Attraversare le contingenze allargando le prospettive

03/12/2010
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Contare su qualcuno

Artisti, curatori e docenti attivi nel Nord-Est dell'Inghilterra si sono riuniti per discutere del rapporto tra insegnamento e meccanismi artistici collaborativi. Calcolo o desiderio di incidere sulla società, forme alternative di apprendimento e processi di monetizzazione, senso del movimento e inaspettate opportunità. Molti i temi in campo, più o meno sviluppati, in Into the Gravy, un'occasione di incontro e un report a cura di Gabriella Arrigoni.



Il video della tavola rotonda




Formazione, cooperazione, e artisti alle prime armi. La pratica del 'collettivismo' sembra sempre più trendy nel mondo dell'arte contemporanea. Mentre i collettivi curatoriali guidano le biennali europee (vedi Manifesta 8), e gli artisti sono ormai abituati a riunirsi in identità condivise, esistono forme di collaborazione più fluide ed occasionali, fondamentali però per muovere i primi passi ed affrontare la non facile transizione dalle scuole d'arte ad un'effettiva e riconosciuta pratica artistica.
Il 26 Ottobre 2010 presso la galleria Vane a Newcastle upon Tyne si è svolta una tavola rotonda che ha coinvolto artisti, curatori e docenti attivi nel Nord-Est dell'Inghilterra per discutere del rapporto tra i meccanismi collaborativi che si sviluppano tra artisti emergenti, e la funzione dell'insegnamento artistico.

Partecipanti: Gabriella Arrigoni (curatrice e storica dell'arte), Tim Brennan (artista e Head of Department, Arts & Design, University of Sunderland), David Butler (Coordinator of LifeWorkArt – Newcastle University, and Co-Director of Intersections), Chris Dorsett (artista e Reader in Art School Practices, Northumbria University), Richard Forster (artista), Emma Keating (senior consultant, Grit & Pearl), Will Marshall (artista, The NewBridge Project), Adam Phillips (artista and curatore, CIRCA), Will Strong (artista, The NewBridge Project), Paul Stone (Vane), Sam Watson (artista and curatore, CIRCA), Christopher Yeats (Vane).

Il punto di partenza dell'incontro è una ricerca condotta da Gabriella Arrigoni per la Newcastle University sulla condizione degli artisti emergenti, le opportunità offerte loro dalle Università e da altri organismi presenti sul territorio, e le barriere che si incontrano nell'accedere al sistema dell'arte. Il risultato è una sorta di ecosistema stratificato, nel quale è possibile disegnare un percorso quasi obbligato che va dalle prime iniziative indipendenti, temporanee e realizzate in spazi non istituzionali, alle mostre in gallerie private, fino ai progetti di più ampio respiro per spazi pubblici e museali.

La regione del Tyne & Wear ha sviluppato una vera e propria scena artistica, capace di attirare e trattenere una presenza sostanziosa di giovani studenti d'arte, solo recentemente, negli ultimi 10 anni, contestualmente al più vasto programma di riconversione del territorio da un'economia prettamente industriale ad una maggiormente orientata ai servizi culturali e al turismo. La strada è però ancora in salita, soprattutto considerando la marginalità geografica di cui soffre la regione, similmente a quasi tutto il resto del Regno Unito in cui Londra continua a svolgere un ruolo relativamente preminente. La scarsità di scambi internazionali e di mobilità, di copertura sulla stampa specializzata e di una rete di collezionisti privati appaiono infatti come le questioni più urgenti.

Quanto emerge dallo studio è però anche il ruolo preminente dell'Università nel fornire le chiavi di accesso al sistema dell'arte, non tanto attraverso l'insegnamento vero e proprio di determinate tecniche o competenze, quanto nell'offrire una comunità, un ambiente favorevole alla pratica artistica e allo sviluppo di una rete di relazioni personali e professionali da cui tendono a scaturire le prime opportunità espositive. Secondo Chris Dorsett, per esempio, un corso universitario in Fine Arts è già di per sé un “lavoro di gruppo”. Tim Brennan, d’altro canto, sottolinea invece come l’istituzione accademica tenda costantemente a limitare il lavoro, l’insegnamento e l’apprendimento di gruppo. Un aspetto che sarebbe invece interessante esplorare più a fondo proprio nel contesto del percorso educativo, pur nella consapevolezza di tutte le difficoltà che comporta.

L’Università è inoltre la prima organizzazione capace di offrire sistematicamente studi e spazi di lavoro a ciascuno dei suoi studenti. Un aspetto che segna alquanto nettamente il distacco del Regno Unito dalle Accademie di Belle Arti nostrane, e che si rivela non solo una condizione fondamentale per lo sviluppo di qualunque tipo di pratica creativa, ma anche per l’intersecarsi della ricerca individuale con progetti collaborativi, facilitando la connessione tra studenti accomunati da interessi affini, o semplicemente generando un senso di appartenenza e di comunità, impossibile quando gli artisti lavorano in laboratori ricavati in spazi privati, necessariamente e fisicamente distanti l’uno dall’altro.
La posizione cruciale dell’Università’ si rivela infine anche nel fatto che la maggioranza delle opportunità destinate agli artisti emergenti, quali premi, borse, finanziamenti, programmi di residenza, sono generalmente riservate a quanti hanno terminato gli studi da non più di cinque anni. Mentre solo raramente, nei criteri di ammissione, sono menzionati limiti di età.

Resta da chiedersi tuttavia quale sia il contesto più appropriato dove discutere del futuro della formazione artistica, se all’interno dell’istituzione stessa, o in una situazione che pur coinvolgendone alcuni rappresentanti si dichiari indipendente. La questione dell’insegnamento in relazione al concetto di collettività e’ stata recentemente affrontata in maniera esplicita e decisamente diretta anche da una serie di progetti prettamente collaborativi, che hanno fatto della scuola un format, una matrice, un modello su cui costruire l’operazione artistica stessa, quasi sempre cercando di abolire la distinzione di ruoli tra insegnante e allievo, in favore di forme di conoscenza basate sullo scambio orizzontale, anziché sulla sua trasmissione verticale ed inevitabilmente gerarchica.

La Temporary School di Pierre Huyghe, Philippe Parreno e Dominique Gonzalez-Foerster, la Copenhagen Free University fondata nel 2001 nell’appartamento di Henrietta Heise e Jakob Jakobsen, la School of Missing Studies, specialmente interessata alle derive socio-urbano-architettoniche della ex-Yugoslavia dopo il suo collasso, e la Mountain School of Art creata da Piero Golia ed Eric Wesley nel retro di un bar di Los Angeles, sono ormai esempi classici di questo filone. Nella nostra contemporaneità ormai decisamente caratterizzata dalla cosiddetta knowledge economy (dove cioè alla conoscenza corrisponde un valore economico importantissimo), non dovremmo stupirci che gli artisti avvertano l’esigenza di sottrarre il sapere al processo di monetizzazione suggerendo forme alternative di apprendimento e produzione del sapere stesso.

Lo sforzo di trascendere il modello consueto di scuola d’arte non è però esente da rischi: “Non penso che la scuola possa far parte della pratica artistica, credo che su questo punto ci sia molta confusione. Alcuni artisti credono di poter usare la formazione come medium perché si è rivelata un’idea di successo per altri, ma la formazione non e’ affatto un medium, e’ formazione ed e’ dedicata agli studenti e non alla ricerca personale degli insegnanti/artisti. Pensi che per essere un buon meccanico occorra saper insegnare ai clienti come riparare la propria auto? No, esistono buoni meccanici e buone scuole per meccanici. Credo che il problema nasca quando chi non è un buon meccanico cerchi di farti credere il contrario. Un cattivo artista resta un cattivo artista, a prescindere da quante scuole decida di fondare” (Piero Golia in un’intervista ad Amara Antilla, 2010, traduzione dell’autrice)

Se la cooperazione si rivela come un fattore fondamentale tanto durante gli studi quanto nella fase iniziale della ‘carriera’ artistica, essa si accompagna tuttavia ad alcuni interrogativi da cui è stato avviato il dibattito, moderato da David Butler.

Partendo dall’idea che le parole ‘collettivo’, ‘condivisione’, ‘cooperazione’ suggeriscano facilmente una connotazione politica, i partecipanti all'incontro hanno cercato di capire quando e se si tratti di una presa di posizione critica sul reale o piuttosto di una scelta pragmatica. Ciò che è emerso dalla discussione è prima di tutto la necessità di una riflessione accurata e di una certa cautela nel contrassegnare una pratica collaborativa con un intento seppur latamente politico, anche in relazione alla possibilità, da parte di un gruppo, di affermare un valore (estetico e non) con maggiore autorevolezza rispetto ad un individuo.

Operare nel contesto di un artist-run space gestito collettivamente è per molti un fattore corroborante soprattutto nel trovare motivazione, ma su un piano più ampio, fare fronte comune si può rivelare anche una strategia di lotta per ottenere condizioni migliori in un sistema lavorativo che offre ben poche garanzie. Il desiderio di essere una forza più incisiva sulla e nella società è infatti indicato da Maria Lind tra le principali cause alla base della diffusione di pratiche partecipative nell'arte contemporanea (dal catalogo di Munster Sculpture Projects 2007). L'azione di gruppo intesa come agente di cambiamento e opposizione allo status quo è poi particolarmente importante nel riferirci ad artisti emergenti, che dovrebbero non solo definirsi “nuovi” dal punto di vista della loro presenza sulla scena e del loro successo, ma nell'essere appunto portatori di valori e linguaggi alternativi all'esistente.

L’incontro si chiude con una domanda sull’ottica da adottare nei confronti del futuro, sulla possibilità di uno sguardo ottimista. L'attuale clima di recessione, del resto, sembra favorire decisamente dinamiche cooperative: condividere risorse, capacità e spazi non è soltanto una scelta obbligata, ma anche un'inaspettata opportunità. Riconvertire in studi e spazi espositivi e di lavoro i locali lasciati vuoti dalla crisi economica (col programma Empty Shop per esempio, supportato dall'Arts Council of England) è solo uno dei modi in cui gli artisti, congiuntamente alla pubblica amministrazione, stanno reagendo alla crisi stessa ripopolando le vetrine di negozi ormai chiusi o interi edifici con incessanti attività creative che pur non lasciando dimenticare la gravità della situazione suggeriscono nuove vie praticabili di cambiamento e nuove modalità di lavoro e produzione.


Gabriella Arrigoni è storica dell'arte, giornalista e curatrice indipendente. Ha pubblicato testi critici ed articoli in Italia e all'estero e sin dal 2006 collabora alla redazione di UnDo.net. Ha curato mostre in diversi spazi no-profit e nel 2009 ha fondato, con Michela Gulia, la piattaforma curatoriale Harpa Projects. Fa inoltre parte del team curatoriale del festival Nopasswd 2011. Vive e lavora a Newcastle upon Tyne.