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Art e Dossier (2003 - 2005) Anno 20 Numero 209 marzo 2005



Dare forma all'utopia

Eva di Stefano



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Joseph Beuys, Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda (1966), Parigi, Centre Georges Pompidou

Joseph Beuys, Abito di feltro (1970), multiplo

Joseph Beuys, Vasca da bagno (1960)

Artista-sciamano, utopista messianico, lontano da ogni poetica estetizzante, Joseph Beuys ha fatto della propria attività artistica - azioni, installazioni - un impegno morale, didattico e politico. Al punto che la sua stessa figura è divenuta un'icona del Novecento.

Nel 1943, nel deserto nevoso della steppa russa, Joseph Beuys, artista e predicatore, vive la sua via di Damasco, la sua caduta, la sua salvezza e la sua folgorazione. Racconta la biografia, o la leggenda, che i tartari scoprono il corpo del giovane aviatore tedesco ferito e incosciente tra i rottami del suo aereo, lo adottano e lo curano amorosamente avvolgendolo nel feltro e cospargendolo di grasso. Questi due materiali, a cui attribuisce la sua resurrezione, diventeranno in seguito centrali nella sua scultura: veicoli di significato che mettono in scena processi e mutazioni, cioè per Beuys il senso stesso della vita, in un francescano teatro d'idee interpretato da oggetti. La materia del feltro è calda, protettiva, isolante, ha le medesime proprietà del grembo, quelle cioè necessarie alla sopravvivenza animale. Di feltro sarà il suo inseparabile cappello, morbido elmo/amuleto della sua energia, e di feltro l'abito-scultura che giace sul pavimento come il bozzolo da cui nasce e rinasce l'artista, messaggero di un nuovo umanesimo. E il grasso, la margarina, rappresenterà per lui la caotica, amorfa, organica massa primordiale che può assumere ogni forma senza però mai divenire stabile, perché ogni mutamento di temperatura ne modifica lo stato, lo fa essere solido o fluido, e dunque è in perenne tangibile osmosi con l'ambiente, ma è anche dispensa di calorie, sostanza metamorfica e fonte di energia. Così la massa di grasso sul sedile in La sedia (1964) sta per il corpo vivente, allude alla produzione di energia che avviene nella parte bassa del corpo attraverso la digestione o la sessualità, ma allo stesso tempo è materia organica che può essere plasmata, è scultura potenziale, così la sedia diviene metafora della mente, cioè della capacità creativa che converte il caos nell'ordine della forma.
Esperienze e mitologie personali sono sempre la linfa delle sue opere: nessuna differenza tra arte e vita, ciò che conta è la palingenesi, il potenziale di energia per trasformare il mondo. Un pezzo di grasso dentro una vecchia vasca da bagno per neonati incerottata è allo stesso tempo il flashback di un'esperienza vissuta, una condensazione simbolica, l'esemplificazione dei principi della termodinamica: "L'opera ha una chiave autobiografica", dichiara Beuys, "è un oggetto preso dalla realtà circostante, un oggetto solido, materiale che viene allestito con un'energia di tipo spirituale: lo si potrebbe designare come sostanza, e la trasformazione di questa sostanza è il mio compito artistico, anziché la tradizionale concezione estetica delle belle visioni. Quando la creatività coincide con la trasformazione, con la mutazione e il dispiegamento della sostanza, allora può essere applicata a tutto e non essere semplicemente ristretta al campo artistico. Il significato di quest'oggetto sta nell'indicare come a mettere in moto la vita sono elementi come acqua e calore: il grasso dentro la vasca vuole evocare la mano creatrice, l'energia formativa che è sottesa a tutte le cose terrene [?]. La mia storia personale non è il centro, essa diventa interessante solo in quanto io cerco di utilizzare la mia vita e la mia persona come strumento. Sarebbe falso vedere nella vasca una specie di autoriflessione. E non ha neanche a che vedere con il concetto di ready-made, al contrario qui la tensione è tutta concentrata sul significato dell'oggetto che ci riporta a una situazione reale, quella di essere nati in un ambiente di questo tipo e che la nostra vita dipende da condizioni di questo genere"(1).

La ricerca di un'unione perduta
Non interessa a Beuys l'appagamento dell'occhio, la gabbia della dimensione estetica, egli ha sempre teso a scardinarla e rifiutare ogni separatezza. L'opera è dispiegamento della forza intuitiva contro il pensiero astratto, unilaterale, che viviseziona per comprendere, ed è strumento di predicazione attiva: nel suo sistema integrale arte e scienza sociale coincidono, e arte vuol dire dar forma all'utopia. Una delle installazioni più famose di Beuys, creata per la Documenta di Kassel del 1977, è la colossale Pompa di miele, che faceva circolare per l'intero grande museo, dalle cantine al tetto, il fluido dorato dentro tubi di plastica trasparente: il dolce circuito, come immagine di un possibile sistema di circolazione nell'organismo sociale, realizzando concretamente una metafora dell'antroposofo Rudolf Steiner, esemplifica la sua concezione totalizzante dell'arte.
Nella geografia visionaria dell'artista il luogo dell'utopia emerge da remote ere geologiche, è un continente, Eurasia, luogo della totalità non lacerata, dove natura e spirito, ragione e desiderio, corpo e anima non vivono di insanabile opposizione. Beuys ha sete d'assoluto, è figlio di Germania "pallida madre" e del romanticismo, crede che l'uomo produce "lo spazio, il tempo, la sostanza, la verità"(2) e può perciò mutare il suo destino e ritrovare l'unità perduta. Non invoca semplicemente rispetto per la natura, ma proclama la necessità della comunione con essa, che l'umanità riconosca, come all'origine, la propria identità con l'animale, la foglia, la pietra: un'unica "divina" energia circola nei regni del mondo, lo stesso fluido del divenire pervade l'uomo e il vegetale, il germe e il feto. Beuys lavora perchè sia possibile volgere le spalle al prometeismo, al dominio dispotico sulla natura e, invece, integrarsi nelle forze animali e vegetali, e ritrovare il linguaggio perduto. Col capo cosparso di miele e oro, si intrattiene per ore con una lepre morta in una galleria di Düsseldorf il 26 novembre 1965 (Come spiegare i quadri a una lepre morta). Convive tre giorni con un coyote, animale nomade e simbolo dell'America precolombiana, in una celebre "azione"(3) tenuta nella galleria newyorkese di René Block nel maggio del 1974 (Coyote: I like America and America likes me). Altri animali totemici ricorrono in opere e disegni, come il cigno di Lohengrin o il cervo, simbolo di Cristo e del suo martirio, e la lepre, animale pasquale, che allude all'incarnazione e alla resurrezione e, posta in alto sulle lavagne dove il Beuys pedagogo traccia i suoi grafici messianici, presiede al superamento del contrasto tra razionalità e fede, tra Occidente e Oriente.

L'artista sciamano
Goethe, Schiller, Novalis, Steiner e Maeterlink, ma anche Leonardo da Vinci e i testi dei Rosacroce, sono tra le fonti della sua visione panteista che coniuga atavismo e futurologia e che si sposa al clima utopista degli anni Sessanta, il tempo ideale per la costruzione del suo personaggio di artista-sciamano e della sua idea di arte come pedagogia. Una pedagogia che tende a ricostituire la globalità dell'esperienza umana e che, proprio per questo, non si porge a un'immediata comprensibilità. Il pensiero analitico è un limite, uno steccato entro cui l'uomo contemporaneo sta barricato mutilando la sua forza, un fucile che mira a ciò che è vivo, lo uccide per poterlo conoscere sul tavolo anatomico, come nell'installazione, realizzata tra il 1950 e il 1971 e presentata alla 49a Biennale di Venezia, Voglio vedere le mie montagne.
Il pedagogo Beuys estrae dall'inconscio i residui prelogici e li libera nel loro ermetismo e nella loro caotica turbolenza, perché "l'inizio del nuovo accade sempre nel caos"(4). I tanti disegni sono appunto "residui" e "turbolenze", che servono a esperire ciò che il linguaggio e l'astrazione del pensiero non consentono, rendono visibile una mutazione o l'embrione di una forma, di un progetto, di un'analogia: una tecnica di fisiologia del pensiero globale, un album iniziatico dove l'artista suscita e annota le sue "illuminazioni", un corpus leonardesco del nostro tempo, schizzi e diagrammi che contengono tracce di ogni aspetto dell'esistenza umana e delle scienze sociali e naturali. Vi regnano austerità e automatismo, colori di terra, di ferro e di sangue, un'apparente semplicità sensitiva che sgrana ogni compiutezza: la sobria bellezza di questi fogli non è, per Beuys, che un'inessenziale conseguenza dell'evocazione sciamanica o della "goethiana" ricerca della pianta primigenia.

Il fine della salvezza
Ritrovare l'anima e l'origine: il grande sogno romantico in versione novecentesca è inevitabilmente connesso a un sentimento di catastrofe imminente, conseguenza dell'asservimento al materialismo e al sopravvento dell'avere sull'essere. Il feltro che avvolge lo strumento, in Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda (1966), ha una funzione salvifica come indica anche la croce rossa apposta sul fianco, protegge il suono, lo riconduce al regime dell'interiorità e dell'attesa. E Le slitte (1969) sono equipaggiate con un kit di sopravvivenza: un rotolo di feltro, un blocco di grasso e una lampada tascabile, per scivolare via senza perdere il contatto con il suolo. La pietrificazione del mondo può infatti non essere definitiva, ogni catastrofe contiene in sé ancora un elemento di salvezza: La fine del XX secolo (1983) consiste in un mucchio di ventuno pietre di basalto grigio e un carrello elevatore di ferro, che suggerisce l'idea di un cantiere ormai fermo - l'arresto del movimento lineare del progresso nella landa desolata dell'autodistruzione -, ma che indica anche la possibilità di spostamento delle pietre che, se sono pietre-bare, sono anche però pietre-grembi, ciascuna custodisce infatti al suo interno un pezzetto di feltro e dell'argilla, ovvero la possibilità del risveglio della vita. Le stesse grandi pietre, ammassate in gran numero sulla piazza del Fridericianum nella Documenta di Kassel del 1982, sono state trasformate in settemila querce in un'azione che ha coinvolto l'intera collettività (ciascuno infatti poteva togliere una pietra dal mucchio, piantando in cambio un albero nel territorio cittadino), e che si è conclusa nel 1988, dopo la morte dell'artista, restando il suo più riuscito esperimento di "scultura sociale".
Trasformazione è la parola chiave: non opere destinate alla contemplazione, ma volte a mettere in moto un processo, negando il compimento, la quiete e ogni cristallizzazione, come l'olio che, in Olivestones (1984), penetra nella pietra calcarea delle vasche che lo contengono, e con essa si congiunge trasformandosi in un acido che la corrode. La dimensione simbolica nasce sempre dalle forze reali dei materiali e dall'osservazione diretta della natura, dalla volontà di integrare arte e scienza, mito e tecnologia, coniugandole all'esperienza personale. È impossibile prescinderne e limitarsi a un'analisi puramente formale, anche perché il centro d'interesse dell'artista è l'universo di forze sotteso più che l'opera stessa, relitto o feticcio di un'azione spesso rituale: a Beuys resta del tutto estranea la nozione di "art pour l'art".
Così, confluiscono nella sua più teatrale ed enigmatica installazione, Fulmine con bagliore sul cervo (1985) oggetti e motivi elaborati in più fasi già dal 1958, come reliquie disperse in uno spazio che Beuys adesso definisce glacializzato e "senza memoria"(5): una grande forma triangolare sospesa, come energia rappresa nel bronzo, e il cervo, una tavola d'alluminio lucente, circondato dagli strumenti della propria passione e da creature primordiali ed escrementizie in cerca di fisionomia. Nessun elemento a produrre calore, stavolta il fissaggio scultoreo esilia il principio dinamico della vita, forse perché nella mitologia di Beuys "il cervo appare in tempi di dolore e di pericolo, [?] se morto o ferito è generalmente un effetto della vergogna e del­l'in­comprensione"(6).
Aleggia il presentimento della fine, come nello spazio definitivo e solenne di Palazzo regale, l'ultima opera allestita nel dicembre del 1985 al museo di Capodimonte a Napoli, dove raccoglie, tra pannelli specchianti di ottone e oro, i suoi strumenti di evocazione e profezia: un corredo tombale, denso di risonanze archetipe, dove non manca lo zaino del viandante-artista alla ricerca di grazia per la condizione umana(7).