L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Juliet Anno 32 Numero 159 ottobre-novembre 2012



Daniel Buren

Luciano Marucci

Travail in situ



Art magazine


SOMMARIO N. 159

Speciale grandi mostre
38 | dOCUMENTA (13). L’arte al plurale / Luciano Marucci

Reportage
48 | Tolosa. Una città in ascesa / Stefania Meazza
54 | Dak'Art. Biennale arte africana / Emanuele Magri
58 | English Breakfast [09]. Union Press in Union Street / Matilde Martinetti
63 | Biennale di Berlino 2012. “Forget Fear" / Alessia Locatelli

Inchiesta-Dibattito
50 L'Arte della Sopravvivenza. Indagine sull'impegno etico-civile / Luciano Marucci

Intervista
52 | Daniel Buren. Travail in situ / Luciano Marucci
64 | Harry Thaler. Dal design alla poesia / Piero Montone
65 | Andrea Mancini. Accumuli differenziati / Caterina Ratzenbeck
66 | “Io Klimt”. Parla Francesco Gallo / Pina Inferrera
67 | Cesare Accetta. Dietro gli occhi / Roberto Vidali
72 | Attilia Peano. Presidente della Fondazione Peano di Cuneo / Ivana Mulatero
75 | Raffaella Morra. Napoli, Fondazione Morra / Francesca Agostinelli
76| Luigi Presicce. E l'immaginario visionario / Maria Vinella
78 | Fabio Fonda. Regola e caso / Serenella Dorigo
Saggio
56 | L'arte fuori di sé. E l'età post-tecnologica / Ernesto Jannini
Focus
60 | Donato Riccesi / Adriano Perini
69 | Tobia Ravà. Dentro la realtà / Giulia Curet
70 | Luigi Tolotti / Alessandra Vicari
77 | Mar Agüera. “Giochi d'attrezzo” / Fabio Fabris
80 | Rita Soccio. Il trucco c'è e si vede / Nikla Cingolani

Recensione
68 | Giancarlo Montuschi. Forme e colori / Francesco Giulio Farachi
73 | Per la musica di Luc Orient / Fabio Fabris

Fotoritratto
62 | Anna d’Ambrosio / self-timer
71 | Nicolò Bensa / Fabio Rinaldi
74 | Tiziano Bole / Martina Fiorenza
85 | Edna Gee / Luca Carrà

Rubrica
79 | Sicilia. Mon amour / Martina di Trapani
81 | P .* Fausto Vitali / Angelo Bianco
.P
82 | Ho del bene comune / Angelo Bianco
83 | Stupidè. Ragionamenti di varia natura / Giacomino Pixi
84 | Hubout4. Luft / SQSM

Spray
86 | Recensione mostre

ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Adrian Paci
Maria Vinella
n. 173 giugno-luglio 2015

Case chiuse, corpi aperti
Roberto Borghi
n. 172 aprile-maggio 2015

Yang Xinguang e la materia
Sara Bortoletto
n. 171 febbraio-marzo 2015

Eugenio Re Rebaudengo
Giulia Bortoluzzi
n. 170 dicembre-gennaio 2015

Biennale Architecture
Gabriele Pitacco Marco Gnesda
n. 169 ottobre-novembre 2014

Biennale Marrakech
Emanuele Magri
n. 168 giugno-luglio 2014


Daniel Buren, La cabane Eclatée aux 4 salles, 2005
(Collezione Gori - Fattoria di Celle, Pistoia; ph Aurelio Amendola, Pistoia)

Daniel Buren, «Excentrique(s), travail in situ», 2012, 380 000 m3 (particolare).
Monumenta 2012, Paris.
© Daniel Buren, ADAGP, Paris. Photo Didier Plowy.

Al Festival dell’Arte Contemporanea di Faenza del 2010 Daniel Buren è disponibile per un’intervista, ma poiché deve ripartire, mi prega di inviargli le domande via e-mail. “Non risponderò subito, ma neanche fra due anni…”. Gliele mando; passa tempo e nulla accade. Nell’ottobre 2011, alla Frieze Art Fair di Londra, al termine del suo incontro pubblico, l’artista accetta di rispondere seduta stante, ma Silvia Sgualdini (Associate Director della Lisson Gallery) gli ricorda un appuntamento urgente, assicurandomi che seguirà la cosa. Per facilitare l’operazione, riduco il numero delle domande e le rispedisco, ma…: “Paris 22.10.11 - Caro Luciano Marucci, Je suis désolé mais je n’arrive pas à ouvrir les questions que vous avez envoyées. Lorsque j’arrive enfin à les mettre sur mon écran, elles bloquent tout le fonctionnement de mon ordinateur! Je ne peux donc pas y répondre. […]”. Ritrasmetto e passano altri mesi. Contatto di nuovo Silvia e il 13 marzo scorso…: “[…] Daniel è estremamente occupato in questo periodo per il progetto di Monumenta, lo solleciterò ma non posso garantire una risposta in tempi brevi. […]”. Invece, inaspettatamente, l’8 aprile (giorno di Pasqua) arriva la sorpresa…: le sospirate risposte, molto interessanti e partecipate. “Cher Luciano Marucci, Avec un retard astronomiques dont je vous prie de bien vouloir m’excuser, voici mes réponses à vos questions. Je comprendrais fort bien que vous ne puissiez plus faire paraître cet article mais j’ai été (et suis encore) absolument débordé par une série d’expositions et de publications à mener à bien et surtout dans la préparation de mon exposition ici à Paris au Grand Palais pour la Monumenta 2012 qui va ouvrir le 9 mai prochain. […]”.
Intanto la rivista di giugno è impaginata e “Monumenta” s’inaugura. Il servizio esce in ritardo; in compenso posso documentare con un’immagine il nuovo “travail in situ” di Daniel.
Sono trascorsi due anni, ma “Tutto è bene quel che finisce bene”!


La semplicità percettiva del modulo geometrico nasconde sempre una valenza concettuale?
In quanto segno, immutabile nelle sue misure, l’alternanza bianco-colore-bianco-colore cerca di non nascondere assolutamente nulla e di non mostrare che questo segno è, il più chiaramente e semplicemente possibile, una serie di strisce alternate bianche e colorate da 8,7 cm di larghezza ciascuna. In compenso, nasconde (o mostra) sempre ciò su cui è posato, appeso, sospeso, incollato ecc...

L’uso del colore resta indispensabile?
Per me, assolutamente. Il colore è indicibile e dunque pensiero puro, insostituibile. Sta alle arti visive come le parole stanno alla filosofia.

La progettazione delle opere site-specific è costantemente guidata dalla necessità di interagire con l’ambiente esterno (naturale e urbano) e con l’osservatore?
Sì. Ciò che io mostro sempre per farne la ragione per la quale il lavoro si intitola ogni volta “travail in situ”, è il fatto che l’ultimo non è mai autonomo, ma dipende costantemente da un contesto, da una storia, dalle persone che sono, per definizione, ad esso completamente estranee. Prendendo corpo per esistere, perde la sua autonomia e trasforma tutto come esso stesso è trasformato, per gli elementi estranei improvvisamente presi in prestito.

Gli specchi, oltre agli intriganti giochi prospettici, tendono ad alleggerire l’impatto ambientale della struttura artificiale?
Non so se gli specchi alleggeriscano l’insieme o meno e soprattutto se l’alleggerimento funzioni in tutti i casi. È evidente che, per certi lavori, esso è voluto, come, per esempio, ne La cabane Eclatée aux 4 salles che si trova a Celle (Pistoia), nella collezione privata di Giuliano Gori, dove tutta la struttura esterna, molto grande (130 metri quadrati di superficie di cemento), è coperta di specchi e tende così, mescolandosi con la natura circostante, a fondersi completamente con il suo ambiente fisico da cui finalmente non spiccano che i colori utilizzati all’interno della struttura stessa, come sospesi nello spazio. Quindi in questo caso e in qualche altro, sì, l’utilizzazione dello specchio permette di ridurre l’impatto visivo (ingombrante) delle strutture a beneficio di un altro dato ai miei occhi più importante, nel caso specifico il colore letteralmente liberato dai suoi supporti, come nell’esempio di cui sopra.

Le sue realizzazioni degli ultimi tempi si vanno ampliando nel paesaggio trasformato dall’uomo?
Se io lavoro in quella che si potrebbe chiamare campagna e non in una struttura urbana (città, paese, villaggio ...), è perché questa campagna, che alcuni chiamano natura, non è, in effetti, che la continuazione dell’architettura delle città attraverso l’architettura del terreno, trasformata dagli uomini in centinaia di anni. Si può dire, senza troppo rischio, che qui, in Europa, esistono pochissimi luoghi detti naturali (come erano prima dell’arrivo degli uomini). Quasi tutti sono il risultato della mano dell’uomo. Io mi permetto, dunque, di utilizzarli per questo motivo principale, quando l’occasione si presenta. Sono luoghi architetturati e trasformati radicalmente dagli uomini, nello stesso modo che una città ne è l’invenzione. Mi rifiuto però di lavorare in luoghi che sarebbero “vergini”, come, per esempio, i deserti, l’alta montagna, la foresta pluviale…, qualsiasi luogo in cui la traccia dell’uomo è apparentemente assente.

La Natura ha bisogno di essere esaltata con interventi artistici moderni?
A priori sicuramente no ma, se si può o vuole fare, perché no?

La committenza pubblica è più condizionante di quella privata?
Le condizioni inerenti alle cosiddette committenze pubbliche e che chiamerei “i vincoli” sono importanti e generalmente abbastanza rigorosi. Tuttavia questi vincoli sono dappertutto e dico anche che da essi nascono le forme dell’opera. Se dovessi scegliere, non sono sicuro di preferire i vincoli silenziosi e spesso esigenti che emergono da una committenza privata ai vincoli formali e palesi di una committenza pubblica! Occorre giocare con entrambi e, a loro modo, entrambi sono contemporaneamente draconiani e imponenti. Un’opera che sopravvive riesce a trovare una certa libertà in mezzo a questi “impedimenti”. Un lavoro mediocre è molto spesso un’opera che non è riuscita a farsi strada in mezzo a tutti quei vincoli e che, di compromesso in compromesso, si installa nel compromesso.

La politica fa sentire la sua autorità?
Non di più quando il committente risulta essere lo Stato o la città, rispetto a quando si tratta di un privato. I vincoli di una commessa pubblica o privata sono raramente di ordine politico, almeno nelle società di oggi e al momento attuale. Questa non imposizione del politico, nella maggior parte dei casi - alcuni esempi supportano questa regola! - non è una vittoria definitiva e occorre restare molto vigili su questo. Come tutte le libertà acquisite, non sono per sempre, specialmente se non vengono difese.

Quando opera con gli architetti, riesce a far prevalere la sua idea?
Spero bene, se no non c’è alcun interesse a lavorare con loro. O forse sono io che necessito di un architetto per motivi tecnici e non c’è ragione che esista un qualsiasi conflitto, oppure ci sono degli architetti che mi invitano al fine di proporre qualcosa con i loro lavori e, siccome l’invito è fatto in relazione a un lavoro che essi rispettano, a quel punto non vi è motivo perché le idee esposte non siano condivise. Se così dovesse essere, allora è sempre possibile staccarsi, diventa anche necessario andarsene e il conflitto si ferma immediatamente.

A volte realizza anche opere bidimensionali nell’atelier?
Non ho più l’atelier dalla fine del 1967! È stato un rifiuto volontario sul quale ho già dato a lungo spiegazioni.

È stimolato maggiormente dall’ambiente fisico o culturale dei luoghi in cui interviene?
Tutto può stimolarmi; io sono molto curioso e mi interesso alle cose più diverse. Tuttavia l’ambiente fisico è importante, perché dice sempre molte cose sul luogo in questione, sulla sua storia e anche sulle cose che ci nasconde. Meno evidente, visivamente parlando ma altrettanto importanti, sono le persone che occupano e gestiscono il luogo. Le loro indicazioni, i loro problemi, i loro interessi, in una forma o nell’altra, non sono probabilmente mai del tutto assenti dal risultato finale.

In fondo con questi lavori lei è stato un precursore della Public Art che oggi si va diffondendo…
Io so che mi sono interessato al fatto di lavorare nella strada molto tempo prima che la moda esistesse, molto prima che si facessero i graffiti e anche molto prima che i poteri pubblici tornassero ad interessarsi a questi argomenti dopo l’interruzione di un buon secolo! Se è una moda che va diffondendosi, come lei lascia intendere, penso che sia fragile perché dipende da forze politiche sostanzialmente diverse e, purtroppo, i politici non sono noti per le loro competenze nel campo o per il coraggio nelle elezioni. Voglio dire: se un politico sente che un tale o tal altro lavoro particolare o addirittura un tale e tal altro progetto di opera specifica, anche molto interessante, può fargli perdere le elezioni, c’è poca possibilità che egli accetti di realizzarlo durante il suo mandato!

Crede più nei valori di comunità che in quelli di mercato?
Se c’è una cosa che ho sempre messo in discussione, e oggi più che mai, è il valore che potrebbe avere il mercato dell’arte! Rispetto all’arte che si fa (bisognerebbe chiarire se si parla di arti antiche e classiche o addirittura di storia dell’arte), il valore del mercato è una fantasia totale che tocca sia le opere che sono senza valore agli occhi dello stesso mercato come quelle che certi si contendono a colpi di milioni. Per me, se una cosa nell’arte non ha un valore degno di interesse, è quella creata del tutto artificialmente dal mercato. Dobbiamo, sicuramente e per quanto possibile, vivere di quello che facciamo, ma cercare di evitare il famoso mercato che, in definitiva, è più dannoso di qualsiasi altra cosa ed è e sarà solo passeggero.

Il coinvolgimento della gente con l’opera può accrescere la cultura estetica della collettività?
Con il tempo e lo sforzo di ciascuno è certo che le opere attuali nello spazio pubblico (a condizione che si possa evitare che ve ne siano di troppo mediocri) possano in qualche modo educare un pubblico sufficientemente ampio. È inoltre necessario che queste opere aprano dei dibattiti e che un vasto pubblico sia interessato. Detto questo, l’opera pubblica di alta qualità, fatta oggi, non potrà mai sostituire l’educazione artistica là dove deve essere fatta, vale a dire a scuola, con i bambini fin dall’infanzia, esattamente nello stesso tempo in cui imparano a leggere e scrivere. Almeno in Francia i conti non tornano!

La sua produzione di alta qualità può assumere anche una funzione pedagogica!?
Se il mio lavoro può dare l’idea a coloro che lo guardano di analizzare la situazione nella quale l’opera sotto i loro occhi è nata ed esiste, sì, perché no? Ma non prendiamoci in giro, l’opera si installa e si mostra, senza la funzione preesistente voluta o nascosta, così senza funzione educativa a priori. Non siamo in Messico negli anni Trenta, in cui i muralisti si diedero il compito di educare i cittadini sulla loro storia e su altre cose da imparare. Sebbene quel periodo sia stato straordinario, non dobbiamo dimenticare che aveva, tra le altre virtù, di consentire, alle persone illetterate oltre il 90%, di comprendere attraverso le immagini ciò che non riuscivano a leggere. L’arte aveva, allora, in quel paese, un importante ruolo educativo primario e anche rivoluzionario. Vediamo pure, nonostante la nobiltà e la grandezza di quell’attività, nello stesso tempo tutto ciò di cui non poteva assolutamente rendere conto.

In generale gli artisti e gli intellettuali dovrebbero partecipare responsabilmente alla costruzione di un mondo migliore, oppure limitarsi a fare lavori contemplativi e autoreferenziali?
Qualsiasi regola di ordine morale, religioso, politico, presentata come obbligatoria e richiesta ovvero imposta a un gruppo (principalmente artisti e intellettuali) da una qualsiasi autorità politica non solo è destinata al fallimento ma, ancor più grave, non può essere promulgata per decreto e resa obbligatoria che nei paesi di tipo dittatoriale e totalitario. Questo è auspicabile? Non lo penso. Ma rimangono centinaia di possibili percorsi, a cominciare da quelli dello scrivere, del dipingere e del comporre con responsabilità per la costruzione di un mondo migliore o dando l’allarme su ciò che il mondo in cui siamo apre di nefasto per le generazioni future e che occorre combattere. Fortunatamente, mi sembra che l’alternativa a un lavoro politicamente impegnato e, in particolare, che illustra una determinata ideologia, non stia solo nell’autoreferenzialità o nella contemplazione.

traduzione Lalla Di Matteo