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Lettera internazionale Anno 25 Numero 100 settembre 2009



Il duende: lo spirito misterioso del flamenco

Paco de la Rosa



Rivista trimestrale europea


LETTERA INTERNAZIONALE – SOMMARIO N.100

2 Il coraggio della verità, Michel Foucault

Homo Mediaticus
6 L’oscenità democratica, Régis Debray
9 Quando il leader ruba…la scena, Dario Fo, intervista di Biancamaria Bruno
11 Elogio dell’autenticità, Franco Ferrarotti
13 Stenografia della politica, Beatriz Sarlo
14 Figure senza sfondo, Marshall McLuhan

Scrittori contro
16 La Regina del Bagno. Cabaret satirico, Hanoch Levin
19 Esilio sulla strada principale, Sayed Kashua
21 Viva la democrazia!, Seyed Ibrahim Nabavi

Il teatro, il pubblico, il potere
23 Breve storia della tragedia antica, Theodore Grammatas
26 Teatro politico, Luciano Canfora
27 Il coro: la comunione del dolore, Hélène Cixous
29 Mai imitare Artaud…, Jacques Derrida, intervista di Pierre Barbancey
30 Destino e tragedia, Fabio Tolledi
33 Didattica della violenza, Bertolt Brecht
34 Due registi si interrogano sulla Rivoluzione, Fausto Malcovati
34 La Rivoluzione a teatro, Kostantin S. Stanislavskij
38 Il teatro può solo essere tendenzioso, Vsevolod E. Mejerchol’d
41 Per un nuovo teatro arabo, Sa‘dallah Wann?s

Musica, linguaggio, tradizione
44 Musica e tempo, Hans-Georg Gadamer
46 L’intraducibilità della musica, Elio Matassi
48 L’antico segreto dell’armonia, Massimo Donà
49 Musica, nodo di linguaggi, Quirino Principe
51 Musica per parole e per immagini, Vincenzo Cerami
52 Il duende: lo spirito misterioso del flamenco, Paco de la Rosa
54 La musica meccanizzata, Béla Bartók
58 Il lavoro nella musica, Claudio Strinati

I Libri e gli Eventi
60 A cura di Francesco M. Biscione, Maria Mantello, Francesco Morabito, Giovanni Pandolfo, Franco Voltaggio



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n. 115 maggio 2013


Danilo Maestosi, Albeniz
Asturias, 2009
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Danilo Maestosi
Erik Satie, Gymnopedies, 2009
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Danilo Maestosi,
Orchestra di piazza Vittorio, compilation, 2008
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Il linguaggio aiuta l’essere umano a entrare in contatto con se stesso, anche se talvolta il senso di alcune parole gli sfugge. Il fatto che esistano in tutte le culture espressioni impossibili da tradurre in altre lingue rende alcune parole ancor più impenetrabili. Questo è il caso della parola duende, difficile da esplicitare anche in spagnolo, il che però non significa che la sua essenza non sia familiare.
Sappiamo bene che, attraverso il suono, le parole raggiungono la nostra comprensione, che la loro musicalità ci tocca ancor prima del loro significato, così come la poesia è più vicina alla musica che al discorso. Il miglior modo di capire l’idea di duende sarebbe dunque, forse, quello di ricorrere alla formula di sant’Agostino per definire il tempo: «Se non mi si chiede che cos’è, lo so. Se me lo si chiede, non lo so».
Ancor prima che la terra fosse terra, già esisteva la materia che la formava. Allo stesso modo, la parola precede se stessa, perché essa esiste ancor prima di essere pronunciata. Da qui deriva la difficoltà a indovinare la sua origine e il potere che essa nasconde. Le parole ereditano da loro stesse ancor prima che noi le ereditiamo e le trasmettiamo alle generazioni successive con il loro senso, il loro proprio inconscio, i diversi impieghi che daremo loro nel corso del tempo. Da qui proviene anche il loro potere misterioso e il fatto che non possiamo possederle. Sono le parole a possederci e a fare di noi i loro servitori, i loro interpreti, i loro messaggeri.

Il duende, notturno e luminoso
In spagnolo, duende, duendo, deriva etimologicamente dalla lingua celtica doñeet, degneet, che significa “domestico”, “familiare”, dueño de la casa (“padrone di casa”). Secondo gli esperti della lingua, i suoni sarebbero in grado di veicolare colori e associazioni; così in spagnolo la vocale u appare in un gran numero di parole che si riferiscono alla luce (luz): azul, lumbre, fulgor, fulgurante, iluminar. Ma anche in parole che evocano colori scuri: luto (lutto), luctoso, lúgubre, púrpura, crepúscolo, luna.
D’altra parte, la parola luna in basco (illargia) significa “luce nera”. Non possiamo quindi fare a meno di identificare il duende con qualcosa di notturno e di luminoso, con la luna, quindi, l’essere che incarna per eccellenza questi due aspetti.
Secondo la tradizione, il duende è legato all’idea di uno spirito maligno che occupa le case per inquietare i suoi abitanti, creando di notte rumori e tramestio, all’idea di un essere mezzo uomo e mezzo spirito dai poteri sovrannaturali, come certi concia-ossa e certe streghe che sbucano dai luoghi più squallidi. Tradizionalmente, si dice che i duende prediligano i metalli, ma anche la musica, il canto e la danza ai quali si abbandonano durante la notte. Talvolta ingannano i mortali attirandoli nelle loro
danze notturne, poi li trascinano fino ai loro regni, obbligandoli a camminare o usandoli come cavalcatura, percorrendo, in questo modo, lunghe distanze per poi abbandonarli e svanire con l’alba.
La parola duende, nella sua accezione prima, esiste in tutte le culture. A Roma si usava la parola lar. I greci usavano il termine theói ephéstioi. I jinn o jan degli arabi, citati ne Le mille e una notte, sono invisibili, viaggiano su nuvole di sabbia e non si possono dominare che con il fuoco o con l’incantesimo di nomi divini. Il popolo, per accattivarsi i loro favori, li chiama mubarkin. Esistono anche in Egitto, in India, a Sumatra, a Taiwan, nelle culture africane, celtiche, slave, germaniche e polinesiane. La superstizione che accompagna i duende presenta, ad ogni modo, molte analogie con il culto dei morti, le storie di streghe, i racconti di fate e l’astrologia mitologica. Ma questa descrizione di un essere fantastico, piccolo, maligno, corrisponderebbe piuttosto a quel che in francese si chiama lutin, folletto, e che in spagnolo, rispetto alle nostre intenzioni, si tradurrebbe piuttosto con il diminutivo duendecillo. Dunque, a questo punto, abbiamo tre parole identiche con accezioni diverse: duende (flamenco), duendecillo (folletto) e duende (il personaggio spaventoso delle storie per bambini).
Il primo di questi concetti di duende è stato probabilmente applicato al flamenco a partire dal XVIII secolo, perché a quell’epoca è apparso il cante come lo conosciamo oggi, anche se, secondo lo stesso ragionamento che abbiamo seguito per le parole, esso deve essere esistito ancor prima della nascita del famoso cante. Per poter capire il terzo concetto di duende e, allo stesso tempo, il suo rapporto con l’universo del flamenco, sarebbe interessante ricordare le storie che raccontavano le nostre nonne andaluse al chiaro di luna o accanto al nostro letto per “aiutarci” a dormire, quei racconti nei quali spesso compariva un personaggio con questo nome, errante tra le strade oscure. I quartieri di Santiago e di San Miguel a Jérez, là dove è nata la storia del flamenco, sono pieni di duendes e di duende (calle de la Sangre, calle de la Justicia, callejón de Asta, calle Jardinillo, Nueva y Cantarería, calle del Sol, la Plazuela, calle Pañuelo, San Telmo…).

Storie paurose per bambini curiosi
La nonna di Paulera, un amico d’infanzia, ci ha raccontato che un giorno, in uno di questi quartieri, dopo una forte tempesta, al primo albeggiare, si sentì un lontano frastuono di catene che sembravano essere trascinate per terra. Benché fosse una notte molto scura, il cielo era livido, il che conferiva alla città un’atmosfera da catastrofe imminente. Il silenzio aveva a poco a poco invaso ogni angolo ed era diventato così denso che perfino le statue delle chiese si erano spaventate.
Inutile dire che questa nonna descriveva la scena con forza e con dettagli inventati. A seconda dello stupore che percepiva nei nostri occhi, insisteva su questo o quell’aspetto del racconto. Dopo essersi dilungata al massimo sul dettaglio delle catene e averci spiegato come ogni anello tintinnasse sul selciato, non ne potevamo più e dovevamo interromperla:
– E chi trascinava le catene?
– Un duende, rispondeva la nonna con una voce cavernosa, un duende che errava per le strade come un’anima in pena.
– E come era fatto questo duende?, chiedevamo spaventati.
Lei proseguiva aprendo numerose parentesi per rendere le cose ancor più misteriose. Quando considerava che ci stava tenendo sufficientemente sulle spine e che non c’era più posto per altri preamboli, finalmente cominciava a descriverci i tratti del duende. La vecchia sosteneva che l’essere misterioso aveva tratti umani, era molto alto, piuttosto anziano, i lineamenti allungati, il viso e le mani di un pallore quasi traslucido, gli occhi semichiusi e pronti a scrutare ogni cosa; il duende procedeva avvolto nella sua immensa mantella bianca, il che lo rendeva ancor più spaventoso.
– E dove andava questo duende?, osavamo chiedere.
– Alla ricerca di un ubriacone che cantava e che impediva a tutti di dormire.
– E che cosa gli voleva fare?, insistevamo piuttosto preoccupati.
– Questo lo vedremo più tardi, adesso andate a dormire, altrimenti verrà a prendere anche voi.
Bisogna tenere bene a mente che, fino alla fine degli anni Settanta, si trovavano ancora, a Jérez, come in tante altre città andaluse, taverne lugubri (tabancos) di ogni tipo con i muri coperti di ragnatele e dove si accatastavano le botti di vino. Questi luoghi rimanevano aperti fino a tarda notte, il che incitava i clienti fedeli, quando erano ben alticci, a cantare, nonostante il cartello indicasse “vietato cantare”.
Mi ricordo che, dopo la storia della nonna di Paulera, una notte, prima di coricarmi, chiesi a mia nonna se i duende esistevano. Certo che esistono, mi rispose, facendo un gesto per indicare quanto fosse evidente. E, per “aiutarmi” a dormire, cominciò a raccontarmi una storia di strade scure, di catene che strascicavano lentamente per terra e di un vecchio col volto allungato, le mani bianche quasi traslucide e gli occhi semichiusi che scrutavano ogni cosa. L’unica differenza con la storia precedente era che, questa volta, il duende andava a cercare non l’ubriacone, ma la sua anima.
Questo non giustifica esattamente il senso di questa parola nel flamenco; si tratta solamente di un aneddoto che dimostra fino a che punto le storie popolari perdurino nell’inconscio collettivo e riescano a influenzarlo in mille modi, in particolare quando si tratta del popolo andaluso, così facilmente sedotto dall’immaginazione e dalla tradizione.

Astri chiamati individui
Antonio Machado Álvarez, detto Demofilo, il primo teorico del flamenco, ha definito questo popolo come «la nebulosa dalla quale si staccano, con variazioni infinitesimali, gli astri chiamati individui». E chiama popolo «gli uomini e le donne che, per le loro particolari condizioni di vita, si differenziano pochissimo tra loro e hanno un grande numero di tratti comuni. Sono poveri – così scriveva –, spendono la loro energia in lavori essenzialmente fisici e hanno, a causa delle loro poche conoscenze, orizzonti meno ampi verso i quali evolvere rispetto agli uomini più progrediti. In loro predominano le emozioni e l’immaginazione; in questo senso sono più poeti rispetto agli uomini colti o eruditi, e sono più vicini all’infanzia rispetto agli uomini riflessivi».(1)
Eppure il popolo andaluso di oggi, anche se rimane legato a un certo tipo di immaginazione e a una certa tradizione, non è più quello che era nel 1883. Né l’Andalusia, né il flamenco sono sfuggiti, tra le altre cose, agli effetti della società del consumo. La vita è cambiata e il cante si trova in grande difficoltà, come tutte quelle culture la cui trasmissione è orale e che esitano tra rimanere fedeli alla tradizione e attaccarsi all’incertezza delle nuove tendenze. Gli artisti di oggi non osano guardare sufficientemente indietro, per paura di perdere quello che considerano essere il treno del futuro, dimenticando che, per evolvere, invece di buttarsi verso l’orizzonte, bisogna fare due passi in avanti e almeno uno indietro; altrimenti si finisce per perdere irrimediabilmente la memoria.
Il carattere melismatico, che era uno dei tratti principali del cante, si è a poco a poco perduto per finire eclissato in melodie di cattivo gusto, vicine ai distici “flamenchizzati”. Le parole, nel migliore dei casi, sono scritte da parolieri professionisti. Prima erano il riflesso di quello che la gente viveva, e quelli che le creavano erano le stesse persone che le cantavano. Erano goffe, rustiche, ingenue, ma suonavano bene, suonavano come profezie, e da qui derivava la loro forza.
Oggigiorno, là dove tutto si banalizza, dove ci sono più artisti che pubblico, dove perfino il cante è diventato un prodotto di consumo (come un volgare formaggio da supermercato), la parola duende ha perduto la sua essenza. Sono rari i cantanti ai quali non viene attribuita questa qualità, come se il fatto di mettersi in posa e di aprire la bocca più del normale fosse una garanzia di qualità. Se così fosse, potremmo attaccare l’etichetta duende a qualunque dei nostri oratori politici arrabbiati.

Un duende alla porta...
Il mio amico Paulera abitava in una di quelle casas de vecinos composta da un lungo patio circondato da stanze nelle quali viveva miseramente un gran numero di famiglie che condividevano un’unica cucina e un lavatoio. Così, dunque, un giorno, mentre noi bambini stavamo dormendo e gli adulti erano appena andati a letto, tutto a un tratto, sentimmo bussare alla porta.
Ci svegliammo preoccupati e, naturalmente, la prima cosa alla quale pensammo fu che si trattasse di un duende. La nonna, che dormiva nella nostra camera, si alzò e andò a piedi scalzi a vedere dallo spioncino chi fosse. Si trattava di suo figlio (Paulera, il primogenito, zio del mio amico) in compagnia di un mucchio di gitani che stavano tornando da una festa (fra cui alcuni cantanti conosciuti dell’epoca) e che volevano continuare da noi. Saltammo tutti giù dal letto, pazzi di gioia. Le donne cominciarono a scaldare il caffè e a preparare il riso al latte. Un attimo dopo, alle prime luci dell’alba, tutti i vicini si erano uniti alla festa, che durò fino al pomeriggio del giorno seguente. In quelle occasioni, la partecipazione era generale. I bambini facevano le palmas e alcuni azzardavano un cante. Le nonne, con la loro aria da bambine, erano assolutamente speciali in questi momenti: accennavano una piccola danza, con le braccia alzate, senza spostarsi. Le bambine facevano mulinelli con le mani e battevano i piedi a tempo con la mimica delle donne anziane.
Per molti secoli, il cante è scaturito da riunioni di questo tipo e non da spettacoli, e questo nonostante la comparsa, nella seconda metà del XIX secolo, dei café cantantes. Non bisogna dimenticare che il flamenco non è mai stato folclore, cioè una forma musicale creata e ricreata dal popolo, ma un’arte trasmessa oralmente per il tramite di famiglie gitane ben definite: las familias cantaorasduende, e che i presenti percepissero quel fremito inspiegabile, che si mettessero a piangere o a tremare, che si strappassero la camicia semplicemente per l’emozione (un’abitudine molto gitana). Queste famose riunioni non erano mai preparate, ma nascevano in maniera estemporanea e per le ragioni più impensabili, sempre a sorpresa. Nell’universo del flamenco, non c’è spazio per tutto quello che è programmato, perché in questo caso manca il mistero – e il mistero, come tutti sanno, non è solo ciò che fa muovere il mondo, ma anche quello che attira il duende

Un canto di dolore
Con il passare del tempo, questa parola magica ha finito per designare, più che il fenomeno vissuto, un concetto teorico. Si è abusato del termine durante tutta la storia e la geografia del flamenco. Una cosa è assistere a uno spettacolo ed essere sorpresi, percepire un certo piacere e perfino commuoversi, un’altra è aver voglia di piangere, provare la paura, il brivido, la terribile vertigine che spinge verso un abisso di estasi e di spavento in cui i dubbi esistenziali, le pene, i tormenti, si dissolvono con una semplicità inspiegabile. Il vero cante è alla ricerca di questo istante, cammina sulla lama di un coltello, tra equilibrio e follia, tra ribellione e rassegnazione. Il vero cante è pieno di grida e di silenzi, due estremi apparentemente inconciliabili ma che qui procedono insieme. Il vero cante non provoca godimento, ma dolore. Non è una sequenza di armonie o di cadenze melodiose per incantare l’orecchio. Il vero cante è fatto di voci lacerate che fanno male, anzi che feriscono. Per quanto riguarda il duende, potremmo concludere dicendo semplicemente che è, né più né meno, la più primitiva e jonda(2) delle catarsi.

Note
¹ Collección de cantes flamencos, Siviglia, 1881.
² Maniera gitana di denominare il canto profondo, nel senso di “autentico” in opposizione al canto snaturato.

Questo testo è stato scritto dall’Autore in lingua francese per la rivista La Pensée de Midi, Mythologies Méditerranéennes (novembre 2007) ed è stato pubblicato tradotto in lingua italiana su Lettera Internazionale n. 100 – II trimestre 2009, pp. 52-53.
Traduzione di Veronic Algeri