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Arte e Critica Anno 20 Numero 77 gennaio-marzo 2014



Gli anni settanta a Roma. Uno sgambetto alla storia?

Roberto Lambarelli

La responsabilità è del Palazzo delle Esposizioni



trimestrale di cultura artistica contemporanea


SOMMARIO N. 77

IN COPERTINA
Pino Pinelli
Pittura GR, 1976, acrilico su flanella non preparata, cm 55,5 x 37
Courtesy Galleria Progettoarte-elm, Milano. Foto Bruno Bani
IN COLLABORAZIONE CON CLAUDIO POLESCHI ARTE
CONTEMPORANEA, LUCCA

039 editoriale: Gli anni settanta a Roma. Uno sgambetto alla storia?
La RESPONSABILITà è del Palazzo delle Esposizioni

di Roberto Lambarelli
040 Sulla pittura di Pino Pinelli. La superficie, la materia, lo spazio
On the painting of Pino Pinelli. The surface, the material, the space
di / by Marcello Carriero
046 Assalto alla storiografia artistica / Assault on art historiography
di / by Vincenzo Estremo
050 L’(ir)realtà di Clemens von Wedemeyer (tra script e making of)
The (un)reality of Clemens von Wedemeyer (between script and the making of)
di / by Eleonora Farina
052 Una nuova età della poesia / A new age of poetry
Intervista a / Interview with John Giorno a cura di / by Ilari Valbonesi
056 Oliver Osborne e la comunicazione visuale / Oliver Osborne and the visual communication
Intervista a cura di / Interview by Guido Santandrea
059 La bellezza dopo la crisi dell’Occidente
di Paolo Aita
060 la via mediterranea / the mediterranean way
di / by Daniela Bigi
069 Sulla collina di Monte Olimpino. Il cinema di Bruno Munari e Marcello Piccardo
On the Hill of Monte Olimpino. The cinema of Bruno Munari and Marcello Piccardo
di / by Lisa Pedicino
072 Una pittura aperta
di Mario Diacono
072 UN INEDITO DI MARIO DIACONO. un’occasione per ripensare alla roma sperimentale
di Roberto Lambarelli
074 SCRITTURA E RISCRITTURA DELLO SPAZIO (SCENICO). 1967-69
di Andrea Ruggieri
076 Ritorno al cinema
di Gianfranco Toso
079 DIDIER FAUSTINO. We can’t go home again
di Luca Galofaro
080 parole nel vuoto / words in the void 2/3 + 3/3
di / by Gianfranco Toso
084 Maker: opportunità nelle connessioni
di Sara De Franceschi
084 La creatività non teme il progetto
di Vincenzo Cristallo
090 RACCONTO DI UN PROGETTO CORALE. politica culturale E scena emergente
di Daniela Bigi
093 Tassonomie settecentesche. Mark Dion per Napoli
di Maria Giovanna Mancini
099 Oliviero Rainaldi. ripetizioni differenziali
di Moira Chiavarini
101 Alessandro Vizzini: pratiche per la comprensione della natura
di Daniela Cotimbo
102 L’immagine tradita. Davide Balliano
di Andrea Ruggieri
103 Moataz Nasr. Un ponte tra Pisa e Santa Croce sull’Arno
di Ilaria Castellino
104 EUROPA MUSEI/FONDAZIONI: ACQUISIZIONI
106 Il movimento Arte Útil, ovvero arte come strumento
di Anna Santomauro
108 I asked my friends to describe an artwork to me. Petra Feriancova
Intervista a cura di / Interview by Massimiliano Scuderi
L’EVANESCENZA DELL’ARTEFICE NEL TEATRO FIGURATIVO DI GIULIO PAOLINI
110 The evanescence of the creator in the figurative theatre of Giulio Paolini
di Paolo Mastroianni
112 Maurizio Nannucci, Un giro di parole
di Daniela Voso
113 Tony Cragg. l’umano nella materia / the human within the material
di / by Francesco Lucifora
114 Zaha Hadid e / and Wael Shawky alla / at Serpentine + Sackler Gallery
di / by Antonio David Fiore
116 Anywhere, Anywhere, Out of the World. 
 Philippe Parreno al / at Palais de Tokyo
di / by Antonella Croci
120 Bons baisers d’Hollywood. Brice Dellsperger da / at Air de Paris
di / by Antonella Croci
118 [other stories] Dieter Roth, Islands
di / by Stefano Vittorini
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Attorno all’ultima mostra del Palazzo delle Esposizioni, Anni ’70. Arte a Roma, non dico che ci sia stata una grande aspettativa (del resto non ce ne è stata da anni, nemmeno per quella tanto anunciata Empire State. Arte a New York oggi, che si è rivelata essere soltanto un avvenimento mondano), ma sicuramente un certo interesse lo ha sollevato, avendo risvegliato dall’apparente torpore i protagonisti di una stagione che per molti versi ha rappresentato la bestia nera della storia recente: gli anni difficili, il decennio della sparizione dell’arte, la nascita del postmoderno e l’incubazione del capitalismo assoluto e totalitario.

Ho detto bestia nera, ma forse avrei dovuto dire, almeno dal punto di vista artistico, chimera, tanto gli anni settanta sono stati guardati, ambiti, a volte involontariamente saccheggiati da ben due generazioni di artisti nate tra gli anni novanta e i duemila, senza averli quasi mai non dico superati ma raggiunti.

Se dovessi dare un giudizio sulla mostra con un pensiero liberato dalla storia e dalla critica, diciamo dal punto di vista curatoriale postmoderno, direi che è molto bella, che le opere sono state selezionate con grande attenzione alla qualità, tutte allestite in modo ineccepibile. Se dovessi però metterci dentro una considerazione critica allora direi che, siccome gli artisti sono rappresentati mediamente con un’opera ciascuno, diventa impossibile distinguere il buono dal cattivo, per non dire dal geniale. Tutti affiancati uno all’altro secondo un criterio da regesto.

Se dovessi poi vederla dal punto di vista storico, alcune presenze legate agli anni cinquanta (Turcato e Burri) o agli anni ottanta (Salvatori e compagni) spezzano l’unità, a cui andrebbero ricondotti gli anni settanta per poterli considerare in una continuità con i precedenti e con i successivi. In tal modo si perde il vero significato di quel periodo, che ha rappresentato nel suo nocciolo duro l’entrata in crisi definitiva della condizione di avanguardia. Perché negli anni settanta si poteva parlare ancora di avanguardia e dopo non più? Una semplicissima domanda alla quale già le stesse opere presentate in mostra, ma disposte in altro ordine e con altra modulazione, avrebbero potuto rispondere.

Ma ripeto, la mostra è bella e le opere selezionate secondo qualità. Questo vuole il Palazzo delle Esposizioni, questo vuole il sistema globalizzato. La storia e la cultura nel loro farsi sono un’altra questione. È imbarazzante vedere quelle opere portatrici di esperienze devastanti e devastate ridursi a far bella mostra di sé, non riuscendo nemmeno a trasformarsi in un pallido simulacro del clima degli anni di piombo. Ma il Palazzo delle Esposizioni vuole essere una macchina spettacolare. Il visitatore/cliente entra dall’ingresso principale, dalle biglietterie, arrivandoci dallo scalone di via Nazionale che lo accoglie a fauci aperte, per uscire da una piccola porta di servizio laterale, passando per un obbligatorio e tortuoso percorso, come un intestino, all’interno del bookshop, in fondo al quale, come in un anonimo autogrill autostradale, c’è una cassiera alla quale rispondere degli acquisti.
Questa era una mostra che avrebbe dovuto fare il MA CRO e che invece non ha fatto. Bisogna riconoscere perciò a Daniela Lancioni il coraggio di avere intrapreso tale avventura, con l’avvertenza che però forse non era quello il luogo, non era quella la modalità per disvelare il vero significato degli anni settanta.

Se ormai siamo assuefatti alle mostre globalizzate degli ori, dei tesori, dei preziosi, per le quali il Palazzo delle Esposizioni sembra avere una naturale vocazione, di fronte a questa mostra si prova un sussulto, uno scarto nella memoria; ma davvero sono stati questi gli anni settanta? Appare evidente che questa mostra, che attiene ancora alla cronaca seppure sublimata in regesto, lascia appena intravedere una possibile storia interna, ma senza considerare affatto che le idee e gli eventi di quegli anni portano con sé il segno di una trasmutazione epocale, il passaggio dall’avanguardia al postmoderno. In questo senso sarebbe indispensabile scrivere una controstoria degli anni settanta che iniziasse magari dalla stessa Vitalità del negativo, che appare l’evento guida di questa mostra, leggendola però come l’espressione di una contraddizione, come l’inizio della fine dell’avanguardia. Una mostra che mentre parlava il linguaggio della contestazione, già si consegnava all’ufficialità; mentre parlava in nome degli artisti di “scarto della motivazione economica”, si offriva come incunabolo di un processo che culminerà nella nascita del Beaubourg, nel quale puntualmente Maurizio Calvesi individuò il supermarket dell’avanguardia. Era il ’77, il postmoderno, non ancora teorizzato da Jean-François Lyotard, bussava già prepotentemente alle porte della storia annunciando la sua fine imminente, come poi sentenzierà Francis Fukuyama, all’inizio degli anni novanta.