L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Arte contemporanea Anno 6 Numero 30 gennaio-febbraio 2012



Enzo Cacciola

Claudio Cerritelli

Continuità e interferenze (1974-2009)



bimestrale di informazione
e critica d'arte


SOMMARIOn. 30

Enzo Cacciola
Continuità e interferenze (1974-2009)


Video Medium Intermedium
Mostra di video d’artista degli anni settanta dalle collezioni ASAC

Paolo Grassino
Poetica di una società contemporanea

Elio Marchegiani - Gli dei ballano al Piper

InContemporanea
Nove artisti dalla Versilia 1980-2010

Vincenzo Balena e Alberto Biasi dalla 54. Biennale di Venezia

Francesco Guerrieri
L’infinito tra sperimentazione e amore per l’arte

Attualità analitiche
Presenze italo-francesi dagli anni settanta

Tancredi: Natura e spazio
Opere dal 1955 al 1957

Il Gruppo degli Otto
Rivelazioni di rabbia, solitudine, nel primo dopoguerra

Good Luck Exhibition

La Donazione Bentivoglio al Mart di Rovereto

Alessandro Gamba

Poveri ricchi - Il politico e l’estetico dell’Arte Povera

Pope

Megacities di Christian Höhn
City in the box (@) urban landscape (dot) com

Scultura immateriale e filosofia del vuoto
Conversazione con Franco Paletta

Sonia Talarico
A Venezia trafitti da un Raggio di sole

La cosmogonia di Vittorio Gentile

La ruggine e la luce
oltre 150 opere di Accorsi, Boscolo, Carrera, Cuman, Muka, Panozzo, Patarini, Profeta, Quida e Zelenkevich

Franco De Courten
Colori in valigia
Intervista al Maestro

Conversazione con Roberto Bilotti e Mario Occhiuto sulla mostra di fotografia d’epoca
“Cosenza Post-Unitaria”

Roberto Demarchi
Vangeli astratti

Drago Cerchiari
Alberi, impronte e respiri

Tancredi e Peggy Guggenheim

I rimedi giudiziali nella compravendita di opera non autentica

Libri d’arte

Eventi Flash

Risultati d’asta 2010/2011

Mostre in Italia
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Nelio Sonego
Diego A. Collovini
n. 38 dicembre 2015 - gennaio 2016

Riccardo Guarneri
Diego Collovini
n. 37 gennaio-febbraio 2015

Arturo Carmassi
Diego Collovini
n. 36 marzo-aprile 2014

Claudio Verna
Diego Collovini
n. 35 novembre-dicembre 2013

Gianfranco Zappettini
Diego Collovini
n. 34 giugno-luglio 2013

Maurizio Cesarini
Katiuscia Biondi Giacomelli
n. 33 febbraio-marzo 2013


Enzo Cacciola
N° 25, 2011
multigum su tela e ferro,cm 45 x 30
Courtesy Arte Studio, Milano

Enzo Cacciola
9 - 2 - 1976,
cemento su tela cm 54,5 x 34,57
proprietà dell’autore

Enzo Cacciola nello studio di Rocca Grimalda (AL)
foto di Andrea Gaielli

Leggendo l’ultimo testo teorico sul “fare pittura” di Enzo Cacciola (novembre 2009) si rafforza la convinzione che la funzione del “processo operativo” ha mantenuto inalterata -nel corso dei decenni- la centralità pratico-teorica della costruzione spaziale. Essa è intesa come poetica vivente, solidamente ancorata a una serie di procedure fisiche che si chiariscono e si espandono reciprocamente, non smarrendo mai la via lungo la quale l’artista verifica ciò che va oltre il metodo d’indagine.
L’idea portante è dunque l’azione persistente del fare artigianale che non solo qualifica la pratica meccanica dei materiali come sensibilità legata alla sfera dei sensi ma, soprattutto, ne rende esplicito il ruolo rispetto alla fredda analisi del colore: qualcosa che sfugge al controllo della pittura stessa e si apre al piano di altre interferenze.

Se il richiamo all’eccedenza del visibile è lo spazio di riflessione praticato nelle tensioni pittoriche dell’ultimo decennio non va trascurato il fatto che Cacciola, fin dagli azzeramenti processuali dei primi anni Settanta, lascia aperta la soglia dell’opera ad intervalli di senso che si pongono al di là della pura investigazione concettuale del dipingere.
Si tratta di un’estensione del valore primario del supporto concepito in relazione con la parete, luogo in cui lo spazio è pensato e agito come articolazione di varie superfici che inglobano gli intervalli vuoti, le distanze tra i perimetri come misure interne all’operazione.
Se si osservano i progetti delle opere dipinte tra il 1973 e il 1974 si può notare che l’intervallo tra una superficie e l’altra entra nel vivo dell’immagine come parte integrativa, assumendo in tal modo un peso percettivo costitutivo alla struttura dell’opera.

Questa assimilazione tra pittura e spazio esterno ha una tradizione alle spalle, è questione praticata da diversi esponenti del versante analitico, una scelta elaborata sulla scia di quanto era già stato esplorato in precedenza -seppur con diversa attitudine- da artisti attenti a mostrare la fisicità espansiva del colore attraverso la relazione tra forma e movimento.
Specifici esempi di aggregazione di differenti elementi si colgono nelle dinamiche strutturazioni dello spazio che occupano un ruolo significativo nel corso del ‘900, dal Suprematismo al Neoplasticismo, fino allo Spazialismo. Una continuità ben precisa si sviluppa dagli “Otto rettangoli rossi” di Kasimir Malevich (1915) all’integrazione tra pittura e architettura teorizzata da Piet Mondrian (1923), fino ai “Quanta” di Lucio Fontana (1959), modelli spaziali dove il magnetismo delle forme primarie capta forze invisibili che concorrono al ritmo totale dell’immagine.

Al di là delle molteplici dialettiche tra “il pieno e il vuoto” a cui l’identità della pittura è costantemente sottoposta ciò che conta sottolineare -per comprendere la posizione di Cacciola- è il nuovo clima operativo determinatosi in Italia e in Europa nei primi anni Settanta, un modo di sentire il colore in stretta connessione con la parete.
Questa estensione porta a dilatare il campo d’azione della pittura con supporti sagomati (da Arico’ a Gaul e Pinelli), con tracce su tela senza telaio (da Isnard a Viallat, da Griffa a Dolla), con dittici pensati come unica superficie (da Buren a Charlton, da Pozzi a Morales), con sequenze regolari di superfici monocrome (da Cecchini a Zappettini).

Questi differenti orientamenti sono sintomi di una complessità del “fare e pensare pittura” che, in quel particolare contesto europeo, emerge con determinazione privilegiando l’atteggiamento processuale più che l’esito dell’opera. A questa complessità di ipotesi fa riferimento Cacciola quando si sottrae all’ingombro simbolico del referente e - come indica Giorgio Cortenova (1974) - “semplicemente rivela un ‘campo’, un tempo di sedimentazione, il proprio ritmo interno, la struttura del pigmento”.

Il che non esclude il valore luminoso della materia, il suo differente modificarsi in relazione alla fisicità empirica della stesura dove il peso del colore si rivela nell’esercizio anonimo dell’atto che lo struttura.
A proposito della s-personalizzazione del gesto pittorico Cacciola è in sintonia con Gianfranco Zappettini che, negli stessi anni -anche se con procedure diverse- teorizza l’azzeramento della soggettività, nel senso che la manualità è funzionale alla pura strutturazione della superficie.
La ricerca segue le tensioni interne alla quantità-qualità della materia adottata, in modo che le risultanze scaturite dalle stratificazioni e dalle interazioni siano estranee a qualunque impulso esterno, proprietà insite alla fisicità del colore, mutazioni del suo costituirsi sulla superficie.
Anche per Cacciola la materia si muove per propria energia interna, il procedimento del fare non porta all’opera da contemplare ma alla sua costante relazione con le dinamiche che lo determinano, dal progetto all’azione, dal metodo alla sua verifica.

Decisiva è la scelta di assumere i materiali industriali come piano di elaborazione artigianale che si antepone al rischio estetizzante per qualificarsi nella sua concreta e cruda evidenza. Nel ciclo dei “cementi” l’aspetto sensibile della materia non è mai escluso, le stratificazioni costruiscono la superficie mostrando aloni di luce, minime cangianze del grigio: lungo i bordi si vedono le differenti colature eccedenti che si depositano dopo la stesura. La gelatina trasparente fissa lo stato fisico finale, il comportamento del materiale vale in se stesso, per densità, pregnanza e respiro della luce, intimamente connessa al suo modo di stare sulla tela grezza di cotone. La luminosità dipende dai procedimenti manuali che l’artista controlla attraverso fasi di strutturazione necessarie a ottenere esiti non casuali: impasto, stesura, essiccazione, assestamento intermedio, abrasione e trattamento finale stabilizzante.

Opere di forte radicalità sono anche quelle realizzate con magma di amianto e materiale vinilico, in questo caso la forma e l’informe superano la loro apparente antinomia evidenziando la possibilità di congiungere energie contrapposte, la saturazione e il movimento, la compattezza e la vibrazione, il limite e lo sconfinamento. La spazialità concettualmente definita non è per Cacciola un dogma ma uno spazio in profonda tensione con le qualità artigianali e industriali dei materiali che producono molteplici sembianze, esiti differenti, aspetti non totalmente assorbiti dalla logica analitica ma capaci di interpretarne il rigore sempre alla luce della sensibilità manuale.
Si tratta di una coerenza nella differenza in quanto – come ha di recente suggerito Alberto Rigoni- l’artista “non ha mai accettato il vincolo della ripetizione, rifiutando di restare ancorato ad una ‘serie’ o a un ‘periodo’ più di quanto la ‘serie’ o il ‘periodo’ effettivamente concedessero in termini di possibilità ulteriori di indagine”.

La documentazione fotografica che accompagna fin dagli anni Settanta cataloghi e riviste è un racconto visivo per conoscere il farsi della pittura attraverso sequenze che mostrano l’articolarsi simultaneo di fattori legati alle strumentazioni operative e ai tempi esecutivi.
Non più l’artista davanti all’opera, folgorato dall’intuizione ispirativa, ma quasi un tecnico della visione che affronta il processo creativo con piena consapevolezza che la genesi è legata ad una successione di atti mirati e calibrati. La dimensione formale è la somma di successivi passaggi esecutivi: cemento versato e mescolato alla colla, steso sulla superficie, manipolato e tirato con una stecca fino a farlo aderire completamente al supporto, infine levigato nello spessore.

Il senso della ricerca si qualifica dunque attraverso il metodo che non rimane mai sul piano dell’astrazione teorica ma si dà come sostanza, esperienza del suo farsi, amalgama di progetto e azione esecutiva.
Per Cacciola la realtà della pittura non è separabile dal metodo fenomenologico con cui essa si propone, essa è sempre in grado di muoversi nella continua compresenza di ragione e sensibilità.

Se portiamo attenzione ai processi creativi dell’ultimo decennio osserviamo che quest’atteggiamento non è stato stravolto, ritroviamo esaltati i tempi artigianali necessari a preparare telai e tele come piani predisposti ad accogliere materie, pigmenti, barre filettate e avvitate da dietro, infine imbullonature laterali. Dopo la costruzione preliminare dei supporti e la stesura del pigmento, due fasi scandiscono in modo emblematico il senso dell’attuale procedere di Cacciola: da un lato l’artista versa il colore nell’intervallo misurato con precisione tra due bordi, dall’altro stringe i bulloni calibrando con meccanica perizia gli effetti della pressione che dai lati esterni preme verso il centro.

Come negli anni Settanta, anche le attuali procedure sono esibite nella loro funzione costruttiva come prospettiva specificamente estetica a cui è ricondotta la produzione artigianale di carattere anonimo, puramente fattuale. Questo avviene senza più l’iniziale umiltà del fare al di sopra di ogni estetismo ma con la consapevolezza che solo attraverso l’energia del dipingere si può congiungere lo spazio soggettivo allo scorrere collettivo del tempo. La differenza sostanziale rispetto – per esempio- alla radicalità analitica dei cementi è un maggior grado di sensorialità fissata nella scelta dei pigmenti e del loro modo di contrarsi e dilatarsi dentro e oltre il supporto. A questo carattere va ad aggiungersi una più forte visione tattile che comprende sia la morfologia del colore sia la tensione della gomma liquida attraverso cui prende corpo l’opera.

Al di là di queste differenze permangono inalterati i paradigmi di fondo: rapporto critico nei confronti della categoria arte, assenza di funzioni simboliche e di illusionismi percettivi, sensibilità del colore aperta agli eventi imprevedibili del processo creativo, identità della materia come referente di se stessa.

In queste recenti opere, dunque, s’è detto che Cacciola usa pigmenti industriali a base di gomma con i quali ottiene toni cromatici opachi, campiture che filtrano luce mostrando la qualità sospesa ma anche espansiva del colore. Il pigmento versato sulla linea di congiunzione dei supporti è una resina vinilica che entra nell’interstizio, ne viene trattenuta e, attraverso la pressione esercitata ai lati, fuoriesce con differenti quantità di materia, con morfologie dagli esisti imprevedibili.
Nello strutturarsi dell’opera questo momento è di particolare sorpresa in quanto, benché il controllo del flusso materico lasci intendere ciò che resterà visibile dopo l’essiccazione, non può mai presupporre il suo sviluppo in senso analitico. Si potrebbe dire che è la materia che comanda e l’artista non può che prendere atto del suo evento, sensorialmente coinvolto da ciò che avviene durante il dipingere.

La verifica del processo di lavoro – seppur non totale- è necessaria per raggiungere quella particolare tensione che produce differenze, scarti, interferenze tra il piano razionale e quello immaginativo. Se per l’artista è essenziale muoversi all’interno di queste polarità, per il lettore si tratta di riconoscere il confine tra il progetto dell’opera e l’avventura dell’interpretazione. Il che vuol dire saper leggere la pittura, esplorare le sue componenti, intuire una realtà che va dalla conoscenza del dipingere al superamento dei suoi paradigmi, con un desiderio di “sentire il corpo del colore” che presuppone un guardare verso altri sensi da percorrere.
Di questi meccanismi di lettura si è fatta carico anche la critica che ha seguito il lavoro di Cacciola (da Bonomi a Meneguzzo, da Pola a Mugnaini a Rigoni) evidenziando il materialismo pittorico delle superfici opache e i margini di personalità rispetto alla koinè analitica.

Il problema è quello di entrare nella dimensione specifica delle opere: quando si tratta di un dipinto monocromo tutto viene assorbito nella luce di un solo colore e, proprio per questa collimazione in atto, anche la linea di interferenza acquista un’energia stringente congiungendo i due o tre supporti in un sola immagine. Nel caso in cui la superficie è bi-cromatica bisogna valutare su che tipo di contrasto si basa, se la differenza è lieve la luce sembra accordarsi alla tonalità del tutto. Se invece si accentua il timbro cromatico viene a determinarsi un effetto di forte vibrazione, anche in rapporto al denso deformarsi della resina che deborda dallo schema costruttivo assumendo una rilevanza tattile più esplicita e imprevedibile.
In ognuna di queste ipotesi di lavoro l’artista pone al centro della sua ossessione il peso del vuoto, basta un minimo spiraglio, una breve distanza tra una superficie e l’altra, una lieve vertigine spaziale che tuttavia comporta una serie di eventi che trasformano quel filo di luce immateriale in uno spessore iper-materico. Per contrasto o per assimilazione, questo sottile flusso di materia scorre intermittente sulla superficie mantenendo una fluidità anche quando si va essiccando. Il vuoto diventa pieno ma allude sempre alla distanza tra una superficie e l’altra, infatti per quanto la linea che stringe lo spazio sia solida e densa essa rimanda alla dicotomia di fondo che consiste nell’afferrare l’identità del colore attraverso la relazione degli opposti: interno-esterno, pieno-vuoto, tangibile-immateriale, peso-leggerezza, luce-ombra.

La visione fisico-analitica di Cacciola mantiene -in tal senso- ampi margini di apertura attraverso l’eccedere dai suoi codici formali e persino una vitalità che deriva dalle persistenze cromatiche. La sua coesione concettuale è sempre esposta alle interferenze interne della materia, ai turbamenti del pensiero che nascono dalle divaricazioni del visibile, dalle fenditure incolmabili dell’invisibile.

In questo respiro che travalica ogni calcolo si comprende che la pittura non ha solo bisogno di analizzare se stessa ma soprattutto di sconfinare dai giochi linguistici nei quali spesso è costretta a identificarsi dal sistema della comunicazione. E’ una pittura, quella di Cacciola, che si pone come esperienza capace di sostenere con qualità intellettuale un progetto fattuale che non conosce pause, essa comporta una verifica costante degli esiti tecnici e immaginativi. E’ un processo mai dato per scontato, tutto può ancora accadere nell’esplicazione delle forze in campo, gli intervalli si congiungono alle superfici senza timore di estrinsecarsi nella ripetizione, la visione differisce tra continuità e interferenze, sempre in rapporto alle tensioni irriducibili del colore.