D’ARS Anno 54 Numero 219 autunno 2014
Gli interstizi dell’anima
“Detesto i fiori, forse perché sono più belli dei miei quadri, più belli di me. Per un’ira che ho dentro”
Olga Carolina Rama, Torino, 1918. Così all’anagrafe. Nei primi acquerelli Olgacarolrama, lettere sposate in minuscolo, pacate, quasi flemmatiche. Nel giro di pochi anni solo Carol Rama, nome d’arte, risolto e asciutto, che ha sollecitato l’attenzione di molti, da Man Ray a Paolo Poli, il quale scrive “mi è sempre piaciuto questo nome, con delle ascendenze direi greche, come panorama, cinerama”. Carol Rama è artista di spicco del Novecento italiano, donna eccentrica e tenace, dalla feconda visionarietà, eppure sempre ardentemente legata alla realtà. Una realtà filtrata e circoscritta alla sua biografia, nella quale fantasmi e oggetti sono congiunti e combinati nella creazione di un immaginario complesso, nudo e crudo.
Un universo difficile da decifrare con i soli mezzi della critica artistica. Le sue figure filiformi, le commistioni talvolta macabre e sempre insolite, hanno radici connaturate alla sua vita, in maniera maggiore che in altri artisti. Il volume appena uscito “Carol Rama. Il magazzino dell’anima”, edito da Skira, è un edificante e lodevole tentativo di intromissione benevola all’interno delle confessioni dell’artista, attraverso le testimonianze, le tracce, gli indizi presenti all’interno di casa Rama.
Quello che si spalanca sotto la luce artificiale delle lampade domestiche è un ordine all’apparenza intrafugabile, ricolmo di manufatti, arnesi, utensili dalla provenienza più disparata. Le fotografie impeccabili di Bepi Ghiotti – macchina fissa, diaframma chiuso, tempi lunghi di esposizione – lasciano che il trasferimento sul supporto sia identico all’immagine catturata, senza che artifici tecnici intacchino minimamente la verità dell’immagine. Il risultato è un concentrato di malinconia e disarmo, come se la gentile spettralità trafugata dall’interno si posasse lentamente sulla carta stampata, fino quasi a sentirne l’olezzo.
Maria Cristina Mundici, autrice del volume e storica dell’arte, ha frequentato l’artista e la sua “mansarda”, dai vetri oscurati e dalle pareti sfumate di grigio, dagli anni novanta a oggi, al fine di intraprendere un percorso a immagini e parole che restituisca almeno in parte l’orizzonte simbolico delle opere dell’artista.
Perché quella di Rama non è soltanto una dimora o uno studio, ma il luogo in cui vive da settant’anni, accumulando una quantità inimmaginabile di oggetti affettivi, alcuni provenienti dalla famiglia, altri feticci raccattati in ogni dove, altri regalati da amici (tra i quali Man Ray, Carlo Mollino, Andy Warhol, Edoardo Sanguinetti), tutti disposti in un ordine maniacale all’apparenza caotico, come ogni opera d’arte che ne valga l’appellativo.
Nel volume sono eluse intenzionalmente immagini delle opere, a rendere ancora più efficace un approccio quasi narrativo all’esistenza della Rama, tutta raccolta nelle mura domestiche e negli oggetti altrimenti destinati a scomparire con la memoria dell’artista. L’abbandono della biografia artistica convenzionale a favore di uno sguardo più intimo e appassionato trasforma il volume in una sorta di memoriale sottinteso, un diario involontario di una vita riservata e straripante, di marze, spiriti, talento e devozione.
Rama cominciò a dipingere a quattordici anni, senza quasi mai smettere “Ognuno di noi ha una malattia tropicale dentro di sé, che cerca di rimediare. Io rimedio con la pittura”, eppure la prima grande retrospettiva arrivò solo nel 1985, a distanza di cinquant’anni dall’inizio della sua carriera pittorica, quando Lea Vergine, con allestimento di Achille Castiglioni, mette in piedi una mostra epocale nel Sagrato del Duomo di Milano. Il tardo riconoscimento pubblico è da iscriversi in un perbenismo antecedente che considerava inaccettabili le sue opere corroborate da parti anatomiche erotiche e sfacciate, con innesti di animali, protesi ortopediche, dentiere, scarpe e altri feticci. Addirittura, nel 1945, la sua prima personale fu bloccata e le opere sequestrate, poiché ritenute inaccettabili per il buongusto dell’epoca. Non solo, una seconda “scomunica” dalla società arrivò perfino nel 2006, quando il Tribunale di Torino pronunciò l’interdizione di Carol Rama nientemeno che per ‘infermità di mente’, a causa dei 38 scatti in cui l’artista posò nuda per l’amico Dino Pedriali (fotografo, fra gli altri personaggi, di Pasolini, Warhol, Nureyev), che risalgono al giugno del 2005 e che avrebbero dovuto essere esposti alla galleria Luxardo di Roma. La mostra fu annullata poiché l’avvocato difensore diffidò la galleria dal mostrare quelle foto “sconvenienti”, nonostante la galleria abbia tenuto a sottolineare più volte che il lavoro di Dino Pedriali rende pienamente giustizia alla grandezza di Carol Rama, alla sua arte e alla sua vita.
Una vita pregna di dolore quella della Rama, le cui opere sono nient’altro che il volto manifesto di un’ira sommersa e indelebile. Il collasso finanziario della famiglia, la vita agiata decaduta, il suicidio del padre, il ricovero della madre in ospedale psichiatrico sono i tragici eventi che segnarono l’esistenza dell’artista e i cui riferimenti nelle sue opere appaiono inoppugnabili, così come sono visibili all’interno delle mura domestiche, adornate di oggetti appartenenti alla memoria familiare: l’Olivetti M.20 del padre, le miriadi di suole, protesi e piedi dell’azienda ortopedica dell’amato zio Edoardo, le foto della madre, quelle degli amici di sempre, le protesi dei denti della zia, gli stracci, i busti, le pietre.
La sensazione di amarezza che pervade gli scatti è la traduzione emotiva di ricordi perpetui, di desideri dissodati, di passioni inestinguibili: “Nella casa di un’artista c’è di più […], perché è previssuta, tormentata e rivisitata in continuazione”, così l’artista a riguardo, per poi aggiungere “[…] noi dobbiamo prepararci a giorni disperati e felici, che poi è uguale in qualche modo, dobbiamo muoverci con disinvoltura, non dobbiamo avere spazi che non sono nostri”. Attorniata da grigie pareti animate, in un volume domestico ricolmo di presenze fissate in oggetti, Carol Rama mangia, dorme, pensa, dipinge. La stessa coerenza compositiva che domina le opere la si riscontra nella disposizione degli oggetti nella casa, “installazione di una vita”. Ma è solo attraverso la pittura che in lei la tragedia volge in forma e il buio esterno in luce interiore.