer. Mi si scolpì nella memoria la luce presente negli autoritratti di Rembrandt. Tutti con i fondi scuri e con un fascio luminoso a esaltare i volti. I miei quadri allora – 1954 o 1955 – erano informali e abbastanza scuri. Gradualmente cominciai a schiarire il colore fino a trasformalo in monocromo. C'erano dei segni, che certo mi derivavano dall'informale, ma pian piano evolvevano, assumendo una forma quasi geometrica: diventavano superficie e costruzione, come forme leggere, aleatorie realizzate con lievi e leggeri segni, trasparenti e impalpabili. Le vibrazioni che ne sortivano creavano una singolare superficie; naturalmente dal fondo bianco della tela si mostravano sia le linee sia le nuove forme. Così sui bianchi, la trama o i segni di grafite variavano di colore e di intensità. Un segno leggerissimo di matita rossa, su una tela bianca, si trasforma in un rosa pallidissimo. Anche questa è una luce particolare.

D.A.C: Si può pensare a una inspirazione di tipo naturalistico oppure a una riflessione di tipo analitico sugli effetti del colore?

R.G.: No, non credo si possa parlare di naturalismo nelle mie opere, sebbene l'emozione sia stata determinata dal paesaggio. Certo non volevo che il quadro avesse un riferimento figurale. Per me la pittura è astratta; d'altronde avevo abbandonato la figurazione già negli anni cinquanta e da allora ho sempre continuato in questa direzione. È certo però che, come tutti gli astratti, non mi sono limitato a ritenere che la pittura fosse solo una necessità espressiva. Pitturare significa anche riflettere su come sia la pittura e, quindi, nel corso del tempo, sono stato coinvolto più sotto l'aspetto razionale che in quello emotivo.

D.A.C.: Nella tua pittura si avverte una forte attenzione agli effetti che questa produce nel suo mostrarsi e nel suo definitivo aspetto fenomenologico, per questo ritengo che il passaggio da una pittura immediata, come lo è l'informale, a una pittura ragionata e sperimentale, sia stato ponderato e nato dalla consapevolezza che fare pittura implica una serie di ragionamenti, di riflessioni e anche di priorità espressive.

R.G.: La materia, la luce e il deciso segno presenti nelle opere di Rembrandt, hanno stimolato la scelta di una pittura di tipo informale. Io dipingevo delle macchie bianche al centro su un fondo nero o marrone o tendente al verdastro, comunque scuro. I bianchi al centro erano segni a pennello di colore a olio. Nel 1962 avvertii la necessità di un cambiamento; cominciai a dipingere dei quadri banchi. Segnavo la superficie con dei tratti a matita e leggere linee bianche, a volte dipinte ad acquerello, altre con un acrilico molto diluito, in modo che la superficie diventasse monocroma ma strutturata. Volevo dare un'idea di geometria e di costruzione formale. Poi verso il 1968 – due anni dopo la mia presenza alla Biennale di Venezia – le superfici erano praticamente scandite con dei quadrati, che però non erano mai quadrati perfetti, ma erano sbilenchi, tanto che io li chiamavo quadrangoli. Creavo delle forme irregolari per rallentare la lettura: così ciò che sembrava un quadrato era, in realtà, una linea leggermente inclinata o lievemente curva. Facevo affidamento a una sorta di psicologia della percezione, poiché c'era una forma delineata da quadrati simultanei, da quadrangoli o angoli quasi sempre di un leggerissimo bianco. C'era la volontà di geometrizzare o di razionalizzare l'immagine. La mia non era però una pittura geometrica nel senso storico del termine, ma un artifizio per creare ambiguità e prolungare la lettura. L'osservatore era così indotto a domandarsi del perché di una linea storta o leggermente inclinata o di altre imperfezioni che stravolgevano la precisione della geometria. Volevo prolungare l'attenzione, tanto che definivo le mie opere quadri a lento consumo. Non mi servivo solo di una "falsa geometria" ma utilizzavo anche il colore delle matite, gialle, verdi, rosse. Tutto questo contribuiva a creare curiosità. E poiché le sfumature non erano percepibili immediatamente, bisognava fermarsi a osservare per scoprire ciò che stava ancora nascosto o che lentamente veniva alla luce.

D.A.C: Abbiamo introdotto un altro elemento linguistico della pittura: il colore. Questo, caratterizzato dalla mutevolezza, dalle inimmaginabili combinazioni e dalle infinite possibilità espressive, contraddistingue ancora la tua pittura. Il colore è il protagonista indiscusso e così, sebbene delicato, riservato, a volte, nella sua massima leggerezza, si fa forma, quasi un momento di pausa e di riflessione.

R.G.: Il colore deve venire dall'interno, dalla personalità dell'artista. La tenuità dei cromatismi nei miei quadri deriva dalla matita o dai pastelli molto leggeri o addirittura dalla polvere di pastello adatta a velare la superficie. Il mio colore vive in funzione del bianco e della luce chiara. Ho usato molto l'acquerello su una tela bianca o su un foglio di carta bianco, comunque una superficie bianca, perché ogni composizione parte dal bianco. Tutto quello che è aggiunto, va a coprire – e quindi a sottrarre parte del bianco e della luce – ma se la copertura è leggerissima, è chiaro che la luminosità del bianco sottostante traspare e viene fuori, per cui non potevo servirmi di colori acrilici o a olio. È chiaro che il colore viene coordinando il dialogo tra me e il quadro e ne determina il percorso e le scelte formali. Se, per esempio, si mette una striscia violacea su una superficie bianca, che può essere una tela o una carta, guardando con attenzione ai bordi di quella striscia appare un giallo leggero, perché fa parte del processo dei colori complementari.

D.A.C: Anch'io penso che la tua pittura non possa essere ascritta a categorie ben precise, poiché, al di là di alcune considerazioni sulla progettualità credo che l'aspetto più evidente sia quello della liricità, cioè di una pittura che si esprime con un certo equilibrio formale ma anche molto attenta agli effetti del colore e della luce, comunque libera e che rincorre sé stessa nel procedere e nel formarsi; come non penso sia un'esecuzione formale precisa che segue un percorso già preordinato, ma risponde a un'idea generale, che poi, nel proseguo del fare, si alimenta da sola.

R.G.: C'è sempre un inseguire nel mio lavoro sebbene ci sia, a monte, un progetto, un'idea dalla quale iniziare. Mettere quattro quadrati uno dentro l'altro e che si spostano leggermente, fa parte della progettazione. Poi, dopo i primi interventi, comincio a registrare dei minimi scarti. C'è sempre qualcosa che, nella fase evolutiva, alla fine viene modificata. A tal proposito ne discussi al telefono con Apollonio. A una sua domanda risposi che ormai non progettavo più, ma lui continuò: "Per forza non progetti, hai sempre progettato ormai il progetto l'hai addosso, non te lo puoi togliere". Il mio percorso pittorico è sempre stato un continuum. Non ho mai pensato a un cambiamento, non ne ho mai sentita l'esigenza. Nelle mie opere c'è sempre una variazione su un tema, che cambia di volta in volta. Mi sento un bachiano che procede su piccole variazioni. Non essendo mai stato assillato dal mercato – che di solito tiene ferma la creatività di un artista in un solo stile espressivo – ho potuto sperimentare cose nuove e diverse, approfondire alcuni temi. Nel caso specifico ho sempre cercato una sintesi tra le caratteristiche della carta e quella della tela. Ho usato carte pesanti da 600 grammi e su queste ho utilizzato degli acquerelli, provando a sostituire il segno della matita che, su quella carta ruvida, sgranava. L'impossibilità di continuare in una certa direzione mi ha indotto a lavorare sulle macchie di colore ad acquerello leggero. Così ho realizzato le strisce orizzontali che, anziché vibrarle con la matita, vibravo ad acquerello. Ho poi provato a dipingerle anche su tela, ma con scarso successo e questo mi ha indotto cambiare tecnica. Utilizzai una carta di riso giapponese leggerissima che incollavo sulla tela con pasta d'amido. Su questa stendevo una macchia di acquerello. Il risultato fu efficace poiché ne uscivano delle filettature interessanti e intriganti nel loro effetto. Con questa tecnica dipinsi per quasi tutti gli anni ottanta.

D.A.C: … ma non mi hai detto come hai cominciato …

R.G.: A un filosofo tedesco domandarono che cosa fosse per lui la vita e lui disse che è quello che ci capita. Io ero intenzionato a fare il musicista poi in Finlandia incontrai un pittore veneziano, uno di quelli che girano il mondo facendo l'artista, poi conobbi una ceramista che mi fece visitare l'Accademia di Belle Arti di Helsinki. A Firenze ebbi frequentazioni con due giovani pittori dell'Accademia che avevano vinto una borsa di studio, molto bravi tecnicamente. Con loro iniziai a sperimentare il linguaggio della pittura e così, piano piano, mi accorsi che non avevo più voglia di studiare musica. Io avevo scelto la musica ma la pittura ha scelto me.