Attraversare le contingenze allargando le prospettive

22/11/2013
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Adrian Paci


Ha stretto la mano a 700 persone, ha fatto cantare la sua morte, rivendica la ricchezza d'esperienze e cultura albanesi, nel suo lavoro cerca "la componente emotiva senza però cadere nel sentimentalismo". E' Adrian Paci, che qui si racconta...



Adrian Paci, Britma, 2009. Video 5’18’’. Courtesy dell’artista e di kaufmann repetto, Milano




Adrian Paci, Vite in Transito. Particolare della mostra al PAC, Milano. Foto di Barbara Fässler




Adrian Paci, The column, 2013. Video, 25’40’’. Curtesy dell’artista e di kaufmann repetto, Milano




Adrian Paci, Secondo Pasolini (Decameron), dettaglio, 2006. 12 gouaches su carta montate su tela, cm 38 x 70 cad. Courtesy dell’artista e di kaufmann repetto, Milano




Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea, 2007. Video, 5’30’'. Courtesy dell’artista e di kaufmann repetto, Milano




Adrian Paci, Vite in Transito. Particolare della mostra al PAC, Milano. Foto di Barbara Fässler




Adrian Paci, The encounter, 2011. Video, 22’. Courtesy dell’artista e di kaufmann repetto, Milano




Adrian Paci, Albanian Stories, 1997. Video, 7'. Particolare della mostra al PAC, Milano. Foto di Barbara Fässler




Adrian Paci, The column, 2013. Video, 25’40’’. Courtesy dell’artista e di kaufmann repetto, Milano




Adrian Paci, Facade, 2007. Tempera, intonaco, cemento, mattoni, legno, cm 250 x 300 x 250 cad. Courtesy dell’artista e di kaufmann repetto, Milano




Adrian Paci, Vite in Transito. Veduta della mostra al PAC, Milano. Foto © Dimitri Rosi




Adrian Paci, Vite in Transito. Veduta della mostra al PAC, Milano. Foto © Dimitri Rosi




Adrian Paci, Vite in Transito. Veduta della mostra al PAC, Milano. Foto © Dimitri Rosi




Adrian Paci, It was not a performance, 2008. 2 fotografie




Adrian Paci, Vite in Transito. Veduta della mostra al PAC, Milano. Foto di Barbara Fässler




Adrian Paci, Passages, 2009. Acrilico e acquarelli su intonaco e terracotta, cm 30 x 20 x 20. Collezione privata, courtesy dell’artista e di kaufmann repetto, Milano




"Non possiamo immaginare un mondo, dove i capitali viaggiano liberamente, ma dove le persone stiano bloccate”

Intervista di Barbara Fässler

Prendendo spunto dalla mostra itinerante “Vite in Transito”, che vede come tappe il “Jeu de Paume” a Parigi, attualmente il PAC di Milano e nel 2014 Montreal, Göteborg e la Norvegia, questo dialogo con l’artista albanese Adrian Paci interroga la sua pratica e le sue opere, riflettendo i passaggi dei vari stadi della sua vita e del suo lavoro.
Tema centrale dell’intervista nonché dell’opera di Paci e delle sue mostre, è il fenomeno della migrazione, le cui tragedie tristemente continuano ad occupare le prime pagine dei giornali. Paci racconta i nessi tra la sua vita e la sua arte, rivelando i suoi metodi e i suoi atteggiamenti verso le potenzialità delle storie che gli vengono raccontate casualmente e che sa cogliere e tradurre in tutta la loro ricchezza.

Osservando lo sviluppo del tuo lavoro, si nota un'evoluzione che a partire da spunti autobiografici porta il tema della migrazione verso un principio più universale attraverso metafore forti.
Questo sviluppo si mostra anche a livello formale: le immagini diventano più pulite, più chiare, più decise e la qualità tecnica dei video migliora costantemente. Come vedi lo sviluppo dei tuoi lavori?


Visto così sembra che ci sia un passaggio da una situazione meno incisiva a una più incisiva. Io invece ho un'altra visione. Ovviamente ci sono dei lavori che hanno un'intimità diversa e hanno anche da un punto di vista tecnico una complessità differente rispetto alle opere più recenti.
Però non mi sembra che il passaggio sia quello da una pura autobiografia verso uno sviluppo universale o una maggiore costruzione formale. Se prendiamo i primi lavori che nella mostra al Pac sono all'ingresso, nessuno dei tre video "A Real Game", "Piktori" oppure "Believe me I am an artist", nasce da un'intenzione autobiografica, nonostante tutti coinvolgano la mia persona.
Dietro "A Real Game" si nasconde il tema di come il gioco e la finzione entrino in relazione nel raccontare un'esperienza. "Piktori" si pone il problema di come il linguaggio dell'arte venga ricodificato e reinterpretato in contesti diversi. "Believe me I am an artist", invece, s'interroga sulla definizione di arte e artista fuori dal contesto che lo riconosce come tale.
Da un punto di vista formale quei lavori non potevano essere diversi. Per esempio "Albanian Stories" o "A Real Game", se io fossi stato in uno studio con una Redcam davanti a mia figlia con delle lampade puntate non sarei riuscito a creare l'atmosfera intima che era indispensabile.

Nelle prime opere si nota una potente affettività, l'estetica è impregnata di una realtà albanese molto povera da cui emana una fortissima malinconia, inoltre le immagini rimandano ad altri luoghi e altri tempi.
Questa tristezza è soprattutto percettibile nella seconda sala della mostra al PAC, nei video "Vajtoica", dove la cantilena struggente di una signora velata piange la tua morte fittizia; oppure nella videoinstallazione "The last Gestures", in cui gesti e carezze acquisiscono peso metafisico per via dei tempi rallentati.
Il video "The Encounter", invece, è più distaccato: il setting è studiatissimo e messo in scena in un disegno perfettamente geometrico.
Le 700 persone che sono venute a darti la mano nella piazza davanti alla Basilica di Scicli in Sicilia, si muovono in un semicerchio quasi perfetto che va dall'angolo destro a quello sinistro dell'immagine, in un flusso di passi continuo.
Quale ruolo gioca l'affettività nella tua arte? Hai un modo diverso di gestirla nei lavori più recenti?


L'affettività e la distanza sono presenze costanti nel mio lavoro. Nel video "Vajtojca" la donna lamenta la mia morte con una voce molto profonda, però si tratta ovviamente di una finzione, di una costruzione.
Quindi tutta questa pesantezza è alleggerita dal fatto che si sa che non è vero e che tutto si risolve con una musica allegra da Happy End. Così come "The last Gestures", è sì un'opera carica di affettività, ma in realtà siamo all'interno di un rito e ogni rito contiene qualcosa di teatrale. Le persone si mettono in posa davanti alla videocamera, perciò anche lì c'è una forte carica emotiva, ma c'è allo stesso tempo una specie di raffreddamento dovuto alla finzione del rito.

C'è sempre anche una meta-riflessione sulla narratività stessa, sulla finzione, su come noi vediamo la realtà e come ce la raccontiamo.

Così come in "The Encounter" io ho voluto quell'inquadratura dall'alto, ho voluto quell'ingresso, quella uscita, quel semicerchio, quella scenografia con quei palazzi siciliani.

Sì, bellissima...

Nonostante la messa in scena, ho realmente stretto la mano a 700 persone. Perciò, anche se il video si presenta con un aspetto più distaccato, c'è nel lavoro, come anche nell’esperienza reale, una presenza affettiva innegabile.
Sono molto d'accordo con Deleuze quando dice che l'arte opera attraverso l'affetto e il percetto e non attraverso il concetto, che è una categoria filosofica. Cerco nel mio lavoro di coinvolgere l’aspetto affettivo, senza però cadere nel sentimentalismo.

Partito da uno dei paesi più poveri dell’Europa, l’Albania, giungi in Italia dopo il crollo del sistema sovietico con una borsa di studio della Chiesa Cattolica, appartieni infatti ad una minoranza cattolica, e inizi davvero dal gradino più “basso” che c’è: quello umiliante dell’immigrato che deve fare la coda per ottenere la carta di soggiorno.
Dopo i primi passi in centri sperimentali come “Isola Art Center”, sei oggi un artista più che affermato ed esponi in istituzioni importanti e gallerie potenti. Già solo a livello estetico, i due mondi non potrebbero contrastare di più: muri scrostati e vestiti stracciati (nei video) e muri bianchi e vesti eleganti dei visitatori (nello spazio espositivo).
Come vivi personalmente queste situazioni? Come dialettica o come contraddizione? Come uno sviluppo naturale delle situazione? Oppure pragmaticamente come condizione necessaria per mantenere la possibilità di andare avanti a lavorare?


Bisogna fare un po' di chiarezza. Ho notato che in tutte le domande si vuole vedere il mio lavoro come passaggio da una situazione verso un'altra, io invece lo vedo in maniera più complessa.
Una cosa che tengo a dire, su questa idea legata al tema della mostra "Vite in Transito", è che alla fine, in questo transito, ciò che m'interessa, è quello che rimane, non il cambiamento di per sé.
Il cambiamento è una condizione dell'essere. Quindi la domanda che mi pongo è: malgrado il cambiamento, che cosa rimane?
Così è vero che io vengo dall'Albania, uno dei paesi più poveri dell'Europa, però non vengo da una situazione disperata, bensì avevo frequentato un liceo artistico, ed era considerato un vero lusso, avevo studiato l'arte classica e rinascimentale.
Da bambino copiavo Leonardo da Vinci e guardavo libri di Tiziano, ho studiato le lingue e quando sono arrivato in Italia parlavo già l'italiano e l'inglese. Tutto ciò per dire che non sono partito da una situazione disperata per arrivare poi al bagliore del successo.
Ero circondato dall'arte anche quando vivevo in Albania, e ho voluto continuare la mia strada, la mia ricerca artistica. Così come è vero che c'è stato un momento nella mia vita in Italia nel quale sono stato un immigrato. Ma anche lì è stata, come dire, una situazione forse umile, ma non umiliante.
Un immigrato è uno che si muove da un paese all'altro, tuttavia uno può essere un immigrato disperato come no. Inoltre ho sempre avuto una casa e del lavoro. Non sono mai stato un immigrato umiliato, anche se ho fatto le mie file per il permesso di soggiorno...

Le ho fatte anch'io...

Non è piacevole, lo sappiamo. Non voglio puntare sulla storia dell'albanese povero che arriva nella terra promessa...

Sì, come schema ha qualcosa di Hollywoodiano.

Anche riguardo i miei primi passi con "Isola Art Center", le cose in realtà sono più complesse: quando ho partecipato al movimento dell'Isola a Milano, avevo già fatto una personale in un grande Museo in Svezia, avevo già partecipato alla Biennale di Venezia e a Manifesta.
Cioè, avevo già cominciato a fare le mie mostre e malgrado ciò ho partecipato molto volentieri all'”Isola Art Center”, come oggi posso partecipare, anche dopo la mostra al PAC, a un’esposizione organizzata dagli studenti in un posto poco famoso, perché mi sembra interessante la situazione.
Non sono mai stato disperatamente alla ricerca del successo e non ho mai vissuto questa situazione in maniera contraddittoria: ecco il povero artista albanese che inizia nei centri sperimentali per approdare nelle grandi istituzioni!
Non lo vivo come contraddizione ma come sviluppo. Non m'interessava né di rimanere in una realtà marginale ne tantomeno di entrare per forza nel centro del mondo dell'arte.
Mi preoccupo di fare delle cose e di dare visibilità al mio lavoro, perché così posso metterlo anche un po' alla prova, no?

Certo.

E adesso la mostra al PAC la vedranno decine di migliaia di persone, e questo vuol dire non soltanto incontrare il successo, ma anche fare i conti con la critica, con la riflessione.
Questo sì m'interessa molto. Così come, ovviamente, non sono una persona che cerca una vita faticosa, no, cerco una vita comoda. Perciò quando i risultati arrivano, anche dal punto di vista economico, la cosa non mi dispiace.
Contraddizione sarebbe se io avessi rinnegato qualcosa del mio passato. Quando parliamo dell'Albania come paese povero, intendiamo una povertà economica, ma questo non esclude che possa essere un paese ricco di esperienze, giusto?

Certo e quello che si sente trasparire nei tuoi lavori.

Io questa ricchezza la rivendico. Così come anche la cultura che io ho ricevuto in Albania: la cultura popolare, ma anche quella classica, le lingue che ho imparato, gli artisti che ho conosciuto.
Tutto quello che fa parte del mio passato, anche se adesso vivo un'altra realtà. Non la vedo come contraddizione, ma come un passaggio.

Il tema della migrazione attraversa il tuo lavoro come un filo rosso.
Mentre nel video “Albanian Stories” è tua figlia di tre anni a raccontare delle fiabe amalgamate con ricordi di situazioni di guerra in Albania e quindi ad elaborare i traumi del suo trasferimento forzato, nel video “Centro di Permanenza Temporaneo” il principio della migrazione si fa più astratto per diventare quasi una caricatura in un’immagine potente.
Le “persone con sfondo migratorio”, “MmM’s” come li chiamano in Germania, salgono una scala sulla pista di un aeroporto.
Soltanto quando tutti sono saliti sulla costruzione metallica, la telecamera si ritira e ci rendiamo conto che l’aereo, dove pensavamo la scala portasse, non c’è. Al suo posto si trova il nulla, l’abisso.
Questo video ci ricorda dolorosamente i due gravissimi incidenti sui gommoni avvenuti ieri e la settimana scorsa nelle vicinanze di Lampedusa e ci rammenta che migrare è quasi sempre legato ad enormi rischi, sacrifici e perdite: spesso chi imbocca questa via non ha nessuna altra scelta. Si spera che queste tragedie smuovano qualcosa e scuotano le coscienze in Italia e in Europa.
Il parlamento Europeo finalmente discute aiuti pratici e sostanziali agli immigrati e gli Stati coinvolti e il Senato a Roma dibatte sulla legge Bossi-Fini e sull'abolizione del reato di “Stato di clandestinità”.
Nei tuoi video recenti il tema della migrazione prende delle forme più estetiche, se non addirittura simboliche. Come vedi oggi la realtà della migrazione rispetto a un mondo in cui le città sono sempre più multiculturali, abitate da individui che parlano più lingue e che hanno vissuto in paesi con culture diverse, qual è il tuo pensiero e la tua posizione?


L'immigrazione, più che un tema dei miei lavori è stata una mia esperienza.
È stata una condizione nella quale mi sono trovato. La decisione come artista è stata quella di includerla o escluderla dal mio lavoro.
Io ho deciso di includerla, ma sfruttando le sue potenzialità. Non ho affrontato la problematica come uno studioso, ma mi sono posto come un artista che cerca di riflettere sulla propria esperienza e su quella delle persone che vede attorno a se cercando di consevarne tutta la sua complessità.
Un'esperienza non è mai univoca, è sempre articolata. Ho quindi cercato di farla diventare un punto di partenza, di riflessione per il lavoro.
Nel video "Centro di Permanenza Temporaneo" si parla di questo essere in transito, nella zona che rappresenta la soglia. Il luogo di transito qui, diventa paradossalmente il luogo dove stare.

Esatto.

Evidentemente, dal punto di vista dell'immagine, questo lavoro ha una grande forza, perché contiene la memoria di queste navi piene di persone, una realtà che mi appartiene. L’immigrazione è un tema molto forte del nostro tempo.
Non possiamo immaginare un mondo, dove i capitali viaggiano liberamente, ma dove le persone rimangono bloccate. Così come non possiamo immaginare un mondo dove soltanto i potenti sono liberi di andare dove vogliono mentre i poveri sono costretti a rimanere chiusi.
L'immigrazione non può essere gestita pacificamente in un'armonia perfetta, dove tutti sono contenti e felici.
L'immigrazione nasce da una contraddizione e porta a nuove contraddizioni. La politica deve gestirle ma non può cancellarle. E la cultura deve fare la sua parte, per aprire le menti, la visione e la sensibilità delle persone, ma ovviamente non può risolvere il problema.
Perciò quando poi ci troviamo di fronte a degli eventi tragici, come gli ultimi a Lampedusa, bisogna soltanto fare un po' di silenzio e stare zitti...

Infatti...

Un fatto così forte, alla fine, cosa vuoi dire? Con le opportunità comunicative del mondo di oggi, non si può negare la possibilità del viaggio fisico alle persone.
Però lo spostamento fisico porta a delle contraddizioni che una politica illuminata può soltanto governare, non le può eliminare.
La questione multiculturale è un po' una conseguenza di tutto questo: le persone si muovono e portano con sé la loro cultura, il loro linguaggio, il loro modo di vivere. Io non sono neanche dell'idea che si tratti soltanto di un arricchimento.
Non si deve ridurre a "United colours of Benetton". È anche una realtà dove la diversità va gestita e dialogata, va affrontata con tutti i suoi conflitti. Quindi non si può evitare e soprattutto non si può forzare perchè si rischia che esploda e che diventi incontrollabile.

Il tuo ultimo lavoro video, “The Coloumn” del 2013 è nato appositamente per questa mostra itinerante e traspone la riflessione sui flussi migratori e sul “work in progress” ad un livello universale e metaforico.
Nel video si vede, con immagini e suoni di grande purezza, come un blocco di marmo intraprende un viaggio dalla Cina all’Europa, su una nave fabbrica dove cinque scultori cinesi lo intagliano e lo trasformano in una colonna classica con capitello corinzio.
Alla fine quindi in Europa arriva la copia cinese di un modello culturale antico europeo, ed il fatto che il tempo e lo spazio di produzione corrisponda al tempo e allo spazio del trasporto, sottolinea l’importanza dei processi di trasformazione. Il fatto poi che la colonna sia esposta sdraiata, pone un'altra questione: solo le colonne in via di elaborazione oppure quelle in rovina si mostrano sdraiate, una colonna “in funzione” è sempre alzata e ha il compito di portare qualcosa.
Un po’ come i cavalli che non si sdraiano mai, tranne quando stanno morendo... Come descrivi tu il senso di questa opera?


Prima dell'idea, in questo lavoro, c'è una storia. Qualcuno mi ha raccontato che ci sono delle navi fabbrica sulle quali si producono delle sculture in marmo.
Quello che a me interessa quando incontro una storia, un'immagine, è la sua potenzialità. Ho trovato molto potente l'idea di un modello antico che viaggia in oriente e che ritorna in occidente attraverso questo viaggio così fisico degli scultori cinesi sulla nave che attraversa l'oceano.
Così come mi ha colpito la compresenza, da una parte, della bellezza di un artefatto, di un modello classico e dall’altra, della dinamica del mondo di oggi con le sue contraddizioni politiche, con lo sfruttamento del lavoro, e oggi la Cina è uno dei paesi protagonisti delle logiche del mondo globale.
Ecco, quando dentro una storia ci sono tutte queste potenzialità, io mi attivo per fare qualcosa. Allora, questo lavoro nasce per indagare queste possibilità e non sarà un messaggio e basta, un significato e basta, ma conterrà tutte le potenzialità che io ho trovato all'inizio nella storia.

E la colonna sdraiata?

Ecco sì, la colonna sdraiata, è un po' per sottolineare questo suo riposo, questo suo essere pronto per un altro viaggio, perché non ha ancora trovato la sua collocazione.
Ti viene quasi di accarezzarla, ti sembra addormentata. La trovavo più forte sdraiata che eretta. Strada facendo ho scoperto altri nessi.
Qualcuno mi raccontò della colonna che Costantino portò da Roma a Istanbul, oppure Mussolini che fece trasportare una colonna antica a Chicago per celebrare un pilota italiano.
L'idea della colonna che viaggia, non è soltanto nata nella mia testa. È come se ci fosse stato qualcosa già nella storia e nei fatti, anche a mia insaputa.

Le tue opere spaziano dall’acquarello alla pittura all’olio, dalla scultura con resina a quella di marmo, dal video amatoriale a quello HD. Il filo conduttore che lega i tuoi lavori tra di loro, non è mai puramente formale oppure esteriore, ma spesso da cercare in una preoccupazione profonda. Quali sono le tue prossime mosse?

(Ride..) Già dire quali sono le tue prossime mosse, dà per scontato che sotto ci sia una precisa strategia. Invece no, spero di avere uno sguardo attento e organico su ciò che mi circonda e tutto può avvenire in modo inaspettato.
Mi viene da dire che le prossime mosse sono quelle di continuare, mi sembra già tanto. Guarda, ovviamente c'è nel lavoro una dinamica interna. Da un lavoro nasce un altro lavoro.
Ma c'è sempre un'apertura verso delle storie che vivo, delle immagini che trovo e degli incontri che faccio. Perciò sono un po' anche quelli che determinano il mio lavoro.
Le "mosse" non le puoi prevedere. Sono situazioni che capitano, ti risvegliano qualcosa e diventano un punto di partenza per una nuova avventura.


Catalogo “Transit”: Mousse Publishing Milano, éditions du Jeu de Paume Paris, éditions du Musée d’art contemporain de Montréal, 2013


Maggiori informazioni sulla mostra Vite in transito di Adrian Paci

Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per le riviste d'arte contemporanea "Studija" di Riga e "Kunstbulletin" in Svizzera, insegna 'Arti visive' alle medie e al liceo della Scuola Svizzera di Milano.

Questo articolo sarà pubblicato anche sul prossimo numero della rivista Studija in inglese e lettone.


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