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Lettera internazionale Anno 29 Numero 117 dicembre 2013



Mio nonno Ramdhane e l’intercultura

Karim Metref



Rivista trimestrale europea


SOMMARIO N. 117

Mala-educazione



L’Occidente che non impara: una cartella clinica, Régis Debray

L’eccezione e la regola, Slavoj Žižek

Dove c’è religione non c’è istruzione, Meredith Tax

Siamo tutti spinarelli...: educazione liquida, Zygmunt Bauman

Alta cultura o cultura di massa?, conversazione tra Mario Vargas Llosa e Gilles
Lipovetsky

La matita dell’immaginazione, Carlos Fuentes

Solo la poesia potrà salvarci, Sarah Zuhra Lukanić

A scuola dagli armeni, Baykar Sivazliyan

L’istruzione superiore sotto attacco, Immanuel Wallerstein

De-industrializzare la società, Lelio Demichelis

Educazione e formazione nel prisma del Terzo Settore, Giuseppe Cotturri

Mio nonno Ramdhane e l’intercultura, Karim Metref

Gli artisti di questo numero
Felice Levini, Hitnes, Michele Perfetti, a cura di Aldo Iori

I Libri
Recensioni a cura di: Giulio Azzolini, Silvana Calabrese

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n. 115 maggio 2013

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n. 114 febbraio 2013


Hitnes, Microbubo diluculo, 2012-13

Michele Perfetti, Al di qua della parola al di là dell'immagine,1999-2003

Tre generazioni, una scuola
Per migliaia di anni, il nostro piccolo paesino in Alta Cabilia aveva vissuto quasi tagliato fuori dal mondo fino a quella estate del 1871, quando l’esercito francese fece irruzione massacrando, distruggendo e bruciando tutto quel che si trovò davanti. Era arrivata la civiltà.
Qualche anno dopo, nel 1882, in mezzo al paese costruirono una casa con grandi finestre, ci portarono dentro tutti i maschietti di più di sei anni e li misero di fronte a un maestro francese che doveva farne dei bravi sudditi della repubblica. Sì, proprio così: “Sujet de la Répubblique Française” era scritto sui documenti di allora. “Liberté, Égalité, Fraternité”, sì, ma senza eccessi e, soprattutto, non proprio per tutti.
Quando nacque mio nonno Ramdhane, nel 1894, nella casa del vecchio Muhdussalem At-Aamer, la scuola del villaggio aveva già sfornato qualche generazione di ragazzi che sapevano leggere e scrivere un po’ di francese. Qualcuno aveva anche preso il diploma della scuola elementare, ma niente di più.
Mio nonno Ramdhane era il secondo di tre fratelli e una sorella. Orfani di padre, vivevano soli con la loro giovane madre, Yamina, che, cosciente della situazione in cui l’aveva lasciata il marito, si guardò intorno e identificò nella scuola dei francesi l’unico aiuto che le poteva arrivare dall’esterno per salvare i suoi figli dalla povertà. A modo suo, la povera ragazza vedova capì lo straordinario potere che emanava da quella piccola casa accanto al cimitero e incoraggiò con tutte le sue forze i propri figli a studiare. Ramdhane studiò tanto e, spinto dalla sollecitudine della madre, ottenne una borsa per andare alla scuola primaria superiore e, poi, alla scuola magistrale. E ben presto arrivò alla fine del percorso, quello pensato per i più bravi tra i poveri e gli indigeni che, non potendo pagarsi gli studi nei licei e nelle università, erano indirizzati verso professionalità come quelle dell’insegnante, del paramedico o dell’impiegato amministrativo.
Ad appena 18 anni era maestro di scuola elementare. Mio padre, lui, è nato nel 1935. Il colonialismo aveva da poco festeggiato un secolo di presenza in Algeria ed era una realtà ben ancorata, ma nell’aria già galleggiava uno strano odore. Odore di rivolta che covava sotto la coltre dell’oppressione come fuoco sotto la cenere. Studiò alle elementari e poi al collegio ma, poco prima della maturità, fu prelevato a scuola dall’esercito francese.
Era il 1956, la guerra di liberazione era scoppiata da due anni e lui faceva parte della rete civile di sostegno ai partigiani. Dovette aspettare, in carcere, l’indipendenza per finire i suoi studi e diventare professore di scuola media.
Io sono nato nel 1967, cinque anni dopo l’indipendenza. I grandi erano ancora nell’euforia della vittoria, ma noi che non abbiamo conosciuto il colonialismo vedevamo poco da festeggiare.
Da piccolo, ero circondato da insegnanti da tutte le parti: mio nonno, mio padre, ma anche mio zio paterno e mio zio materno. Mi ero ripromesso che non avrei mai e poi mai fatto l’insegnante.
A ventun’anni, però, ero di fronte alla mia prima classe: una terza media. I più grandi tra di loro avevano solo quattro anni meno di me.

Tra Jules Ferry e Pavlov
La scuola di mio nonno era quella repubblicana e laica di Jules Ferry: (1) serietà, rigore e disciplina erano il suo motto principale. E in effetti mio nonno, che era un uomo amabile e di buona compagnia fuori, appena entrava in classe si chiudeva e diventava “l’insegnante” che non ride, non scherza e che ha per compito di inculcare un numero ben preciso di conoscenze e di regole di vita.
Mio padre, anche se la storia che insegnava in classe era diversa, non si allontanò di un passo da questi princìpi. Pur leggendo con piacere Ivan Illich, Paolo Freire (2) o Alexander Neill (3) e le sue esperienze nella scuola di Summerhill, tornato in classe, continuava a fare come aveva sempre visto fare. E così anche io cominciai la mia carriera educativa sulla scia dei miei parenti. Ero teoricamente contrario al modello autoritario e violento, ma non sapevo fare in un altro modo.
È stato verso il terzo anno di lavoro che decisi di cercare altre vie, altri modi di insegnare e di educare.
Ero da tempo a disagio con quel vecchio modo di fare classe, ma non me ne rendevo veramente conto. Ero terrorizzato dai ragazzi e in cambio cercavo di farmi rispettare con il terrore.
Alla fine del terzo anno una mia allieva di seconda media alzò la mano e chiese: «Professore, perché non ride mai con noi?» Non mi ricordo cosa balbettai per rispondere, ma mi ricordo che quella domanda risuonò nella mia testa più forte di uno schiaffo.
Mi resi conto che per ben tre anni non avevo mai scherzato o riso con i miei studenti. Avevo agito sempre da perfetto pavloviano: ricompensa e punizione, e basta.
Da quel momento in poi decisi di studiare per imparare a mettere in pratica un altro modo di educare. È così che mi ritrovai a seguire corsi di educazione alla pace, di educazione alla non violenza, di educazione interculturale, cercando di applicare a poco a poco nel mio lavoro quotidiano ciò che avevo imparato.
Alla fine del decimo anno di lavoro avevo fatto grandi progressi. Ero contento di vedere i miei alunni e anche loro venivano nella mia classe con grande piacere. Gioco e riso erano parte integrante del nostro lavoro insieme, senza che il loro rendimento diminuisse. Anzi, ero riuscito a coinvolgere molti alunni deboli che prima mi accontentavo di confinare in silenzio nel fondo della classe.
Nel frattempo la mia formazione era andata avanti e decisi di spostarmi in Italia per fare il formatore in corsi di educazione alla pace e all’intercultura. Un profilo professionale molto elastico in cui potevo fare un’infinità di cose. Potevo andare a scuola per lavorare sia con gli insegnati che con gli studenti.
Potevano essere corsi di formazione sul concetto stesso di educazione interculturale oppure laboratori su tecniche di ludopedagogia. Un giorno venivo chiamato per riflettere con i ragazzi delle superiori su concetti come razzismo, identità o rapporto con la diversità, un altro andavo a lavorare con allievi e maestre di una scuola elementare sui giochi popolari del mondo o sulla costruzione di giocattoli con materiali di recupero.

Civilizzare il selvaggio
Molte volte mi chiedo che cosa avrebbe pensato mio nonno di questo lavoro. Purtroppo è morto molto tempo fa. Ma con mio padre, che è ancora in vita, qualche volta ho avuto modo di parlare di questo. Era come parlare due linguaggi completamente diversi. Lui, che quando era ancora in attività non concepiva altro rapporto con gli studenti che la lezione frontale, non capiva il concetto di attività laboratoriale o di percorso interattivo.
Per lui una lezione ha obiettivi nel breve termine molto chiari che sono spesso concetti univoci da imparare; la verifica consiste nel quantificare i concetti “giusti” assimilati e i concetti non assimilati. Nella sua lunga carriera ha visto (e fatto) entrare a scuola, spesso, medici; almeno una volta all’anno, fotografi (per l’allora inevitabile foto di fine anno); raramente, qualche operatore per proiettare film rigorosamente scelti; una sola volta, un prestigiatore, un clown e un mimo, e basta.
Per il resto, a parte le sessioni di ginnastica che si svolgono spesso fuori e le uscite didattiche con il prof di scienze naturali per vedere come si allevano le mucche o come crescono le patate, tutto si svolge in classe in un eterno e inesorabile tête à tête studente insegnante.
Come spiegargli che un educatore può venire anche da fuori per fare giochi di ruolo o per costruire carrette con legno di recupero come hanno fatto tutti i bambini del mondo prima del Meccano e della PlayStation, e che in questo ci sono obiettivi educativi a breve, medio e lungo termine, quanto, o forse di più, che in una lezione frontale di storia o di inglese?
La loro scuola aveva uno scopo preciso: prendere un piccolo “selvaggio” (montanaro, contadino, nomade, figlio di analfabeti) e civilizzarlo. Il messaggio di fondo era semplice e chiaro: ora non è più il nome o il sangue a determinare il rango, ma solo il merito. Se lavori, ti impegni e impari, puoi salire nella scala sociale. Se rimani ignorante, resti sotto. I ruoli erano molto chiari: “Io so, tu non sai”. E così anche i compiti: “Io dico che tu devi imparare, memorizzare, assimilare”. La cultura popolare, la lingua locale, tutto doveva rimanere fuori del portone della scuola. Insegnare per loro voleva dire educare, ma anche plasmare.
La sfida era quella di alfabetizzare masse enormi di analfabeti, e in qualche modo ci sono riusciti.
Che cosa avrebbe pensato il vecchio insegnante delle montagne cabile del concetto di educazione interculturale? Questo non lo so e non lo saprò mai. Ma che cosa ne pensa la scuola italiana, che da vent’anni si gargarizza con questo concetto, su questo credo di avere una idea abbastanza chiara. Sono ormai quindici anni che vado nelle scuole a parlarne, ma le cose non cambiano, anzi peggiorano.
Mi ricordo che quando parlavo in classe di razzismo, i ragazzi, alla fine degli anni Novanta, usavano spesso la famosa frase “io non sono razzista, ma...”. Oggi sempre più spesso mi imbatto nella frase: “Io sono razzista perché...”. Il razzismo e l’intolleranza crescono nella società. Non è certo colpa della scuola, ma questa non è riuscita ad arginare il fenomeno educando i giovani al dialogo e alla convivenza pacifica con le differenze.
È questa la nuova sfida che la scuola non ha ancora saputo rilevare in questo mondo globalizzato dove i flussi di informazioni, di merci, di soldi, di culture e di persone girano in quantità e a velocità sempre più insostenibili.

Scuola, intercultura e globalizzazione
La parola intercultura fu introdotta nei testi scolastici nel 1990, lo stesso anno della prima legge quadro sull’immigrazione, detta legge Martelli.
L’Italia aveva esaurito l’ingrediente principale del suo miracolo industriale, la manodopera a buon mercato. Gli italiani erano ormai troppo esigenti e costosi. La politica, sotto la spinta del padronato, decise di aprire le porte a una nuova manodopera meno esigente e portatrice di meno diritti.
E siccome dall’esperienza dei paesi vicini si sapeva già che quando si fanno venire “braccia” arrivano anche uomini, donne e bambini, il Paese voleva attrezzarsi con leggi e norme per gestire la vita di questa nuova popolazione. E così il termine “intercultura”, spesso erroneamente scambiato con “multicultura”, fece il suo ingresso nel gergo scolastico italiano.
Fin da subito questa filosofia dell’educazione alla convivenza e all’interazione positiva, pensata per educare ad affrontare un mondo sempre più globalizzato, sempre più complesso, fu confinata nel ghetto dell’accoglienza dei “ragazzi extracomunitari”, come dicono spesso i docenti.
Sono passati vent’anni e ancora ci sono scuole che dicono: “Abbiamo deciso di attivare questo progetto sull’intercultura perché cominciamo ad avere bambini o ragazzi stranieri”. Oppure: “Non ne facciamo perché qui i ragazzi stranieri sono pochi e anche molto ben integrati”.
La diversità si riduce quindi soltanto allo straniero (povero), soprattutto se nero o musulmano. E lo strumento per accoglierlo sarebbe una conoscenza sommaria di qualche uso e costume e di elementi basilari delle culture di provenienza. Festa o cena multietnica, musica, danze, elementi di lingua (il saluto, qualche formula di cortesia nelle varie lingue).
Il problema è dovuto al fatto che i concetti di intercultura e di multicultura sono stati introdotti così, tanto per fare, senza nessuna struttura, nessuna strategia. Tutto veniva affidato al fai da te. Gli insegnanti e i dirigenti più sensibili alla questione hanno cercato di costruire qualcosa, e ci sono anche tantissimi progetti locali molto ben fatti, esperienze importanti degne di essere condivise e usate come modello. Si tratta, però, di esperienze isolate che spesso vanno a infrangersi contro il muro dell’indifferenza della maggioranza dei docenti e dei dirigenti.
Per anni il business dell’intercultura è andato avanti a tamburo battente. Sono apparsi tanti esperti, molte associazioni e cooperative che ne hanno fatto il loro fondo di commercio.
Chi non sapeva che cosa vendere vendeva intercultura, mentre fuori i media soffiavano sull’odio e sulla paura del diverso, a scuola si facevano le danze africane e le cene a base di cuscus. Oggi, con l’esperienza, ma anche guardando la società e i giovani, penso che abbiamo perso tempo, risorse e energia per niente. Se la teoria è irreprensibile, la pratica è stata disastrosa. Questa è la situazione in Italia, oggi.
Ma altrove non va tanto meglio: le sommosse dei quartieri poveri di Parigi e di Londra negli ultimi anni hanno dimostrato che i tanto decantati modelli francese e inglese sono soltanto polvere negli occhi. In un’intervista che mi concesse un po’ di anni fa, Marc Augé mi disse che “il modello repubblicano francese dell’inclusione sociale tramite l’educazione non ha funzionato nelle banlieues semplicemente perché non è mai stato applicato. La scuola francese ha da tempo smesso di essere il motore dell’ascensore sociale”.

Quale scuola per l’era postindustriale?
Vedo da qui mio nonno Ramdhane strozzarsi dalle risate. La nostra scuola moderna si riempie la bocca di grandi princìpi, educazione partecipativa, interattività, intercultura, nonviolenza, ma non riesce più a far uscire i poveri dalla loro condizione. La scuola dell’obbligo è diventata una specie di peso che quasi tutti gli stati del mondo si trascinano come una palla al piede senza sapere cosa farsene.
I ragazzi, nelle periferie del mondo, vengono tenuti in custodia fino all’età di 16 anni e poi espulsi, ancora analfabeti, o, se sanno leggere, capiscono poco di quello che leggono.
Lui, alla sua epoca, usava il bastone per far rigare dritto. Si rideva poco in classe e nessuno osava fiatare in sua presenza. Ma alla fine del percorso i ragazzi sapevano leggere e scrivere, sapevano fare le operazioni elementari di aritmetica, avevano qualche nozione di storia e di geografia.
Non erano più selvaggi, ma braccia e menti pronte a inserirsi nella città e per produrre, consumare e crepare. Oggi quel modello politico, economico e culturale che ha generato quella loro scuola è fallito e sta portando il mondo allo stremo. Forse agli educatori di oggi tocca riportare i ragazzi a un po’ di “selvaggità”? Cercare di recuperare il bambino buttato via insieme all’acqua del bagno? Ma il problema è che, se da una parte conosciamo tutti i limiti della scuola vecchia, dall’altra nessuno ci ha spiegato come dovrebbe essere la scuola nuova.
All’insegnante di oggi, stressato, mal pagato, socialmente sottovalutato, disorientato, hanno tolto il righello di legno e l’autorità, ma, per ora, non hanno dato niente in cambio.
Questa nostra società postindustriale è decisamente ancora in attesa dei suoi Jules Ferry.

1 Jules-François-Camille Ferry (1832-1893) politico francese, membro del governo provvisorio, nel 1870, e sindaco di Parigi, nel 1871, è stato autore delle leggi della Terza Repubblica. Considerato il principale promotore della scuola pubblica gratuita, obbligatoria e laica, mostrò, durante la sua carriera politica, un forte impegno per l’espansione coloniale francese.
2 Paulo Freire (Brasile, 1921-1997), pedagogista brasiliano e teorico dell’educazione. Ideatore di una metodologia educativa intitolata Pedagogia dell’oppresso, è conosciuto per il suo attacco a quello che lui stesso chiamò il concetto “bancario” dell’educazione, in cui lo studente è visto come un conto vuoto che dev’essere riempito dal docente.
3 Alexander Sutherland Neill (Scozia, 1883-1973), pedagogista scozzese, fondatore della libera scuola di Sommerhill. Le sue teorie educative sono incentrate sulla libertà e sulla fede nella bontà originaria della natura umana.

Karim Metref, nato in Algeria, ha studiato arte e scienze dell’educazione e ha insegnato educazione artistica. In Italia dal 1998, lavora come formatore in educazione alla pace e all’intercultura. Giornalista freelance e appassionato di scrittura, collabora con varie testate online (www.glob011.com, www.media4us.it, collettivoalma.wordpress.com, www.eastjournal.net).