Museo di arte moderna e contemporanea - MART
Rovereto (TN)
corso Bettini, 43
0464 438887 FAX 0464 430827
WEB
Quattro mostre
dal 9/12/2004 al 8/5/2005
0464 438887 FAX 0464 430827
WEB
Segnalato da

Luca Melchionna




 
calendario eventi  :: 




9/12/2004

Quattro mostre

Museo di arte moderna e contemporanea - MART, Rovereto (TN)

Il Bello e le bestie. Centauri e sirene, fauni e meduse, sfingi e arpie, visioni di sogno e apparizioni da incubo nella cultura visiva occidentale tra passato, presente e futuro. Una scelta di quasi 180 opere per abbracciare, in uno sguardo sintetico, due secoli di arte visiva. Ceramica sovietica: una mostra che presenta il meglio della ceramica nell'ex Urss, dal 1918 agli anni '90. Un'occasione per scoprire la tradizione decorativa russa, e, allo stesso tempo, per riflettere sui linguaggi della propaganda. Mimmo Jodice: in mostra due gruppi di lavori fotografici ascrivibili alla sua piena 'maturita'', capaci di esprimere al meglio la sua personale estetica: 'Eden' (1994 -1998) e 'Isolario Mediterraneo' (1998 - 2004). Mario Rizzi con la sua installazione 'Il sofa' di Jung' e' il protagonista della 'project room'.


comunicato stampa

Il Bello e le bestie / Ceramica sovietica / Mimmo Jodice

Il Bello e le bestie.
Metamorfosi, artifici e ibridi dal mito all'immaginario scientifico

A cura di: Lea Vergine, Giorgio Verzotti

Centauri e sirene, fauni e meduse, sfingi e arpie, visioni di sogno e apparizioni da incubo nella cultura visiva occidentale tra passato, presente e futuro. Dalla mitologia classica alle manipolazioni dell'età contemporanea, l'ibrido come incrocio tra umano e animale, spirituale e carnale, come metafora della realtà e punto di vista sul mondo.
E' la grande mostra del Mart per il 2004. Come ormai è tradizione il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto organizza per il periodo di fine anno il suo evento espositivo di maggior rilievo: Il Bello e le bestie. Metamorfosi, artifici e ibridi, dal mito all'immaginario scientifico.
Una mostra-evento - curata da Lea Vergine e Giorgio Verzotti con la direzione progettuale di Gabriella Belli - che partendo dalla seconda metà dell'Ottocento attraversa diverse correnti artistiche e giunge fino alle tendenze più recenti, allargando il suo sguardo indagatore - negli eventi collaterali e nei tanti saggi del catalogo Skira - anche ai territori della letteratura, del cinema, dello spettacolo e a quelli, attualissimi, della scienza e della genetica. Nelle sale del secondo piano del Mart, dall'11 dicembre 2004 fino all'8 maggio 2005 il pubblico si potrà dunque confrontare con l'universo ambiguo degli ibridi generati dall'incontro fra animalità e umanità: creature legate alla mitologia o ai fantasmi dell'inconscio, "mostri" che da secoli abitano l'immaginario collettivo.

Una scelta di quasi centoottanta opere per abbracciare, in uno sguardo sintetico, due secoli di arte visiva - dal Simbolismo all'estrema contemporaneità - in un affascinante percorso tematico che confronta epoche, stili e contributi concettuali, mettendo a fuoco problematiche secolari: da Arnold Böcklin a Gustave Moreau; da Auguste Rodin a Franz Von Stuck, Matthew Barney, Max Klinger, Odilon Redon, Giorgio De Chirico, René Magritte, George Grosz, Pablo Picasso, Marc Chagall, Arturo Martini, Alberto Savinio, Paul Delvaux, Francis Bacon, Frida Kahlo, Francis Picabia, Ana Mendieta, Francesco Clemente, Sandro Chia, Mimmo Paladino, Maurizio Cattelan, Louise Bourgeois, Cindy Sherman, Kiki Smith fino ai recentissimi lavori di Aspassio Haronitaki, Giuseppe Maraniello, Luigi Ontani.
Opere straordinarie che provengono da musei e collezioni di tutto il mondo, come il Musèe du Louvre e il Centre George Pompidou di Parigi, il Victoria and Albert Museum di Londra, l'Israel Museum di Gerusalemme, il KunstMuseum di Berna; e ancora il Collection Museum of Contemporary Art di Chicago, la Neue Pinakothek di Monaco, l'Alte Nationalgalerie di Berlino, gli Uffizi di Firenze, le Gallerie d'Arte Moderna di Torino e Roma.

Accanto a questo nucleo portante, un'emblematica selezione di opere più antiche chiamate ad evocare - lungo il percorso espositivo - i riferimenti culturali, gli "archetipi" della produzione artistica occidentale, sul tema del "divenire animale": ecco allora i vasi e i bronzetti greci e romani raffiguranti i protagonisti di miti e leggende, le visioni oniriche delle incisioni di Albrecht Dürer, il bellissimo "Giudizio di Re Mida" di Cima da Conegliano, "L'uccellatore" dell'Arcimboldo, ma anche il "Ritratto di Antonietta Gonzalvus" di Lavinia Fontana, l'"Arrigo Peloso, Pietro Matto e Amon Nano" di Annibale Carracci, le pungenti incisioni del grande Goya.

Cuore pulsante e fonte di ispirazione dell'esposizione è Francis Bacon di cui in mostra saranno presenti tre importanti tele: Chimpanzee, del 1955, Portrait of Michel Leiris, del 1978, e Sphinx. Portrait of Muriel Belcher, del 1979.
Il filosofo Gilles Deleuze ha letto infatti nell'opera del maestro inglese non tanto il dramma esistenziale - da sempre considerato il fuoco della sua ispirazione - ma piuttosto una speciale consapevolezza dell'essere umano, che lo imparenta con l'animalità, la perdita di controllo razionale sulla corporeità e gli istinti.
E proprio partendo da questa idea si è sviluppata la mostra del Mart, laddove il Bello del titolo indica la bellezza ideale, platonica, oggetto di ricerca di artisti ed estetologi, disincarnata, spirituale, assoluta; mentre le bestie rappresentano la molteplicità del reale (segnalata anche dal minuscolo), la non-coscienza, l'opposto di ogni concetto idealistico.
La scelta delle opere in mostra indaga proprio la convivenza dell'alto e del basso, degli opposti fusi nella stessa figura, che si dà quindi come paradosso, costruito su una contraddizione, e che in quanto tale svela un conflitto. Su questo conflitto o paradosso si fonda una parte rilevante della nostra cultura, che orienta la nostra esistenza sul bilico di una realtà altrettanto contraddittoria.

Il progetto espositivo è suddiviso in due grandi sezioni.

La prima è dedicata all'animalità come alterità - con una sezione riservata alla figura dell'uomo-animale come portatore dell' "assoluto naturale" fatto di violenza e sessualità, arcadia e morte; e con una specifica attenzione alle figure che associamo alla "natura matrigna": la Sirena, la Medusa, la Sfinge e il Minotauro, "mostri" di cui la mitologia prima e la letteratura poi ci hanno dato numerosi ed alti contributi.
L'altra sezione, è dedicata alla vicinanza, alla prossimità dell'animalità come parte di noi, specchio della nostra schizofrenia di uomini "civilizzati".
Il rapporto umanità-animalità qui si fa stringente: tocca le deformazioni e le mutazioni fino al tema, come dicevamo attualissimo,delle manipolazioni genetiche; i luoghi dell'inconscio inteso come un enigma che si può sciogliere, anche se a costo di faticose introspezioni, o i territori della razionalità dove l'enigma dell'uomo-animale diventa metafora per veicolare un discorso critico, latamente politico, sulla realtà e il suo assetto sociale.
Tutto questo delinea uno scenario abbastanza drammatico nei rapporti fra uomo e animale, descritto anche in catalogo da punti di vista diversi grazie ai contributi di storici dell'arte come Gabriella Belli, Markus Müller, Maria Grazia Tolomeo Speranza, Lea Vergine, Giorgio Verzotti, Francesco Zambon, ma anche di storici, (Giuseppe Olmi) etologi (Giorgio Celli), microbiologi (Enrico Magliano), psichiatri (Giacomo Di Marco), storici della scienza (Nikolaas Rupke e Karen Wonders), sociologi (Renato Mazzolini e Massimiano Bucchi), storici del cinema (Gian Piero Brunetta), scrittori e poeti (Edoardo Sanguineti).

Uno scenario che la parte finale della mostra intende sdrammatizzare con immagini che richiamano la fiaba, il carnevale, il comico, il grottesco.

Tema dunque ambiguo e insidioso, quello di questa mostra, giacché il rapporto dell'umano col bestiale è sgomentante e malato. Ma tema, tuttavia, affascinante e stimolante perché conduce in un mondo dove agisce il "perduto dell'uomo", che, come dice Lea Vergine, è quella istintualità smarrita nel corso della cosiddetta civilizzazione.

L'umano-animale considerato espressione dell'assoluto naturale - quella zona mitica che sta al di qua di ogni "disagio della civiltà" - è protagonista delle prime sale dell'esposizione.
I temi connessi della sessualità e della violenza (a volte separati, a volte uniti), o per contro dell'arcadia come visione della natura incontaminata connotano l'animalità anche nella produzione artistica come già in quella mitologica e letteraria. La mostra entra subito in contatto con l'immaginario surriscaldato dal mito di epoca simbolista, con i centauri di Böcklin, Klinger e Von Stuck, impegnati vuoi in estasi idilliache, vuoi in scene di cruente battaglie. Il De Chirico bockliniano della Lotta di Centauri fa da tramite fra queste opere e le rivisitazioni di epoca contemporanea, riscontrabili nelle fotografie di Luigi Ontani (veri omaggi a Von Stuck) o di Joel Peter Witkin. La sessualità polimorfa e perversa fa da contraltare, ma spesso piuttosto da polo complementare, alla violenza ferina, nelle grafiche di Picasso, nel piccolo bronzo di Desiderio da Firenze giunto dal Louvre come nell'installazione di Fabio Mauri e nelle fotografie di Matthew Barney.
Tra gli ibridi, tra i "mostri" che animano questa sezione, una particolare attenzione viene prestata a quelle figure mitologiche che tanto hanno popolato la nostra cultura visiva e letteraria
La Sirena, la Sfinge, il Minotauro, la Medusa sono le strane creature che danno sembianza alla natura matrigna, che seducono ed attirano in trappole mortali l'essere umano caduto in loro mano. Anche qui, l'erotismo si sposa con la violenza dipingendo un affresco variegato di sottili inquietudini; anche qui le creazioni del Simbolismo si confrontano con i sogni o gli incubi di epoche diverse: Dürer, Delvaux, Jeff Koons e Kiki Smith ci parlano di sirene sublimi, mostruose o grottesche; Gustave Moreau, Dante Gabriel Rossetti, George Grosz e Vettor Pisani declinano da par loro le diverse configurazioni della Sfinge. Picasso e Arturo Martini sono i due grandi che si confrontano intorno al mito del Minotauro, mentre la Medusa è proposta nelle ceramiche dorate di Lucio Fontana o nelle incisioni di Félicien Rops e Fernand Khnopf.
Questa parte conclude la sezione dedicata all'uomo-animale come insegna dell'alterità: e le sale seguenti che affrontano le mostruosità, naturali o indotte dalle tecniche umane, già ci introducono all'idea, opposta, di prossimità. Il ritratto della donna-scimmia che viveva alla corte dei Gonzaga nel famoso dipinto di Lavinia Fontana, gli "scherzi di natura" di Agostino Carracci o ancora la donna-pesce di Auguste Rodin, convivono allora con le mostruosità ideate da Aspassio Haronitaki o Matthew Barney, prodotte da manipolazioni formali che evocano esplicitamente quelle oggi operate sul patrimonio genetico, umano ed animale, che tante polemiche stanno scatenando sul piano etico.
Ma parlare di animalità come prossimità, significa anche riferirsi al mondo della vita interiore, ai luoghi dell'inconscio, tutti da esplorare e sempre enigmatici e sconvolgenti, oppure guardare all'animalità come metafora della realtà.
Dopo il Simbolismo di inizio Novecento, i Surrealisti e gli artisti ad essi assimilabili animano il secondo grande momento su cui la mostra indaga, con ampio spazio dedicato a Renè Magritte, Francis Picabia, Alberto Savinio, Frida Kahlo - con un eccezionale prestito proveniente da Houston - Annah Hoch, Leonora Carrington.
In questo contesto una sala è anche dedicata al dualismo "antropomorfo-zoomorfo" in cui ampio spazio è dato a Louise Bourgeois, che nel ragno vede rappresentata la figura della madre, e a quegli artisti che sulla via di Arcimboldo configurano il corpo umano a partire dalle spoglie animali, come Jan Fabre.

Numerosi contemporanei, come Francesco Clemente, Giuseppe Maraniello, la giovane Juul Krajier, fanno della figura onirica il fondamento della loro poetica. Ma se il sogno esprime profonde verità sul soggetto che lo produce, l'umano-animale diventa anche il luogo in cui riconquistare la realtà. E' quello che fanno altri autori, come Beuys, Gina Pane, Marina Abramovic, Ana Mendieta, che nell'ambito della performance si sono fisicamente cimentati in una vera e propria prossimità con l'animale, in un contatto corporale che mette in questione radicalmente l'identità del soggetto civilizzato.
E lo fanno quegli artisti che scelgono l'uomo-animale come metafora, per esprimere una loro opinione sul mondo, per fare critica sociale o apologia morale, come nel "Caprichos" di Goya o nei polittici fotografici di Jane Alexander, e nella pittura di Moreau, dove il Centauro diventa l'educatore di Achille, quintessenza dell'umanità eroica

E' però con le immagini che richiamano la fiaba, il carnevale, il comico e il grottesco che si chiude la mostra: la volontà di sdrammatizzare il dualismo umano-animale che è in noi. Ecco allora lo sposalizio di Chagall e quello di Savinio (fra donne e capre, o fra gallinacei?) i travestimenti umani a cui è sottoposto il cane di William Wegman, le maschere di Cindy Sherman, i travestimenti di Luigi Ontani, lo spirito sempre dissacrante di Maurizio Cattelan.

Direzione Scientifica: Gabriella Belli
Comitato scientifico: Gabriella Belli, Gian Piero Brunetta, Giorgio Celli, Renato Mazzolini, Giuseppe Olmi, Pierangelo Schiera, Lea Vergine, Giorgio Verzotti.
Coordinamento di: Beatrice Avanzi ed Elisabetta Barisoni
Collaborazione di Francesca Giacomelli per Lea Vergine

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Ceramica sovietica. Fondo Sandretti del '900 russo

A cura di: Lidija Andreeva

"Ceramica sovietica" presenta il frutto di un'accurata opera di catalogazione scientifica del prezioso fondo di oltre 500 pezzi di ceramica, facente parte della collezione Sandretti, in deposito al Mart a partire dal 2004. La mostra sarà illustrata da un ricco catalogo documentario, curato da Lidija Andreeva, una delle massime studiose russe dell'argomento. Il nucleo dell'esposizione è costituito dalla selezione di ceramiche: suppellettili, servizi da tè, piatti, zuccheriere, organizzate in un percorso tematico che mostra una selezione degli esiti recenti di una tecnica che in Russia ha una tradizione secolare di qualità artistica. La parte più significativa di questa collezione, che Alberto Sandretti iniziò negli anni sessanta, riguarda la porcellana degli anni dal 1917 alla metà degli anni venti. Ma il profilo di Sandretti, "mecenate sensibile al pulsare del tempo" (Lidija Andreeva), fa sì che questa collezione mostri un percorso che, con consequenzialità, rispecchia tutta la storia dell'epoca sovietica, partendo dalle celebrazioni della Rivoluzione d'ottobre, passando per il piatto dedicato a Jurij Gagarin, primo cosmonauta, per concludersi con la tazza con la scritta Perestroika. L'allestimento a cura dell'architetto Giovanni Marzari presenterà, a margine, anche una serie di altre opere, che aiuteranno il visitatore a contestualizzare le ceramiche: una ricca serie di manifesti propagandistici, libri futuristi, grafiche e disegni. Tutti questi materiali costituiscono una vera curiosità per il pubblico italiano, che raramente ha potuto ammirare un nucleo così interessante di manufatti e poster della Russia socialista. Molti gli artisti importanti; in particolare si potranno ammirare le porcellane di Sergej Cechonin e Natan Al'tman, artisti a tutto tondo, ma noti soprattutto come decoratori. Loro sono le opere realizzate nel 1918 per il festeggiamento del primo anniversario della Rivoluzione d'ottobre.
Proprio di Cechonin è uno dei primi piatti della porcellana sovietica, eseguito il 25 ottobre 1918, nel quale lo stemma della repubblica, falce e martello dorati su sfondo nero, è circondato da una ghirlanda di fiori. Sempre di Cechonin è lo straordinario piatto SSSR decorato alla manifattura "Komintern" di Volchov (Novgorod), che rappresenta una delle rarità della collezione Sandretti.
Dopo gli anni della rottura con i linguaggi precedenti, necessaria per celebrare gli ideali rivoluzionari, in Unione Sovietica alla metà degli anni venti ci fu un recupero della decorazione di stampo tradizionale. Recupero che si collega a un'ondata realistica in pittura, che in verità impegnò tutte le dittature europee del tempo, con carature diverse, compreso fascimo e nazionalismo. In mostra saranno visibili le opere che, in pieno regime sovietico, proseguono la tradizione delle porcellane decorate con temi ornamentali e floreali, tradizione che è sopravvissuta - scrive Lidija Andreeva nell'introduzione al catalogo - "alla pressione ideologica e alle difficoltà quotidiane". Ma "Ceramica sovietica" mostrerà anche le opere decorative di artisti di primissimo piano quali Vasilij Kandinskij, e Kazimir Malevic. Se la porcellana di propaganda era parte del tema "arte e rivoluzione", la porcellana dei suprematisti, che con questo materiale continuavano il proprio lavoro pittorico e grafico, era "la rivoluzione nell'arte". Le produzioni in porcellana realizzate da schizzi di Malevic sono state studiate a fondo. Tuttavia la Teiera suprematista e le tazzine da lui create basandosi sul principio del contrasto cubista e dell'economia delle forme stupiscono ancora per la loro paradossale logica ed armonia. Saranno esposti anche i lavori degli allievi e continuatori dell'opera di Malevic, Suetin e Casnik, che cominciarono a lavorare con la porcellana alla fine del 1922.
I suprematisti erano attratti dalla porcellana a causa della loro idea della "fine della pittura da cavalletto". La porcellana sembrava il materiale ideale: la sua bianchezza assumeva nel loro sistema di pensiero un'esistenza sostanziale. Il significato universale di "bianco" e "nero" trasferiva sul piano ontologico il problema del colore: il bianco assumeva un significato assoluto e indicava l'ideale di un mezzo infinitamente aperto alla creatività; in esso si fondevano luce e spazio, si ricreava l'infinito. La porcellana - liscia, lucida, che dà un'illusione di profondità - era percepita dai suprematisti come materiale senza peso e consistenza, sulla cui superficie le costruzioni suprematiste si libravano liberamente come corpi privi di peso nello spazio. E proprio nello spazio che si crea fra le masse plastiche, bianche e colorate, risiede la sostanza del pensiero suprematista.
Se lo scopo dei suprematisti era quello di rappresentare il senso della nuova realtà sotto forma di rapporti tesi fra il "cosmo" bianco della porcellana e le superfici geometriche colorate, i motivi astratti di Kandinskij, spontanei, imprevedibili, indipendenti, si adattavano bene alle tradizionali tecniche di decoro su porcellana senza entrare in contrasto con la forma, ma disponendosi "a macchia", sul bordo o uniformemente su tutta la superficie del piatto.
La piccola sezione "I ceramisti ricordano Lenin" chiude la parte dedicata alla porcellana del periodo rivoluzionario. Assieme a lavori di artisti noti (come la placca con il ritratto e il calamaio con il busto di Lenin di Natal'ja Dan'ko, le tazze con i ritratti di Lenin realizzati a Dul?vo da Cechonin, i busti di Lenin di Matvej Manizer e Nikolaj Tomskij), verranno presentati un piatto magnificamente decorato da I. Kon'kov della manifattura di Dul?vo ed uno con il Ritratto di Lenin eseguito da un anonimo decoratore della manifattura di Buda. L'apoteosi della memorialistica leniniana è rappresentata da un vaso di M. Lebedeva, realizzato nel 1929. Seguono le sezioni Il nuovo eroe: il lavoratore, Armata rossa e Flotta rossa. La difesa dei confini, per le quali occorre ricordare le bellissime sculture di Ol'ga Manujlova, Aleksandr Matveev e Natal'ja Dan'ko, le figure in porcellana e biscuit dei primi anni trenta della manifattura di Dmitrov i cui autori hanno da poco un nome. Nel 1935 fu inaugurato il primo metrò di Mosca, fu dato impulso allo sviluppo dell'aviazione ed ai suoi eroi che stabilivano alcuni record mondiali, fra i quali il primo volo senza scalo Mosca-Polo Nord-San Giacinto (USA), si avviò l'esplorazione dell'Artide attorno al Polo nord (1937-1938), fu costruito il canale Mosca-Volga (1932-1937) ed inaugurata la Fiera pansovietica dell'agricolura (1939). Tutti questi eventi sono raffigurati sugli oggetti in porcellana della collezione.
Non trovarono invece adeguata rappresentazione sulla porcellana gli eventi della Seconda Guerra Mondiale: la porcellana si rivelò sensibile a temi creativi ed al silenzioso lavorio della vita piuttosto che agli eventi tragici.
La parte finale dell'esposizione dimostra che la porcellana riconferma la propria attualità, la sua vitalità ed il suo posto nella cultura artistica anche negli anni più recenti. Gli artisti contemporanei collezionati da Sandretti sono diversi per età, formazione e addirittura per professione, e sono riuniti nel termine "non-conformisti". Negli anni novanta si sono cimentati tutti con la porcellana. Un sintomo interessante: il periodo di radicalismo artistico per questa generazione si è probabilmente concluso; essi hanno quindi voluto tradurre nel linguaggio più accessibile della porcellana, fissandoli in piccole serie, quei temi e quelle figure che prima si dislocavano fuori dai confini della porcellana stessa. Le decorazioni sono in genere eseguite dai maestri decoratori delle manifatture secondo gli schizzi dei pittori. In essi la forma circolare dei piatti e il colore, proprio come nei rivoluzionari degli anni venti, sono sentiti più profondamente del materiale. Il bianco della spazialità della porcellana si respira in Francisco Infante, che fino ad allora stendeva sulla neve composizioni ispirate alla pittura suprematista di Malevic nella manifattura di Dul?vo. Il catalogo della mostra, edito da Palace Editions, costituirà una vera e propria rarità bibliografica, essendo uno dei pochissimi libri scientifici disponibili sul mercato europeo dedicati a questo singolare genere di opere.

Per ogni manifattura (con questo termine sono note le fabbriche di porcellane) Lidija Andreeva ha ricostruito un'analisi dettagliata, comprendente quella del marchio. I marchi, prima del 1917, recavano una sigla con il monogramma dell'imperatore regnante. In epoca sovietica sono stati cancellati molti di questi marchi, rendendo così difficile la datazione delle porcellane. Nel catalogo Lidija Andreeva ha ricostruito puntualmente l'attribuzione dei marchi cancellati, fornendo così uno strumento di analisi scientifica imprescindibile per la storia artistica della porcellana russa.

Direzione scientifica di Gabriella Belli
Coordinamento di Nicoletta Boschiero

Fino al 13 febbraio 2005

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Mimmo Jodice dalla Collezione Cotroneo

Mimmo Jodice è oggi considerato uno dei più prestigiosi maestri italiani della fotografia, capace di esprimere valori estetici ben al di là di quelli meramente documentari, tradizionalmente assegnati al mezzo fotografico.

Di questo originale artista il Mart di Rovereto espone, dall'11 dicembre 2004 al 13 febbraio 2005, due gruppi di lavori fotografici ascrivibili alla sua piena "maturità", capaci di esprimere al meglio la sua personale estetica: "Eden" (1994 -1998) e "Isolario Mediterraneo" (1998 - 2004), quest'ultimo presentato al pubblico per la prima volta, entrambi provenienti dalla collezione d'arte di Anna Rosa e Giovanni Cotroneo attualmente in deposito al Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto. Realizzate al culmine di una ricerca, che ha posto Jodice fra i massimi esponenti della fotografia europea, le due opere (complessivamente 112 fotografie) sono tra loro in un rapporto di complementarità per la diversità degli oggetti d'indagine, pur presentando un linguaggio simile, perché unica e coerente è la predisposizione dell'artista. Le fotografie di Jodice sono quasi sempre di formato quadrato e sempre in bianco e nero; quelle esposte a Rovereto - nella mostra curata da Giorgio Verzotti - mostrano paesaggi ed elementi naturali, reperti archeologici, oggetti comuni, materie organiche, e mai presenze umane, se non per via di qualche "resto" insignificante. "La fotografia per Jodice - scrive Verzotti nel catalogo Skira - è uno strumento atto non a registrare i fenomeni della realtà ma a trascenderli in nome di un continuo, inesausto confronto con l'assoluto. Le sue opere recenti esprimono questa profonda istanza con la semplice, disarmante chiarezza propria dei grandi, che l'hanno conquistata con anni di ricerca ansiosa".

Fin dai suoi primi approcci, dalla metà degli anni sessanta, Jodice vede infatti nella fotografia un linguaggio da mettere alla prova, un oggetto di sperimentazione. La sua ricerca irrequieta s'identifica ampiamente con una interrogazione che pone il mezzo tecnico a metà strada fra la realtà, intesa come la dimensione esteriore in cui si opera, e il linguaggio, inteso come la dimensione interiore, le "voci di dentro" che vogliono emergere alla consapevolezza. L'opera avviene quando avviene questa corrispondenza. Il suo percorso artistico nasce a Napoli sua città natale. Durante gli anni sessanta il fotografo conduce anche ricerche di tipo antropologico su molti temi, affrontando problematiche sociali stringenti: tuttavia la sua fotografia non si colloca nel quadro del reportage tradizionale. L'attenzione di Jodice si rivolge più allo scenario che all'azione, più alla maschera e al gesto che all'evento, puntando soprattutto a organizzare il campo visivo e a studiare il valore simbolico della luce e degli spazi nei quali si muovono le figure.

Dal 1978 nelle fotografie di Jodice scompare la presenza umana: resta soltanto la città vuota come metafisico contenitore.

Le immagini di "Eden" nascono come volontà di rivitalizzare il genere della natura morta, tema certo poco frequentato nell'arte contemporanea e non molto neppure in fotografia. Jodice risolve questa nuova sfida assumendola come un confronto non con la tradizione pittorica, dalla quale si allontana radicalmente, ma con una discesa nell'universo delle merci, nella dimensione quotidiana, proprio ciò che fino a questo momento aveva accuratamente evitato di incontrare. "Si tratta di merci - scrive Verzotti - non di oggetti e di elementi naturali: questo quotidiano non è innocente né edificante. L'artista vaga per la città in una sorta di nuova crudele flanerie e ferma con la fotografia gli oggetti esposti nelle vetrine, appunto le merci che conformano la quotidianità". Anche qui, come in precedenti lavori, il procedimento di "muovere" l'immagine, di sfocarne i contorni, resi imprecisi anche dai riflessi delle vetrine dietro cui sono posti, infonde all'inanimato un'intensità strana, estranea, che intensifica il senso di allarme di cui sono già abbondantemente circonfusi. "Se Jodice torna momentaneamente al mondo degli oggetti, all'universo della contingenza, è per cogliervi segni di morte, e per esprimere un suo giudizio morale sull'aggressività, quando non sulla violenza che connatura i rapporti fra noi e le cose".

"Isolario Mediterraneo" rappresenta lo scarto più radicale, l'allontanamento estremo rispetto alla produzione precedente e un'impegnativa posta in gioco per il fotografo. Si tratta infatti di cogliere con le immagini ciò che, di solito, nessuna immagine può contenere, perché la eccede: il vuoto, l'infinito, l'assoluto. In questo ciclo di paesaggi marini solo lo spazio, il cosmo, il limite infinito tra mare e cielo fanno da sfondo ad un dialogo che è solo interiore.

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Mario Rizzi

Artista ormai apprezzato e affermato a livello internazionale nel suo prestigioso curriculum Rizzi vanta partecipazioni alle biennali di Praga, Tirana e Sydney, un invito al Printemps de Septembre ed al Fresnoy, residenze d'artista alla Cité Internationale des Arts ed all'Amsterdams Fonds voor de Kunst, mostre al P.S.1, al Center for the Visual Art di Gerusalemme, all'Helsinki City Art Museum, alla Galerie Diana Stigter di Amsterdam, al Centraal Museum di Utrecht, oltre alla realizzazione di due progetti a Berlino, alla Künstlerhaus Bethanien e nella S-Bahn Nordbahnhof.

Ultima in ordine di tempo la sua partecipazione - unico italiano invitato - alla Biennale di Sidney, ove ha presentato proprio questa affascinante installazione sonora, coprodotta dal Mart di Rovereto.

Lo sradicamento è il principio fondante del lavoro di Mario Rizzi: la sua condizione di eterno viaggiatore in perenne partenza, in continuo transito. La mancanza di radici rende l'artista libero di ricercare nei luoghi che incontra stimoli e suggestioni, nelle relazioni antropologiche e culturali che riesce a sondare; d'altro canto la precarietà, il senso del limite e il sentimento attanagliante di nostalgia - per la mancanza di "una comunità di riferimento" e di un rifugio sicuro - emergono evidenti in tutti i suoi lavori, ricercando storie e persone "moralmente" nella sua stessa condizione e dunque spesso realtà di "diversità " e di "emarginazione". La sua opera nasce dall'incontro con gli altri, dalla relazione tra i suo occhio esterno, il suo fare d'artista, e la realtà medesima, ovvero dai continui interscambi tra chi ha pensato il progetto e la sua estensione.

"Il sofà di Jung" è la storia di una relazione, di una passione, ma è anche lo specchio della passione di chi guarda e interagisce con l'ìnstallazione che avvolge i visitatori attraverso vibrazioni e suoni.

Di primo acchito sembrano mobili di un alloggio d'epoca quelli collocati da Rizzi: moquette e pareti in tono, mobili di modernariato; ma se si ascolta attentamente si percepiscono voci che bisbigliano nell'aria.

In realtà il lavoro di Rizzi rievoca il famoso studio psichiatrico di Carl Jung e in particolare ricorda il rapporto tra Sabina Spielrein - ebrea russa, che a diciannove anni venne ricoverata a Zurigo nella clinica di Jung, affetta da un grave forma di isteria - e il grande psichiatra Ad ispirare Rizzi sono stati soprattutto i diari di Sabine, alcuni dei quali rinvenuti a Zurigo solo nel 1977: fino ad allora poco si sapeva della donna alla quale Jung diagnosticò l'isteria psicotica e che, guarita, si dedicò alla medicina divenendo analista e psicologa infantile. Sabine, uccisa dai nazisti nel 1942, corrispose lungamente con Jung e con il suo maestro Sigmund Freud e influenzò notevolmente il dibattito psicoanalitico di quegli anni.


Immagine: Matthew Barney, Cremaster5

Uffici stampa:
Luca Melchionna - Mart 0464 454127

MART, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto
corso Bettini 43, Rovereto (TN)

Orari:
martedì, mercoledì, giovedì, sabato e domenica 10:00 - 18:00 venerdì 10:00 - 21:00 Chiuso il lunedì

Ingresso:
Intero: 8 Euro Ridotto: 5 Euro
Ridotto scolaresche: 1 euro a studente

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