Attraversare le contingenze allargando le prospettive

27/01/2012
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Rupextre

Oggi l'antropologia accetta la sua dimensione estetica riflettendo sugli aspetti fictionali e letterari che la influenzano. Ma anche l'arte è più consapevole del suo ruolo politico e delle interazioni sociali e umane che attiva. E' così che pratiche e saperi, solo parzialmente distanti, provano a dialogare e a scambiarsi obiettivi. A Matera: un luogo vertiginosamente denso di spunti, attraversando storie e paesaggi, ben sapendo che gli uomini non inciampano nelle montagne ma sulle pietre...
Ora alcuni curatori e artisti riflettono sull'esperienza che hanno vissuto nel corso di una residenza e di un convegno con antroplogi, filosofi, astrofisici e architetti.



I Sassi e la Gravina. Foto di Michela Gulia




Un momento della residenza. Foto di Rita Scalcione




Visita a Spine Bianche, uno dei quartieri del 'risanamento', con l’architetto Luigi Acito. Foto di Francesco Marano




Al centro Maria Novella Carniani. Foto di Francesco Marano




La residenza, ricerche. Foto di Francesca Grossi




Al centro visite Jazzo Gattini nel Parco della Murgia Timone. Foto di Francesca Grossi




Visita al Museo laboratorio della Civiltà Contadina di Donato Cascione. Nell’immagine Francesca Grossi. Foto di Michela Gulia




La prima giornata di convegno. Foto di Rita Scalcione




Prima giornata di convegno, al centro il relatore Corrado Sinigaglia. Foto di Rita Scalcione




Terza giornata di convegno, da sinistra Ivan Bargna, Lorenza Pignatti. Foto di Bruno Di Lecce




Un momento della terza giornata di convegno . Da sinistra: Francesco Marano, Francesco Careri, Daniele Mancini. Foto di Bruno Di Lecce




Da sinistra: Daniele Mancini, Leone Contini. Foto di Bruno Di Lecce




Seconda giornata di convegno tenutasi al Centro di Geodesia Spaziale. Da sinistra: Paolo De Bernardis, Giuseppe Bianco. Foto di Rita Scalcione




Vista dei Sassi dal Parco della Murgia Timone. Al centro Vera Maglioni. Foto di Michela Gulia




Paesaggio di Matera. Foto di Francesca Grossi




Massimo Marchetti: Rupextre, la residenza per artisti e antropologi che hai curato con Francesco Marano a Matera, è un progetto che declina il format della "residenza per artisti" in un confronto molto pragmatico e diretto tra questi due ambiti disciplinari, che spesso incrociano le rispettive ricerche, invitando degli operatori a dialogare attraverso scambi effettivi con un territorio ricchissimo di stimoli culturali e sociali.
All'interno di questa edizione, dedicata alle pratiche del mappare, è stato organizzato anche un ciclo di tavole rotonde a cui hanno partecipato non solo antropologi e storici dell'arte, ma filosofi, architetti, geografi e astronomi.
Quali sono stati gli obiettivi che vi siete posti come curatori del progetto? E in che modo questo momento di approfondimento ha determinato lo sviluppo della residenza?


Michela Gulia: Un obiettivo della residenza era verificare la tenuta del discorso teorico e della relazione sul campo tra arte e antropologia, due ambiti disciplinari che, nel corso del '900, hanno dato vita a transiti e sovrapposizioni di saperi impegnando concetti come quello di esotico e primitivo fino agli studi postcoloniali. Alcune di queste sovrapposizioni sono individuabili nella letteratura dedicata a temi di museografia e museologia, dove troviamo riferimenti a mostre come Art/artifact (1988) e Magiciens de la Terre (1989); in particolare nella prima la curatrice Susan Vogel, nell'evidenziare il superamento della distinzione operata dall'antropologia tra lavoro d'arte e documento etnografico, ha mostrato come tali categorie risultino profondamente intrecciate alle criticità sottese alla pratica museografica e alle strategie curatoriali, da intendersi come modelli discorsivi di produzione culturale. Un aspetto questo che ritroviamo anche al centro del lavoro di molti artisti, come Jimmie Durham, Fred Wilson o Lothar Baumgarten, che hanno mimato le pratiche museali etnografiche per denunciarne gli effetti e la presunta oggettività.

D'altra parte l'antropologia, a partire da Geertz e Clifford, ha sviluppato un'attitudine autoriflessiva che ha messo in crisi i dispositivi testuali e le strategie retoriche adottate nelle rappresentazioni dell'Altro, al fine di mostrare quanto quest'ultime siano fictionali e letterariamente costruite e provando allo stesso tempo - come hanno sottolineato Ivan Bargna e Francesco Marano nel corso del convegno - a recuperare quella dimensione estetica legata alla sfera dell'esperienza, rimossa per inseguire lo statuto di scienza dura. In tal senso si può leggere il rimando alla pratica etnografica del lavoro sul campo in riferimento a operazioni artistiche site-specific, audience-specifity o ancora community based, dove l'intervento artistico si fa strumento per l'articolazione e la comprensione di relazioni sociali, comunitarie e interpersonali, trasformando lo spettatore in un fruitore che fa esperienza dei contesti sociali, antropologici e culturali e partecipe della loro definizione. Penso ad esempio ad alcuni lavori di Joseph Beuys, Hélio Oiticica, Marjetica Potrč o ancora al collettivo Stalker/Osservatorio Nomade, così come alle operazioni promosse da alcuni spazi e collettivi indipendenti attivi a New York dalla fine degli anni '60 tra i quali Studio Museum in Harlem (1968) e El Museo del Barrio (1969) i cui progetti, esplicitamente dedicati all'opera di artisti afro o ispano-americani, costituirono una prima soddisfacente risposta alle tre richieste poste da Steven D. Lavine e Ivan Karp in "Museums and Multiculturalism: Who Is in Control?".

Queste riflessioni sono state sviluppate all'interno del convegno - fulcro della prima edizione del Festival - e nei giorni di residenza, e hanno costituito la cornice generale a partire dalla quale ognuno degli artisti ed antropologi invitati ha tratto suggestioni, interrogativi e spunti per formulare progetti caratterizzati da approcci metodologici diversi da quelli a loro consueti. Ad esempio gli antropologi (anche se in realtà dovrei dire le antropologhe) hanno dovuto scartare il modello dell'osservazione partecipante caratterizzato da un lungo periodo di immersione nella cultura del nativo ed individuare forme alternative di esperienza sul campo. È il caso ad esempio di Fiammetta Martegani che ha collaborato con Leone Contini seguendo ciò che in letteratura viene definito come "serendipity", come lei stessa racconta nel report che segue.

Il contesto inoltre - fortemente caratterizzato dal "paesaggio" dei Sassi, dalle forme di cultura generate nel corso di un secolare adattamento dell'uomo alla natura e infine dalle inevitabili trasformazioni economiche, politiche e sociali che da qualche decennio l'interessano - si presta bene a questo tipo di collaborazioni che speriamo di sviluppare ulteriormente nelle edizioni successive. Tutto questo è stato reso possibile grazie all'intervento di docenti dell'Università della Basilicata, esperti del territorio e architetti, in un'atmosfera molto rilassata che ha favorito non solo gli scambi e la possibilità di approcci informali con alcuni abitanti, ma anche l'elaborazione iniziale dei progetti che in seguito gli artisti dovranno sviluppare e che renderemo fruibili sul nostro sito; qui verranno caricati anche i video delle tre giornate di convegno che hanno scandito le giornate del Festival dell'Arte, dell'Antropologia, delle Scienze.

Massimo Marchetti: La moltiplicazione delle residenze artistiche che si è avuta in questi anni rischia di rendere questa pratica una semplice formula retorica per la produzione di lavori, dimenticando in parte le ragioni di fondo. Il problema di riuscire a creare una relazione significativa con un dato contesto in un lasso di tempo programmato e spesso breve pone un problema: come si può evitare di incappare nell'ennesima forma di "turismo culturale"? Esiste una fase in cui si verificano i risultati anche sul versante della comunità del territorio?

Michela Gulia: Facendo riferimento esplicitamente a Rupextre e al Festival, credo che la possibilità di costruire una relazione significativa con il territorio non sia da individuare tanto nel singolo momento della residenza, della tavola rotonda ecc., quanto piuttosto nella sua ripetizione, ossia in una dimensione di progetto che coinvolge nel tempo più realtà locali, associazioni e singoli attori, non solo come pubblico di convegni e mostre, anche se questi comunque possono essere molto stimolanti...

L'organizzazione di un evento, anche effimero come vengono considerati i festival, implica una gran mole di tempo e lavoro spesa non solo nella concettualizzazione di format e contenuti, ma anche nel coordinamento tra le diverse professionalità che entrano in gioco e nell'adempimento di tutte le fasi. C'è in questo una dimensione partecipativa evidente, che genera esperienze condivise, negative e positive, secondo dinamiche che caratterizzano spesso anche lo svolgimento dei workshop. Credo che questa sia una strada possibile in vista della restituzione di risultati differenziati ad un territorio: sia sotto il profilo dell'accrescimento culturale, sia attraverso la replicazione delle dinamiche di progettazione. Chiaramente anche i contenuti dei progetti e la loro articolazione sono determinanti nella relazione con il contesto, che non è fatto di entità astratte, ma di storie e trasformazioni che occorre conoscere.

Per noi quest'anno sia Rupextre che il Festival sono stati una sfida perché si è trattato di saper costruire un discorso che riuscisse a valorizzare insieme più realtà differenti: un polo d'eccellenza come il Centro di Geodesia Spaziale; la città di Matera nella sua dimensione antropologica e per finire la residenza organizzata da ARTErìa. Siamo partiti dunque dal territorio pensandolo non solo come paesaggio suggestivo o base operativa, ma con il desiderio di attivare o riattivare le narrazioni e condividerle, utilizzando un approccio che speriamo di poter ulteriormente verificare quest'anno con il concorso di sempre più attori locali e non.


Ecco i "diari" di alcuni dei partecipanti alla residenza tra artisti e antropologi: una restituzione dei modi in cui è avvenuto il confronto con la dimensione storica, paesaggistica e culturale della città di Matera e delle riflessioni che ha generato.

Report di Leone Contini
Matera è stata un catalizzatore di istanze ideologiche per buona parte del XX secolo: dal mito modernista-utopico del riscatto attraverso la pianificazione urbana - quello che ha determinato lo spopolamento forzato dei Sassi con la legge speciale del '52 - al mito opposto della riscoperta di una sapienza pre-moderna relativa all'acqua, che trasforma Matera in patrimonio universale e riscatta l'abitante del sasso come genio-idraulico ancestrale, fino alla vetrificazione e musealizzazione della città vecchia ad uso dell'industria del turismo, dove le grotte diventano lussuosi ristoranti e le antiche cisterne neolitiche sono trasformate in campetti per il mini-golf.

Le mutevoli visioni del '900 hanno sempre trovato nella città un elemento malleabile, così che Matera è stata di volta in volta attraversata e trasformata da intellettuali dissidenti, politici utopici, funzionari italiani e delle Nazioni Unite, antropologi, architetti ed artisti visionari, viaggiatori di professione, documentaristi, fotografi e cineasti. Matera è stata dunque oggetto di speculazioni provenienti da ambiti disciplinari molto differenti e su di essa è stata prodotta un'immensa ed eterogenea produzione simbolica. La sensazione al mio arrivo è di trovarmi al centro di variegati flussi interpretativi e simbolici intrecciati, e ad una densità di rappresentazioni abnorme per una piccola città del sud. Il discorso su Matera è pervasivo e saturante, e noi siamo già parte di questo flusso.

Arte ed antropologia sono discipline mutevoli, autoriflessive, il loro statuto è instabile: l'interazione di etnografi ed artisti sembra un ottimo punto di partenza per gettarci tra le rapide della produzione simbolica materana. Siamo anche gli ultimi di una lunga serie di "stranieri" chiamati ad esprimere un punto di vista su Matera. Il fatto di essere caduto in una rete di significati (ed aspettative) intessuta da altri mi costringe ad assumere una posizione auto-riflessiva.
Sento il bisogno di sottrarmi al "dispositivo Matera": il mio sguardo si rivolge al gruppo stesso, alle modalità di auto-identificazione disciplinare che si determinano al suo interno. Il dispositivo poietico materano enfatizza la produzione/proiezione simbolica (il discorso su Matera), che io tento di ricollocare nel soggetto, in un loop meta-etnografico.
Matera drammatizza prima di tutto le nostre posture disciplinari, le rende visibili all'interno della progettualità che noi costruiamo su Matera stessa.

Report di The Grossi Maglioni magic duo
Due superfici che si guardano: l'interno e l'esterno, la specularità di Matera e del Parco della Murgia, due immagini che si fronteggiano.

- La città di rocce scavate all’interno. Cunicoli ostili, abitati in passato per forza o povertà; Al rovescio, luoghi funzionali scavati dal moto dei corpi che vi abitavano, e per questo ospitali e aderenti. Un adattamento unico dell’uomo verso la natura...

- Matera vista dal Parco; questa è l'immagine che continua a permanere nelle nostre retine e dalla quale non riusciamo più a separarci. Abbiamo preso le distanze da Matera; la distanza di un canyon, la Gravina, che separa la Città dei Sassi dal Parco Murgia Timone. Abbiamo osservato la città una prima volta senza alcuna indicazione e successivamente dopo aver assorbito il flusso di informazioni che i materani hanno voluto fornirci.

- Rivolgendo le spalle alle case/cunicoli sembra di poter improvvisamente vedere la città allo specchio. Si ha un'immagine d'insieme da un punto di vista impossibile. La mappa di Matera si svela riflessa nel parco che le è di fronte, non dall'alto, dalle scalette o da uno scorcio. Abbiamo visto il canyon che taglia in due il luogo. La città, il canyon, il parco. Il canyon, magnetico, causa l'attrazione per il vuoto del corpo umano.

- La residenza arte-antropologia, unica nella nostra esperienza per densità di contenuti e di indicazioni, ci ha fatto entrare in una dimensione di ricerca e ascolto molto intensa. Superata la primissima fase del convegno, le ricerche sul campo si sono adattate alle esigenze del gruppo che si muoveva per la città intervistandone gli abitanti, dando alla residenza una connotazione legata alle persone, alla memoria e all'esperienza come mezzo di indagine. Noi abbiamo fatto correre l’immaginazione e abbiamo cercato di figurarci come le persone del passato potessero vivere questa assurda città di caverne scavate nella roccia e l'immagine si è sovrapposta ad un'altra visione: quella di un futuro possibile e parallelo che ultimamente ci interessa molto.

-Il movimento nella cavità delle rocce si spinge verso un fulcro interno come se l'esplorazione di questo spazio portasse sempre più giù, in fondo, percorrendo una stanza dentro l'altra e così via (un viaggio al centro della terra). Ed in contrapposizione il fuori, una visione ondulatoria prima di tutto, perché è la vista a farne esperienza per prima, la visione unitaria dalla città. Le grotte nella natura del parco forse abitate.... Il parco risponde alla città, entrambe fronteggiandosi in guerra, aspettano di essere attaccate. Sembra che il parco abbia una sua strategia di azione. Guardando la città dei Sassi da quella posizione ci si accorge di quello che già si percepiva di lei scrutando il parco: una città crivellata di colpi.

- Il progetto che stiamo tracciando per Rupextre si posiziona proprio sull'altipiano del Parco Murgia Timone. L'idea è di pensare un percorso ad ostacoli/palestra open air sulla superficie del parco, seguendo le sue forme scavate e scolpite nella roccia. Esperire con il proprio corpo un determinato percorso potrebbe modificare la percezione della città all'orizzonte. Il percorso propone una rilettura non solo geografica ma anche storico-antropologica del Parco attraverso lo studio e la mappatura del tipo di transiti che l'hanno caratterizzato. Il terreno infatti, è attraversato da moltissimi tratturi (sentieri punti di interesse o strategici. Questi sentieri nella loro utilità ricalcano i movimenti delle diverse forme di migrazione che sono passate nel Parco durante il tempo: attraversamenti religiosi come pellegrinaggi, o pastorali per la transumanza, oppure ancora iniziatici e rituali.

Report di Fiammetta Martegani
Tutto è cominciato domandandoci cosa fosse una mappa, un concetto tutt'altro che definito, conteso da diverse discipline accademiche, e al tempo stesso parte integrante del nostro senso comune e del nostro linguaggio quotidiano. Differenti prospettive di ricerca nel corso della parte seminariale della residenza hanno offerto diverse interpretazioni del concetto di mappa. Luogo privilegiato per la (de)costruzione del potere coloniale e post-coloniale, la mappa è per definizione l'oggetto di studio del geografo, di cui Franco Farinelli ci ha offerto un punto di vista privilegiato. Una prospettiva completamente diversa e altrettanto affascinante è quella indagata dalla filosofia della scienza, attraverso cui Corrado Sinigaglia ha indagato il complesso rapporto tra mente, corpo ed esperienza col mondo. Infine la mappa come luogo della pratica sociale è stata restituita sia dal punto di vista di chi analizza la sua rappresentazione artistica ed iconografica, ricostruita dallo storico dell'arte Francesco Tedeschi, sia dal punto di vista di chi ne esplora il contesto di (ri)produzione, attraverso lo sguardo etnografico proposto dall'antropologo Francesco Faeta. Queste due prospettive in particolare sono state ampliamente indagate e discusse nel corso della parte seminariale della residenza, al fine di ricostruire somiglianze e differenze tra disciplina antropologica e pratica artistica, attraverso le riflessioni proposte dagli antropologi Ivan Bargna e Francesco Marano e dagli architetti Francesco Careri e Daniele Mancini.
Durante la parte etnografica della residenza essi hanno messo a confronto le metodologie, in entrambi i casi ibride per definizione, a partire dalla costruzione dell'oggetto di studio, ovvero ciò che nel linguaggio antropologico viene definito "esperienza sul campo" e nel contesto artistico "site specific".

La mia esperienza personale, e in particolar modo l'incontro e il confronto con Leone Contini, artista con formazione antropologica, ci ha permesso di sviluppare ulteriormente la possibilità di svolgere la nostra ricerca etnografica senza seguire una metodologia a priori, ma lasciandoci guidare, piuttosto, da ciò che in letteratura viene definito come "serendipity". Se l'"errare etnografico", infatti, è stato uno dei motori trainanti del nostro percorso, dal punto di vista della restituzione del prodotto, la necessità stessa di (ri)costruire un percorso è diventata a sua volta l'oggetto centrale della ricerca, dal punto di vista della rappresentazione visuale del materiale raccolto e dal punto di vista della pratica etnografica, tentando di sperimentare un linguaggio oltre a quello della scrittura per provare a restituire tutta quella dimensione inconscia che, congelata nella rigida griglia verticale della scrittura, trova difficilmente collocazione al di fuori del regime testuale.

In particolare, l'esserci lasciarti guidare dall'errare etnografico dandoci come unico criterio quello di (in)seguire la serendipità, ha messo in luce - sia dal punto di vista dell'analisi dell'oggetto di studio, sia dal punto di vista della costruzione della metodologia - un altro territorio di frontiera tra antropologia e arte: il sottile confine tra politica e poetica, ovvero il contenuto e la sua forma, spesso intrecciati tra di loro in un rapporto di tipo ermeneutico, così come quello tra consapevolezza e dimensione inconscia. In questo senso, il territorio di Matera, in perenne bilico tra immagine ed immaginario, attivismo politico e gentrificazione, luogo della sperimentazione artistica e cinematografica, e, in quanto tale soggetto al tempo stesso alla mercificazione turistica, è diventato la mappa privilegiata con cui non soltanto sperimentare la nostra pratica etnografica ma soprattutto restituire il nostro tentativo preliminare di definire un luogo di incontro tra antropologia ed arte, individuato nella pratica dell'agire come forma di resistenza.

Report di Angelo Sarleti
Alcuni appunti su Rupextre. Le analogie nel definire l'arte e l'antropologia sono emerse nei momenti più informali della residenza, come le cene, vere e proprie tavole di confronto delle giornate materane. Se si chiedesse a dieci artisti di dare una definizione di arte si otterrebbero dieci risposte diverse. Ma provate a chiedere a dieci antropologi di dare una definizione di antropologia...
La possibilità di addentrarsi nell'esperienza intellettuale italiana attraverso il filtro di un luogo come Matera, un sud non ancora sud, è un aspetto "geografico" dell'esperienza che mi ha confermato quanto un luogo possa influenzare il lavoro di un intellettuale manifestandosi anche in maniera tanto esplicita da non poter quasi prescindere dal concetto di "site specific". Persino in espressioni come la scrittura o la pittura, come ben si può capire guardando le opere di Levi. I suoi lavori piemontesi non erano più belli o delicati, erano semplicemente diversi da quelli lucani perché diverso è questo luogo: quasi un isola in mezzo "ai sud" che tenta, silenziosamente, di schivare aerei, treni, strade o passaggi occasionali.
La riuscita umana della residenza è stata dovuta ad una partecipazione che andava aldilà di ogni forma di protagonismo, comune alla maggior parte delle residenze per artisti dove l'esperienza è misurata in base ai "rapporti professionali" che ne scaturiscono. Servirebbe un'altra residenza per riflettere su questa e il fatto che il problema principale non sia stato come fare un progetto insieme ad antropologi (e viceversa), ma interrogarsi su cosa è l'arte e cosa è l'antropologia e capire quali connessioni le uniscano.

La possibilità di sperimentare un'inedita tipologia di mappatura basandosi su metodologie antropologiche, è stato lo spunto che mi si è presentato, grazie anche alle conversazioni avute con Luisa Lapacciana e alle molteplici convergenze che il nostro lavoro possiede. Infatti quella che apparentemente sembrerebbe una contraddizione metodologica, in quanto l'antropologia studia la cultura come oggetto e ne evidenzia le complessità, mentre il mappare tende essenzialmente a sintetizzare, potrebbe con l'infografica e la capacità che questa ha di formalizzare dei dati scovando ulteriori informazioni proprio nella forma, rivelarsi uno studio molto prezioso, sia per capire meglio l'esperienza di Rupextre che nella mia personale ricerca artistica. La plausibilità dell'arte nelle altre discipline.

Una riflessione che è venuta fuori molto spesso è quella di quanto l'arte, quando pretende di avvicinarsi ad altre discipline, sia credibile non più dal suo pubblico ma da quello extra artistico. In pratica: quanto l'arte può veramente contribuire allo sviluppo dell'antropologia stessa, senza limitarsi (come spesso succede anche in altri campi del sapere) ad estetizzarne qualche concetto? Può l'esperienza artistica dare il LA per una ricerca scientifica? Nonostante il rapporto tra arte e scienza oggi sia molto popolare, queste sono questioni sono poco discusse e meriterebbero approfondimenti ulteriori, altrimenti si corre il rischio di fraintendere l'interesse interdisciplinare, relegandolo ad una scenografizzazione di esperimenti da laboratorio che non aggiungono niente al risultato finale, artistico o scientifico che sia.


Informazioni su Rupextre, iniziativa che si è svolta lo scorso novembre in occasione del Festival dell'Arte, dell'Antropologia e delle Scienze

Il sito web dedicato al progetto