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Vegetali Ignoti (2003 - 2004) Anno 6 Numero 17 febbraio 2002



Dove sono finite le opere d'arte?

Elena Di Raddo



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James Harris, critico inglese del Settecento, parlando a proposito delle regole artistiche, che considerava immutabili e impopolari, suggeriva che l'osservatore dovrebbe fingere di apprezzare la buona arte, poiché questa finzione si trasformerebbe in una seconda natura. Dovrebbe, cioè, citando le parole di un altro protagonista di quel secolo, il pittore Joshua Reynolds, "simulare un gradimento, sino a che tale gradimento non sia davvero percepito e sentiamo che ciò che è nato con la finzione diviene realtà."

L¹idea che la qualità di un'opera d'arte o di un artista possa nascere dal consenso, oggi non è poi così distante da quell'atteggiamento che veniva suggerito in un¹epoca in cui ancora ci si affidava a delle concezioni artistiche ereditate dalla tradizione classica. Chi non si porrebbe una qualche domanda in merito alla qualità artistica di lavori che, al di fuori di qualsiasi criterio oggettivo, sono sostenuti più dalla buona opinione di gallerie-mercato e critici, piuttosto che da un reale confronto con la categoria di "artisticità"? Il problema, però, non può essere semplicisticamente ridotto a considerazioni generiche. I fatti, molto spesso, rivelano, più che nascondere, questa semplice verità: che l'opera d'arte, da sempre, non è solo il frutto di un'azione creativa spontanea e disinteressata, ma obbedisce, più o meno consapevolmente, a regole e canali che derivano dal sistema dell'arte, in tutti i suoi aspetti e forse, anziché porci il problema dell'artisticità o meno di un'opera, del valore maggiore o minore di un lavoro, sarebbe utile soffermarci sulla considerazione se l'artista sia più o meno consapevole di appartenere al mondo dell'arte e se il suo lavoro partecipi consapevolmente alle regole del gioco.
In un pomeriggio molto affollato di una giornata da fiera di Bologna, di fronte a un folto pubblico seduto sui gradoni scomodi dell'anfiteatro ricavato tra gli stand, Giulio Paolini sosteneva che nell'epoca attuale si è imposto un processo di matrice anglofona che porta alla "desacralizzazione dell'opera d'arte" e a una "riduzione dell'opera a pretesto per far conoscere l'artista". Per cui viene promosso un tipo di conoscenza dell¹autore verso il pubblico che si configura piuttosto come una "confidenza", del tutto indifferente all'opera. Aggiungendo che si tratta di un obiettivo facile e privo di interesse che si può rovesciare in una sorta di provocazione e di aggressività. Alla vigilia della grande mostra che a
Londra consacrerà ancora una volta ­ se ce ne fosse bisogno - l'Arte Povera italiana, è inevitabile riflettere su questo pensiero espresso con tanta libertà e sincerità da Paolini, che proprio dall'attuale sistema "autoriale" trae certamente beneficio.

Il meccanismo che privilegia la fama dell'autore e la sua storia personale sul valore effettivo dell'opera, è, in fondo, un retaggio di matrice concettuale, che, soprattutto nella sua declinazione nord europea, ha portato al rapporto diretto tra il pubblico e il suo autore, relegando la condizione d'esistenza dell'opera all'essere il risultato di un processo di natura introspettiva e strettamente legato al pensiero e alla figura di chi l¹aveva realizzata. Così, per fare un esempio eclatante, anche la figura di Andy Warhol ha ricavato beneficio e notorietà proprio in virtù di una considerazione di tipo concettuale del suo lavoro.

Non è stato così, storicamente, per l'arte concettuale italiana, che ha, invece, sempre privilegiato la realizzazione dell'opera. Ma, negli anni Sessanta e Settanta, come oggi, del resto, la fiducia nell¹arte nazionale, è sempre rimasta in sordina. Così, dei protagonisti di quegli anni non sono rimaste molte tracce. Ma, si sa, noi italiani non siamo mai stati grandi sostenitori del nostro patrimonio nazionale. La nostra storica e smodata esterofilia già qualche danno ha arrecato all¹arte italiana. Un recente libro di Jon Bird e Michael Newman, "Rewriting Conceptual Art", ha rivisto storicamente il concettuale, riconducendo in modo opportuno l'uso del termine alle figure di Ed Keinholz e Herry Flyn, e le prime manifestazioni di arte concettuale alla mostra newyorkese "Xeroxbook" di Seth Siegelamb e John Wemdler e alla rassegna di Harald Szeemann "When Attitudes Become Form" alla Kunsthalle di Berna e all'Institute of Contemporary Art di Londra del 1969. Del panorama artistico italiano di quegli anni nel libro non emerge, invece, che una traccia confusa e non appropriata cronologicamente.
Eppure di matrice decisamente concettuale è l'intervento di Vincenzo Agnetti sul primo numero della rivista "Azimuth" del 1959, come lo è il lavoro di Piero Manzoni di quegli anni. E i nomi e le opere di Luca Patella, Emilio Prini, Claudio Parmiggiani, Sergio Lombardo, Ketty La Rocca sono tutt'altro che secondarie nella considerazione delle ricerche di matrice concettuale degli anni immediatamente seguenti. Forse il lavoro del solo Paolini, ma solo grazie alla sua origine torinese e al suo conseguente inglobamento nell'Arte Povera, è conosciuto e riconosciuto anche all'estero. Del concettuale italiano all'estero, soprattutto, non se ne conosce la specificità, che è posta proprio nella distanza dalle teorie della filosofia
analitica delle ricerche angloamericane e presenta, invece, una complessità che affonda le radici nel poststrutturalismo e nella semiotica, passando, nelle opere, dalla riflessione sul linguaggio dell'arte, a considerazioni antropologiche e scientifiche.

Quanto accaduto ai concettuali in Italia rischia di ripetersi anche per i protagonisti dell'arte attuale.
La dimostrazione che negli italiani, a differenza di altre nazioni, manca il coraggio di sapersi mettere in gioco è stata anche la scelta parziale delle selezioni per l'ambito concorso del P.S.1 che non ha saputo trovare dieci artisti "degni" di essere presentati negli Stati Uniti. Eppure anche le recenti mostre aperte a Milano dal Comune nell'ambito del Progetto Giovani presso la Fabbrica del Vapore e l'Openspace evidenziano come anche gli italiani abbiano qualcosa da dire. La globalizzazione dell'arte non dovrebbe soffocare le singolarità delle individualità artistiche e la specificità delle opere. Partecipare consapevolmente ai meccanismi del sistema dell'arte significa anche utilizzare al meglio le opportunità che vengono offerte.

Elena Di Raddo