Attraversare le contingenze allargando le prospettive

18/11/2013
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Voglia di '68 ?


Questo testo vuole essere l’avvio di un dibattito e di una riflessione a più voci intorno ad un tema che sta “rimbalzando” anche in ambito artistico e che sembra tradire una sorta di “voglia di ‘68”.
Sono molti i segnali in tal senso che si esprimono nel ricorso a pratiche e modalità artistiche evocanti poetiche della fine degli anni ’60. Ma soprattutto è significativa la necessità diffusa, in particolare tra le generazioni più giovani, di riaffermare una centralità dell’impegno e della valenza politica del lavoro artistico.
Dopo anni di disimpegno, probabilmente la crisi di valori della nostra società impone necessariamente un ripensamento e di conseguenza una nuova capacità progettante.
Se dunque l’”impegno” sembra contraddistinguere il momento presente sorge un interrogativo, intorno al quale questo dibattito vuole svilupparsi domandandosi quanto questo “bisogno” possa sfuggire a velleità nostalgiche e inevitabilmente anacronistiche per costituire invece, per l’arte anzitutto, il presupposto di una nuova risposta qualificata sul piano etico.
La questione è complessa e naturalmente implica diversi argomenti specifici; scopo di questo dibattito è individuarne alcuni per cercare di affrontarli in una discussione collettiva.
Ermanno Cristini



Bruce Nauman, Self Portrait as a Fountain, 1966-67, from Eleven Color Photographs, 1970 © 2009 Bruce Nauman / Artists Rights Society (ARS), New York




Il famoso slogan del maggio '68, originariamente uno scherzo di Jean Yanne




Questa è la mia vita (Vivre sa vie: film en douze tableaux), 1962. Still del film scritto e diretto da Jean-Luc Godard




Jules et Jim, 1962. Still del film di François Truffaut




Oggetti in meno, 1965-1966. Studio di Pistoletto, Torino 1966. Foto: P. Bressano




Fabio Sargentini osserva i cavalli di Jannis Kounellis che entrano a L'attico (garage di via Beccaria), 14 gennaio 1969




L’ATTITUDINE DI NANA’

1962: Nanà, la protagonista di Questa è la mia vita (1) di Jean Luc Godard inizia a prostituirsi per caso e con la stessa innocenza si ritrova in un caffè a parlare di filosofia con uno sconosciuto, ponendosi domande sull’amore, sulla vita, sulla felicità.

1961: Catherine, la protagonista di Jules e Jim (2) di Truffaut si pone le stesse domande percorrendo una tragica ricerca del sé che scuote il modello su cui questi valori poggiano entro il terreno franoso del buon senso comune.
Godard, nella sua reinvenzione radicale del linguaggio cinematografico, quasi alla fine del film mostra una fila di persone davanti ad un locale cinematografico dove proiettano, appunto, il film di Truffaut.
Con questa citazione pressoché in tempo reale si chiude il cerchio di un approccio che contraddistingue un’intera stagione, da cui ormai ci separano cinquant’anni, e nella quale anzitutto è ripensato il ruolo dell’individuo in quanto definito nei suoi rapporti con l’altro.
E’ il senso dell’essere per l’altro il “sapore” del momento in cui culminano gli anni sessanta.
Una ricerca di riattribuzione di senso che non risparmia nulla della società; come si diceva allora: la sua struttura quanto la sua sovrastruttura, all’insegna di quelli che forse furono due dei più fortunati slogan del maggio francese: “Il est interdit d'interdire!” (Vietato vietare) e “Soyez réalistes, demandez l'impossible!” (Siate realisti, chiedete l’impossibile).

1962: L’opera d’arte si sgretola, come la narrazione di Godard, in un reticolo relazionale di cui Umberto Eco in Opera aperta (3) ci parla imponendoci una ridefinizione di quel triangolo che unisce l’autore, l’opera, il fruitore. E’ come se la figura di Catherine spuntasse in un menage a trois a segnare una crisi definitiva delle gerarchie e con esse l’inizio di un viaggio verso una ridefinizione in profondità dell’opera d’arte, emancipata dall’oggetto e proiettata a diventare processo, metafora della vita facendosi essa stessa vita: l’”attitudine” di cui più tardi parlerà Harald Szeemann.

Forse non è un caso che oggi qualcuno abbia sentito il bisogno di riproporre la famosa mostra di Szeemann a Berna, del 1969, When attitudes become form (4), che ha segnato un’epoca.
E, in fondo, quando l’attitudine diventa forma, in controluce traspaiono i discorsi di Nanà che, al di là dell’apparente vacuità, riguardano i valori fondativi dell’esistenza.
La mostra allestita a Venezia a Cà Correr della Regina dalla fondazione Prada, in occasione della 55° Biennale, che ripropone la mostra bernese del ’69, ci sbatte in faccia improvvisamente i “cinquant’anni fa”, e si può leggere come uno dei segnali forti di una contemporaneità alla ricerca di senso. Senso del fare come forma di un senso dell’essere, e viceversa; oggi questo sembra quasi accadere in arte prima ancora che nella dimensione culturale più generale.

L’identità arte-vita è certamente uno degli elementi portanti delle poetiche della fine degli anni sessanta: una ripresa della lezione duchampiana che abbandona totalmente l’idea di un fare artistico separato dalla vita.
Oggetti che, laddove ci sono, sono solo catalizzatori di processi vitali, strumenti di un fare che nel momento in cui celebra il protagonismo di materie inusuali, prive di dignità artistica, in pari tempo ne fa le parole di un discorso in cui prendono senso soprattutto gli spazi tra e sotto le parole.
E’ come se attraverso il grasso animale beuysiano si affermasse la Struttura assente (5) di Umberto Eco, che è anch’essa del 1968.
Quello che conta è “quello che non si vede”. Anche la materia da questo punto di vista assume nuove connotazioni e si fa tramite, con la sua tangibilità, di un’intangibilità, quella dell’energia che la costituisce.
Si assiste ad un processo marcato di riduzione, dove le materie dell’arte tendono sempre più a identificarsi con quelle primigenie: i materiali organici e il corpo anzitutto.

Alla mostra di Berna, Bruce Nauman presenta Self Portrait As A Fountain (6), del 1966. Si tratta di un autoritratto fotografico in cui Nauman sputa una striscia d’acqua dalla bocca a disegnare il getto di una fontana. Il riferimento all’arcinoto lavoro di Duchamp è evidente, a marcare la linea di continuità, ma quello che qui interessa soprattutto è che l’opera è fatta con il corpo dell’artista che si “exhibisce” non solo come corpo nudo ma attraverso il suo principale elemento costitutivo, in presenza di vita: l’acqua.
E’ una sorta di nudità al quadrato; una riduzione estrema della materia dell’opera che va a sovrapporsi alla “materia dell’artista”, colta addirittura nella sua “chimica” vitale.
Nello stesso anno, il 1966, Michelangelo Pistoletto realizza gli Oggetti in meno. Gli Oggetti in meno sono un tentativo di aderire alla contingenza entro una nozione fluida del tempo. Ma di conseguenza sono la risposta ad una necessità di riduzione del fare artistico ad una estrema“economia della necessità”.
Fuori dallo stile, gli Oggetti in meno praticano una “messa in forma” (7) in cui l’opera emancipandosi dall’oggetto si emancipa anche dalla costrizione a rappresentare. “A differenza dei quadri specchianti, le mie cose di oggi non rappresentano ma ‘sono’” (8), scrive Michelangelo Pistoletto. E così facendo, di nuovo, l’opera si identifica con la vita.

Nel 1969, tre anni dopo gli Oggetti in meno e un mese prima della mostra di Szeemann a Berna, Fabio Sargentini, a Roma, ospita nella nuova sede de L’Attico, un garage di Piazza Beccaria, i cavalli di Kounellis (9). La mostra sono i cavalli, vivi. Ancora, un’opera che è e che essendo ci parla della vita e della sua energia come senso ultimo delle cose.
Ma l’esperienza de L’Attico di Fabio Sargentini si chiuderà, quasi dieci anni più tardi, nel giugno del 1976, con l’allagamento de L’Attico (10). Ancora è l’acqua ad essere protagonista.
D’altra parte l’acqua è la condizione stessa della vita, è un archè, da cui com’è noto nasce, secondo Talete di Mileto, la filosofia, infatti: “Non l’uomo bensì l’acqua è la realtà delle cose.”

Da questo punto di vista, alla fine, i discorsi di Nanà in particolare “ci parlano dell’acqua” e così facendo magari ci suggeriscono che l’ombra lunga di “cinquant’anni fa”, anziché celebrare il ritorno dei fantasmi, può restituirci un’attenzione per gli archè, tale per cui il guardare indietro può costituire l’alimento di un nuovo guardare in avanti.
Si tratta di una sorta di sguardo “strabico” che naturalmente presuppone una disposizione a considerare che la presa nella contemporaneità, anche per l’arte come per il pensiero, è tanto più efficace quanto più sa nutrirsi di quello scostamento temporale che consente di guardare al presente senza affogare nell’attualità.
E tale scostamento, tra l’altro, oggi potrebbe garantire che la risposta alla necessità di rilevanza politica per l’arte non si collochi fuori da un rapporto di proporzionalità diretta alla qualità estetica.

Dunque, una domanda: si può ritrovare nell’”attitudine” il capo di un filo che la realtà ci impone sempre più di tirare? E può essere l’”attitudine”, proprio per la sua dimensione archetipica, il termine di confronto sulla via della forma entro una rifondazione del fare artistico in presa frontale con la realtà? E può questa presa per trovare valenza etica ed efficacia rifondativa cercare nella trasparenza della forma il senso dei discorsi di Nanà?

In altre parole è come interrogarsi sulla potenzialità euristica oggi dell’”eresia” che ha ispirato i “cinquant’anni fa”.

Ermanno Cristini

1) Jean Luc Godard, Vivre sa vie, 1962
2) François Truffaut, Jules et Jim, 1961
3) Umberto Eco, Opera aperta, Milano, 1962
4) When attitudes become form, a cura di Harald Szeemann, Kunsthalle Berna, 1969
5) Umberto Eco, La struttura assente, Milano, 1968
6) Bruce Nauman, Self-portrait As A Fountain, stampa fotografica su carta, 1966
7) Per il concetto di “messa in forma” cfr. Luigi Pareyson, Estetica.Teoria della formatività, Torino, 1954, da cui muove Umberto Eco per la sua elaborazione teorica successiva
8) Michelangelo Pistoletto, Oggetti in meno, 1966
9) Jannis Kounellis, Dodici cavalli, 1969
10) Massimo Barbero, Francesca Pola (a cura di), L’attico di Fabio Sargentini 1966-1978, Roma, 2010


Questo dibattito continua con l'intervento di Chiara Pergola, Alessandro Castiglioni e Jacopo Rinaldi, Francesca Mangion, Lorenzo Baldi, Andrea Nacciarriti


Ermanno Cristini, artista, è, con Alessandro Castiglioni, ideatore di Roaming, un progetto di ricerca che attualmente ha prodotto 21 mostre in musei e project spaces di altrettanti paesi europei, coinvolgendo oltre cento artisti di diverse nazionalità. I temi del confronto e della negoziazione sono alla radice del suo lavoro ed hanno prodotto altre esperienze, come quella di Dialogos che ha dato luogo nel 2010 ad una mostra ad Assab One, a Milano e nel 2013 al MACT/ CACT di Bellinzona in Svizzera. Dal 2009 ha aperto la sua casa studio invitando ad esporre altri artisti nell’avventura de L'ospite e l'intruso, che, dal 2011 ha dato vita ad un nuovo progetto di mostre "domestiche", che si chiama riss(e).

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