L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Juliet Anno 31 Numero 155 dicembre 2011-gennaio 2012



Pietas

Kristian Sturi

“L’ora oro“ tra misticismo e marmo di Carrara



Art magazine


SOMMARIO N. 155

INCHIESTA - DIBATTITO

38 | L’arte della sopravvivenza. Inchiesta-dibattito

sull’impegno etico-civile / Luciano Marcucci


RECENSIONE

42 | Pietas. “L’ora oro“ tra misticismo e marmo di Carrara / Kristian Sturi

44 | Istanbul Linz e Torino. Tra arte e scienza / Lorenzo Taiuti

54 | Filo stile. La mano stimola la mente / Enzo Minarelli

64 | Thomas Hirschhorn. Du cristal et autres histoires / Giulia Bortoluzzi

66 | Triestèfotografia 2011. Festival a geometria variabile / Alessio Curto

68 | Claudio Pieroni. La complessità dell’evidenza / Maurizio Coccia

70 | Debora Fede. Dal viaggio al ricordo / Chiara Massini

77 | Trieste Contemporanea. Free Port of Art, Videospritz, Gaetano

Mainenti, Hr-Stamenov / Massimo Premuda

80 | 7 X 8R. Arte & decrescita / Adriano Perini

84 | Adamà. La cantica per la terra / Maria Luisa Trevisan


INTERVISTA

46 | Marta Massaioli. Gino De Dominicis tra vita e storia / Anita T. Giuga

50 | Lóránd Hegyl. Ripensare la funzione dell’arte / Luciano Marucci

58 | Forme della committenza. Testimonianze dal festival di Faenza

/ Luciano Marucci

60 | Fabrizio Giraldi. Sono un fotografo, mi sento un samurai / Raffaele Oriani

62 | Tra arte e vita. Intervista con Christiane Löhr / Stefania Meazza

72 | Willy Darko. Colori e sinfonie di Valeria Ciotti / S. P Gorney

76 | Chiara Bertola. Terre vulnerabili / Cristina Romano

78 | Raffaella Rumiati tra scienza e neuroscienza / Serenella Dorigo

79 | Mycol Baraldi. New dandy tra pochete e sartoria su misura

/ Kristian Sturi e Stefano Bazzarini


FOCUS

48 | Public Art. Concorso Cooperarte / Valerio Dehò

52 | Architreggio. Cum senco diritto mi guizzano idee archivolte

/ Marco Aldrovandi


REPORTAGE

56 | Oslo. “Momentum-6th Nordic Biennal” Imagine being here now

/ Emanuele Magri

73 | Marcello Diotallevi

75 | Contemporary Art in London. I grandi eventi culturali dell’autunno

/ Luciano Marucci

Fotoritratto

71 | Walter Cusmich

74 | Annamaria Milievich

85 | Luca Pozzi


RUBRICA
81 | P .*: Luca Rossi / Angelo Bianco

82 | H / Angelo Bianco

83 | Stupidè / Giacomino Pixi


SPRAY
86 | Recensioni e mostre

ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Adrian Paci
Maria Vinella
n. 173 giugno-luglio 2015

Case chiuse, corpi aperti
Roberto Borghi
n. 172 aprile-maggio 2015

Yang Xinguang e la materia
Sara Bortoletto
n. 171 febbraio-marzo 2015

Eugenio Re Rebaudengo
Giulia Bortoluzzi
n. 170 dicembre-gennaio 2015

Biennale Architecture
Gabriele Pitacco Marco Gnesda
n. 169 ottobre-novembre 2014

Biennale Marrakech
Emanuele Magri
n. 168 giugno-luglio 2014


veduta della mostra PIETAS
presso la Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, Venezia, 2011
ph. Pat Verbruggen
courtesy Angelos

Pietà V (Sogno compassionevole)

Pietà III (Fontana della vita imitante la forma e lo stile della miniatura)

Due mostre in contemporanea. Una alla Galleria del Kunsthistorisches Museum di Vienna e l’altra alla Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia a Venezia.

La prima è composta da una serie di disegni eseguiti nel corso degli anni Ottanta e Novanta, alcuni di notevoli dimensioni, ma tutti eseguiti con uno dei medium più utilizzato dall’artista: la penna a sfera blu.

In questo caso ci troviamo di fronte anche all’altra ossessione dell’artista belga: gli insetti.
Giocano un duplice ruolo nella vita e nella carriera di Fabre.
Sfatato il falso mito (?) della discendenza dall’entomologo che porta il suo stesso cognome e di cui Fabre ne sarebbe il nipote, l’attenzione cade sulla professione stessa e quindi lo studio degli insetti; la famosa ora blu, lo spettacolo della natura svelata dove gli insetti notturni lasciano il posto agli insetti diurni, impalpabile ed effimera, viene qui rappresentata nella pienezza del segno visibile lasciato dallo scorrere nervoso della penna a sfera: un tappeto blu nel quale trovano spazio piccoli esoscheletri cangianti e dal quale spettrali visioni di morte affiorano labili dallo sfondo. L’orrore del teschio compare dall’horror vacui delle opere in mostra.


“Pietas” è il titolo scelto per la mostra lagunare in concomitanza con l’apertura della 54° Biennale d’arte di Venezia. Ad accogliere lo spettatore non è uno spazio neutro, un white cube in cui inscenare installazioni monumentali, come per esempio la mostra di Jan Fabre al M HKA di Anversa o alla Kunsthaus di Bregenz.
L’edificio è una Chiesa dal sapore decadente e lagunare, senza decori o altari, pale o suppellettili clericali. È un luogo scarno e sviscerato da ogni simbologia che rimandi a un culto preciso ma rimane pur sempre pregna di misticismo e devozione. Ciò che resta è l’ossatura e non a caso la scelta del luogo e dei materiali coincidono con il linguaggio adottato da Fabre negli ultimi anni. Non si tratta più di figure incappucciate formate da scaglie di ossa umane come nella serie di mostre dal titolo “Umbraculum”. L’ossatura rimane ma si trasforma nel più nobile dei materiali scultorei: il marmo bianco di Carrara.
E questa volta, passando per gradi e per mostre (prima fra tutte “From the Cellar to the Attic. From the Feet to the Brain” per la Kunsthaus di Bregenz o la riedizione della medesima mostra alla 53° Biennale di Venezia nel 2009), il corpo umano di Jan Fabre si svela completamente da ogni involucro e da ogni fluido corporale (celebri i suoi disegni utilizzando sangue, lacrime o sperma) per mettere in luce la parte più sexy del corpo (come l’artista definisce il seguente organo): il cervello. Più che uno soltanto è una serie monumentale di cervelli. Non è più l’effige di Fabre che scava con una pala nel cervello di un gigantesco Gulliver sepolto dalla terra, in una trincea con tanto di sacchi di sabbia come in “Nelle trincee del cervello come artista-lillipuziano” ma è l’esaltazione della mente e della materia, che in questo caso ha ben poco di grigio, visto il colore del marmo.

L’atmosfera è solenne. Cinque blocchi di marmo sono stati scolpiti e fresati per rivivere lo sfarzo e la monumentalità di un tempo. Tutta la macchina scenica è incentrata sul rapporto aulico tra lo spettatore, l’edificio e le opere.
Aulica è pure la piattaforma lucidata a specchio e formata da lamine d’oro su cui sono collocate le sculture. Una sospensione fisica dello spazio e del tempo, vicina, tangibile eppure inafferrabile; per esempio, quando bisogna infilarsi delle ciabatte in feltro per muoversi sul basamento dorato, si ha la sensazione di non essere legati alla terra ma di orbitare tra le opere, in un lento peregrinare tra le colonne della Chiesa fino a raggiungere delicatamente il Sancta Sanctorum, visibile in fondo.

Le prime due opere che accolgono i visitatori sono due cervelli montati su blocchi di marmo grezzo, apparentemente simili, nei quali vi è infilzata una forma di croce. In “Pietà I (Strumenti del terrorismo poetico)” la forma a croce è composta da due chiodi ingigantiti e legati tra loro da una corda che rimandano alle torture di Cristo mentre in “Pietà II (Tomba vivente)” la croce è simile a quelle che si trovano nei luoghi di sepoltura ed è avvolta da un rampicante che si inerpica su di essa. Una lumaca si addentra tra il fogliame dell’edera ed è l’unico particolare lucidato a specchio nella lavorazione del marmo in esposizione. Continuando a scivolare tra la navata centrale della Chiesa troviamo “Pietà III (Fontana della vita imitante la forma e lo stile della miniatura)”, un cervello dal quale cresce un Bonsai cesellato e lavorato con invidiabile maestria. Non è la natura che prende il sopravvento sullo scorrere del tempo e della morte, come nelle prime due opere, ma è la mano dell’uomo che plasma la natura, in un duplice punto di vista. Il Bonsai è per definizione un albero in iniatura ma in natura non esiste: è l’uomo che gli conferisce l’aspetto che conosciamo; così come è sempre la mirabile mano dell’uomo che fresando la materia del marmo bianco gli ha donato quest’aspetto, portandolo a risultati sorprendenti. Qui la croce scopare e al suo posto troviamo l’albero della vita di derivazione buddhista e la lavorazione paziente dell’opera è una chiara espressione della caparbietà e della precisione delle culture orientali.

Proseguendo ci si imbatte in “Pietà IV (Ascesa alle pietre oracolari)”ed è l’unica opera in cui il cervello è capovolto con annesse quattro tartarughe adagiate sul carapace a formare un quadrato che simula i quattro punti cardinali e che si potrebbe tradurre con la propensione dell’uomo verso gli spostamenti e la razionalità della mente umana; la tartaruga inoltre simboleggia la Grecia Antica e in qualche modo rimanda agli atti divinatori degli oracoli, alla comunicabilità tra il divino e l’umano trasformando il sacro in mito.

Tutte e quattro le opere formano un percorso di interiorizzazione e di trasformazione della mente umana, dallo stadio più ripugnante alla materializzazione degli strumenti che la collegano alle sfere alte, passando per i simboli religiosi e dissacrandoli per far spazio a un nuovo approccio con il divino.

La morte è una costante nell’opera di Jan Fabre ma qui viene esaltata a figura irreale e donata di una strana purezza, immacolata e detestabile. Per usare le parole dei curatori della mostra, Giacinto Di Pietrantonio e Katerina Koskina, i “temi di morte e di resurrezione e le tecniche antiche sono infatti adoperate e alleate per la costruzione visionaria e ideale della vita simbolica, sottolineando che è quell’anacronismo artistico volutamente scelto da Fabre a determinare la sua originalità, a volte mal interpretata”. Il percorso, infatti, ci conduce all’opera dal titolo “Pietà V (Sogno compassionevole)” dove la composizione michelangiolesca è confusa dal ruolo dei personaggi rappresentati. La morte qui è compassionevole come una madre che guarda il corpo senza vita del Cristo di turno, in questo caso l’artista stesso. Fabre, in effetti, si spinge oltre: il corpo è freddo, freddo come il materiale di cui è composto, ma animato da vita nuova come gli amati insetti, le lumache e le farfalle che invadono il suo corpo in cerca di un nuovo nutrimento. La tragicità della scena viene vissuta con serenità e invoglia l’osservatore alla creazione di un universo che si spinge oltre la morte, oltre al decadimento della carne per abbandonare le limitazioni e l’ipocrisia della mente: Fabre stesso in quest’opera lascia scivolare il cervello dalla mano esanime, soggetto della mostra e punto di partenza della creazione.