10/09/2001

 
Hans Ulrich Obrist 
 
 
Giancarlo de Carlo

 
   
intervistato da Stefano Boeri, Rem Koolhaas e Hans Ulrich Obrist 
 
   
Giancarlo De Carlo, ritratto




Ron Herron, "Walking City-New York", 1964. Inchiostro e collage su carta, 14 cm x 32 cm (courtesy He




Archigram: "Experimental Architecture 1961-1974"




Arata Isozaki




http://www.saulbass.net




Giancarlo De Carlo, Urbino, Facoltà di Magistero: le grandi aule, 1968-1976




Gyorgy Kepes




Stefano Boeri. Centrale geotermica sul monte AmiataLa copertura avvolge i locali tecnici della centr




Aldo van Eyck, Hubertus House, a Amsterdam 1973




Alison Smithson, ribatte i documenti del Team 10 durante l'ora di pranzo a Dubrovnik, 1956




Toulouse-le-mirail, Pasqua 1971, Georges Candilis parla




Meeting del Team 10, Pasqua 1977




Georges Candilis, ritratto




http://www.ilaud.com




Rem Koolhas, ambasciata Olandese a Berlino, disegni




Rem Koolhas, Euralille




Foto di Armin Linke




Foto di Armin Linke




Foto di Armin Linke



 
Giancarlo de Carlo intervistato da Stefano Boeri, Rem Koolhaas e Hans Ulrich Obrist a cura di Hans Ulrich Obrist


Hans Ulrich Obrist: Comincerei dalla Triennale, vorrei porle una domanda legata infatti alla Triennale del '68. Sono stato alcuni anni fa in Giappone e ho realizzato un'intervista con Isozaki anche lui mi ha confermato, come molti architetti avevano fatto prima, l'importanza di quella Triennale e ha incominciato a parlarmi con entusiasmo di quell'esperienza, sottolineandomene tutta l'importanza. Ne abbiamo parlato anche questa mattina alla Triennale.

Stefano Boeri: Si, perché ci sono gli Archigram, in Triennale, inauguravano proprio oggi una loro mostra.

Giancarlo De Carlo: Ah si? Sono qui, sono sopravvissuti!

Stefano Boeri: Si, stanno facendo circolare una mostra che in questo momento è proprio qui a Milano, con una rassegna del loro lavoro, molto interessante, secca e semplice.

Hans Ulrich Obrist: Quella Triennale senza aver avuto il pubblico fu capace di aprire molte possibilità di dialogo, per esempio proprio Isozaki mi ha rivelato che fu lì che incontrò per la prima volta gli Archigram.

Giancarlos de Carlo: Certo, mi ricordo.

Hans Ulrich Obrist: Quindi come prima questione desidererei conoscere qualcosa sul concetto di quella mostra, su quella Triennale che fu tra l'altro in un certo senso anticipatrice anche se la si esamina dal punto di vista dei temi attuali della globalizzazione.

G.D.C. Iniziamo da Isozaki. Isozaki allora era totalmente sconosciuto; non sapeva nessuno che esistesse. Io avevo avuto la fortuna di vedere una sua cosa in Giappone e mi era sembrata davvero interessante: fu così che dovendo scegliere tra i vari architetti che rappresentassero il pensiero contemporaneo, scelsi Isozaki. Fu così del resto che poi spesso ci incontrammo anche con altri come Archigram che non erano noti quasi per nulla in Italia e che io avevo conosciuto in Inghilterra. E fu così che vennero tanti altri, che effettivamente venivano in Italia per la prima volta, come ad esempio Hardy da New York.
La Triennale aveva un tema. Il tema era "Il grande numero" e direi sì, si potrebbe fare una Triennale adesso su questo tema, perché la questione che si nascondeva lì sotto era importantissima e formulata in modo molto semplice, si diceva pressappoco che noi ci stavamo avviando verso una società di massa, la cultura stava per essere trasformata in una cultura di massa. La domanda era quindi se accettare l''dea di una società di massa oppure se desiderassimo una differente società, una grande società di individui. E quindi il nostro problema non era e non è la massa, ma il grande numero. Questo tema è stato discusso, dibattuto, avevo scritto anche alcuni testi sulla questione e quindi chiamammo diverse persone per esprimere la propria opinione sul problema.
Le opinioni emerse, come capita sempre quando ci sono delle persone creative, andavano in moltissime direzioni. Isozaki aveva realizzato dei pannelli molto interessanti per i quali adoperò una tecnica molto affascinante: lavorò infatti sui dei pannelli di alluminio con dei segni rossi, molto drammatici, che naturalmente ricordavano immediatamente Hiroshima e Nagasaki, e il grande disastro giapponese, che era un fatto legato appunto al dilemma tra cultura di massa e cultura del grande numero. C'era poi Saul Bass, il grande grafico americano, che è morto da pochissimo, aveva realizzato una storia bellissima, un film stupendo. La storia di una pallina da ping-pong che non voleva restare con le altre palline da ping-pong e che allora usciva continuamente dalle scatole che la contenevano, producendo suoni straordinari, andava per conto suo e affermava la sua individualità di pallina da ping-pong. Era una cosa veramente stupenda, non so dove sia finito quel film; spero che sia negli archivi della Triennale, perché Saul Bass era veramente una persona di grandissima qualità; così come tanti altri presenti a quella mostra.

Hans Ulrich Obrist: E c'era Kepes, che è un eroe per me, vero?

G.D.C.: Ah sì? Kepes che io conosco molto bene, che ho conosciuto molto bene, spero che sia ancora vivo, deve essere piuttosto vecchio ora.

Hans Ulrich Obrist: Questa è un po' la grande domanda. Ma come possiamo trovarlo?

G.D.C.: Al M.I.T.! Hanno notizie di sicuro, lì.

Hans Ulrich Obrist: A chi potrei chiedere?

G.D.C: A Stan Anderson

Stefano Boeri: Tu sei stato importantissimo anche in quel senso. Kepes, infatti, non era noto ai tempi in Italia.

G.D.C. Effettivamente non sapeva nessuno chi fosse.

Stefano Boeri: E fu Giancarlo De Carlo a pubblicarne i testi per la prima volta. E' importante a questo punto che io faccia un piccolo inciso: Giancarlo curava una collana di testi che riguardavano le questioni problematiche relative allo sviluppo della città. Una serie di libri che è stata fondamentale per la mia generazione, ma anche per quella che mi precede.

Hans Ulrich Obrist: E questa collana possedeva un nome?

G.D.C.: Beh sì, si chiamava "Struttura e forma urbana".

Stefano Boeri: Edita dal Saggiatore.

G.D.C.: Vediamo se per case ne trovo un volume, perché tra l'altro io non ho neanche l'intera collezione. Pensate come è disorganizzata la mia organizzazione. No, non ne ho neanche una copia. Ma ne troverò qualcuna e ve la farò vedere.

Stefano Boeri:
Proprio in quella collana ha pubblicato autori come Alexander e molti altri che successivamente sono stati conosciuti ed apprezzati.

G.D.C.:
Alexander per esempio è un altro a quel tempo ignoto in Italia. Ci siamo conosciuti personalmente subito dopo il suo ritorno dall'India, al Convegno di Ronchamps del Team X, dove aveva parlato di quel suo lavoro, davvero molto interessante, sul villaggio indiano.

Arriva in questo momento nel luogo dell'intervista Armin Linke, fotografo, che riprenderà la conversazione.

G.D.C.: Sì, insomma, molte di queste diverse persone si erano ritrovate insieme in occasione della Decima Triennale, nel 1968. Era stata, a ripensarci, una coincidenza davvero straordinaria: e questo perché erano tutte persone di grande qualità che una volta capito il tema - il Grande Numero - l'avevano affrontato con intelligenza, ciascuno naturalmente nella sua direzione. Era stato straordinario il fatto che quelle direzioni collimavano e alla fine disegnavano un affresco affascinante e anche importante. Van Eyck aveva preparato una mostra bellissima! L'installazione di una foresta - proprio una specie di foresta! - che evocava il Vietnam. La guerra nel Vietnam, la distruzione del Vietnam e delle sue foreste: primo episodio di globalizzazione, folle. Anzi, più precisamente, un caso di unificazione: in Vietnam tutto veniva spianato con l'intento che tutto diventasse uguale per sempre. Ecco, vedi, gli argomenti della Decima Triennale erano di questo tipo, tutti appassionanti. Ma è arrivata la massa dei cretini che non aveva capito niente e che in un momento in cui proprio quei temi bisognava discutere, proprio di quello ci si sarebbe dovuti occupare, avevano fatto finta di ribellarsi perché nulla fosse discusso. La Triennale era stata fatto per aprire la discussione su quegli argomenti e invece l'hanno distrutta. Sapete come? Rifiutandosi di discuterla. E' stata una cosa davvero stupida e atroce.

Stefano Boeri: Va detto che molte delle persone che avevano più o meno consapevolmente guidato l'occupazione erano state escluse dalla Triennale stessa.

G.D.C.: Sì, è vero, non facevano parte di quelli che avevano lavorato alla Triennale.

Hans Ulrich Obrist: E' paradossale! Siamo in un momento diverso eppure altrettanto urgente. Alcuni giorni fa discutevamo con diversi amici a Parigi su quale sarebbe una mostra davvero da fare oggi in maniera sovversiva rispetto alla attuale onnipresenza dello spettacolo. Pensavamo che forse l'unica possibilità sarebbe una mostra che nessuna veda. Sarebbe infatti, se di qualità, una mostra mitica: proprio perché non vista. Io penso che la vostra Triennale sia diventata così nota anche per questo motivo.

G.D.C.: Certo è accaduto proprio questo.

Stefano Boeri: Ma forse sarebbe questa la strategia da adottare per il rilancio della Triennale, perché c'è questo spazio vuoto che andrebbe caricato di valenze diverse. Questa mattina con gli Archigram si è parlato lungamente di questo, e loro concordavano su questa ipotesi.

G.D.C.: Certo, certo, mi pare interessante come ipotesi.

Hans Ulrich Obrist: Continuando sul tema della mostra ero curioso di capire come si coniuga per lei l'idea di progettare una mostra su una città o sulla città con il paradosso che la città stessa crea a causa della complessità del suo sistema. Come poteva la mostra essere rappresentativa della città, rappresentarne la natura complessa e problematica? Esisteva una sorta di "master-plan" oppure avevate proceduto diversamente?

G.D.C.: In quell'occasione c'era l'idea di un master-plan o comunque di un indirizzo unitario: io conoscevo tutte le persone invitate e, anche se non sapevo cosa ne sarebbe uscito, avevo seguito ogni progetto. Quelle persone erano in continuo contatto con noi mentre sviluppavano le parti della mostra alle quali si dedicavano. Quindi, per tornare alla domanda, i loro contributi eterogenei sono stati sicuramente organizzati con un master-plan che era facile da immaginare fin da quando erano stati invitati. Le diverse voci da un lato era interessante che si combinassero, dall'altro andava benissimo che non si combinassero. In ogni caso quello che in generale accadeva era che non c'era omologazione, che c'era ricchezza di voci su uno stesso argomento. Non c'era una voce sola come mi sembra accada oggi: cento che parlano e sembrano una voce sola. Per fare un esempio italiano in un altro campo: noi stiamo andando a nuove elezioni e i vari programmi sono copia uno dell'altro: è un fatto nuovo che ancora sembra incredibile. La destra e la sinistra hanno programmi identici; dicono la stessa cosa. Ora, una società viva, che non sia di massa, è una società che non dice le stesse cose: dice tante cose diverse, anche in conflitto o in contraddizione, che si confrontano una con l'altra. Così dovrebbe essere la società del grande numero: infinite voci che si intrecciano in direzioni diverse e nell'intrecciarsi diventano creative. Io sono di formazione anarchica. Cerco di esserlo seriamente e non in modo fatuo. Credo nell'anarchismo come a un limite che perseguo e che non raggiungo mai e penso sia un modo di essere attuale. Le voci devono essere molte, non bisogna avere paura del conflitto. Il conflitto anzi è salutare.
Credo che la società debba essere variegata perché se la società è di marmo non funziona, diventa pericolosa. Invece sembra che le idee e i fatti contemporanei vadano per lo più in senso opposto, sembra cerchino una società di marmo, tutta levigata, che sembri levigata anche se dentro è piena di fessure. Mi chiedeva come facevo a progettare la mostra che abbiamo fatto. Le dirò che in quel periodo gli architetti parlavano molto di più tra loro. Si sapeva molto di più quali erano le idee degli altri. Una parte di quelli che hanno partecipato alla XIV Triennale erano del Team X: gli Smithson, Candilis, Van Eyck, Woods. Gli altri erano molto vicini al Team X, frequentavano le nostre riunioni, quindi ci conoscevamo, sapevamo insomma al tempo stesso quali fossero le nostre idee e non c'era bisogno di fare grandi master-plan per sapere poi come si sarebbero confrontate le loro opinioni con le nostre.

Hans Ulrich Obrist: E' curioso, proprio la scorsa settimana anche Smithson mi ha parlato di questo aspetto del Team X e mi è sembrato che anche per lui fosse importantissimo ritrovare uno spazio per questo tipo di dialogo, pareva proprio che questa per lui fosse la priorità da non disattendere. Mi interesserebbe conoscere di più del suo contributo al dialogo interno al Team X.

Stefano Boeri: Sarebbe interessante che ci parlassi pure di Urbino, perché vi fu in effetti un incontro del Team X a Urbino, proprio nel momento in cui tu stavi lavorando più intensamente laggiù.

G.D.C.: Si, sono due gli incontri che abbiamo fatto. Uno a Urbino e uno a Terni.

Stefano Boeri: E' interessante notare il fatto che questo gruppo fosse una élite - mi pare non si possa negarlo - ma che ogni volta che si riuniva approfittava di questi incontri per trasmettere certamente un pensiero ma anche un'esperienza fatta su contesti e occasioni molto più concreti. Così in circolazione, oltre alle idee, andava anche questo sapere concreto e le due cose andavano insiemee questa unione non rappresentava una forma di pensiero astratto, erudito.

G.D.C.: Eh sì! La cosa interessante del Team X era questa tensione fertile. Per fare un esempio: la mostra che gli Smithson hanno fatto alla Triennale del "grande numero" a me non piaceva molto. La trovavo un po' svagata, però non era così importante che a me non piacesse.

Stefano Boeri: Va detto che in quell'occasione gli Smithson avevano portato una cosa su Firenze, sulla città storica, che in effetti aveva colto tutti un po' di sorpresa.

G.D.C.: Anche un po' con noia, direi, perché i temi di quel momento erano un po' più duri, quei tempi erano quelli in cui c'era anche la rivolta dei giovani. E invece loro sono venuti con questa cosa un po' strana.

Stefano Boeri: Si trattava di un grande prato con i monumenti e, sospesi nel cielo, c'erano gli edifici.

G.D.C.: Sì, esatto. Era una cosa molto intelligente, perché le cose che fanno gli Smithson sono sempre intelligenti. Loro erano molto intelligenti. Però, appunto, per confermare proprio quello che le dicevo: vede, mi ricordo che ai tempi quel loro lavoro non mi piaceva molto, ma ne capivo l'importanza. Il punto cruciale, a pensarci, consisteva nel fatto che non era così importante che mi piacesse; quello che mi importava era che fosse intelligente. Quindi la loro mostra non mi piaceva, ma ero contento che l'avessero fatta. Il Team X era così, nessuno di noi faceva l'architettura dell'altro e le nostre architetture messe a confronto non si rassomigliano per niente. La mia architettura non ha niente a che fare con quella di Peter Smithson o di Candilis: c'è uno spirito comune ma non c'è linguaggio comune.

Hans Ulrich Obrist: Ci può dire come è nato questo gruppo, perché è molto particolare che in questa differenza possa nascere un gruppo.

G.D.C.:
Quando chiedevano a Shad Woods cos'era il Team X, lui rispondeva: "è un club di persone che hanno i piedi piatti". Perché sia lui che Peter Smithson camminavano come le papere, con piedi privi di arco plantare. Erskine invece diceva: "è una riunione di persone che fanno quello che dicono", cioè che mettono coerenza nel pensare e nel fare architettura. Sono interessanti tutte e due le definizioni, perché la prima è ricca di humour, intende dire "non prendete troppo sul serio queste cose". Gli architetti si prendono sempre tanto sul serio, almeno in pubblico. Noi invece non abbiamo mai chiamato un giornalista, non abbiamo mai fatto un manifesto, sostenevamo - per principio - che non era affatto definitivo quello che dicevamo.

Hans Ulrich Obrist: Il Team X non era quindi una reazione contro qualcosa.

G.D.C.: Non era contro qualcosa. Noi avevamo sciolto il CIAM: lo abbiamo sciolto noi il CIAM. Lo abbiamo sciolto in tutta tranquillità, non eravamo certo contro Le Corbusier, Le Corbusier lo consideravamo un grande architetto. Continuiamo a considerarlo un grande architetto; non era lui il problema. Le Corbusier è un grande architetto ma non necessariamente un architetto che bisogna seguire o di cui dobbiamo essere allievi fedeli come lo erano alcuni membri del CIAM, i Ciamisti - come noi li chiamavamo. Consideravamo, e io continuo a considerare, Le Corbusier un grande architetto ma niente di più: e del resto è già molto.

Hans Ulrich Obrist: E qui, se posso dire, emerge una grande differenza con i situazionisti o con altri gruppi che diedero vita invece a una forma di contestazione, a una dialettica molto contemporanea, che ha segnato il tempo. Mi chiedo se il problema oggi non sia nel fatto che molti artisti, molti architetti, molti urbanisti, hanno questo desiderio di ricostruire dei rapporti di dialogo, ma non vi riescono perché manca una spinta o quantomeno una resistenza contro qualcosa che potrebbe unire.

G.D.C. (interrompendo): Noi non eravamo contro, no, no, o se contro qualcosa eravamo si trattava dello spirito burocratico. I CIAM erano diventati un'organizzazione burocratica e noi eravamo contro quella burocrazia. Ma non eravamo contro particolari architetti dei CIAM. Le Corbusier per noi era un grande personaggio, lo rispettavamo; stimavamo invece meno gli allievi di Le Corbusier, i fanatici di le Corbusier, però tutto finiva lì. La cosa importante è che noi ci occupavamo di architettura, questo era molto importante. Noi non eravamo critici, eravamo architetti, facevamo architettura e tutti i nostri discorsi erano rivolti a questo: al fatto che noi poi l'architettura la facevamo. Quindi eravamo molto concentrati sui problemi di contenuto e di linguaggio dell'architettura. E come sempre quando ci si concentra su una questione in cui si crede era interessante avere scambi con l'esterno e non certo per arrivare a un linguaggio unico. Tutt'altro, cercavamo proprio tutt'altro.

Stefano Boeri: Non per fare una scuola, insomma.

G.D.C.: Non per decidere uno stile. Non avevamo nessuna intenzione di definire uno stile da raccomandare agli altri. Questo non ci interessava, non era il nostro problema. Per questo nel Team X si trovano interessi incrociati. Io posso dirle di avere avuto molta simpatia intellettuale, anzi congiunzioni intellettuali, con persone come Peter Smithson per esempio. C'è una discussione tra noi che continua da 30 anni, ogni volta che ci incontriamo sembra che ci siamo lasciati la sera prima, ricominciamo i nostri discorsi da dove li avevamo lasciati.

Hans Ulrich Obrist: Lui mi ha detto la stessa cosa.

G.D.C.: Invece con Van Eyck era molto diverso: con lui c'era invece come una confluenza di linguaggi, le sue architetture a me interessavano molto e mi interessano ancora. E le mie architetture interessavano molto Van Eyck. Un buon critico dell'architettura le scopre facilmente queste cose perché guarda i progetti e sente echi che vanno da uno all'altro. Mi interessava molto Erskine perché è un bravissimo architetto, è una persona di integrità morale straordinaria, integrità morale e sociale. Aveva lasciato l'Inghilterra per andare in Svezia, dove pensava di trovare il verso socialismo. Poi forse non ha trovato il socialismo che voleva, ma questo non è importante. L'importante è la sua coerenza in questo impulso. Nel Team X le nostre simpatie erano incrociate; le nostre riunioni erano liti come raramente mi è capitato di farne, perché discutevamo dicendo la verità, il che è molto raro. Capitava di dire: "questo progetto non mi piace per questo motivo, devi rendermene ragione". L'analisi era durissima; però siamo stati capaci di rimanere amici perché c'era stima reciproca profonda. Per esempio: non mi piacevano alcune cose che faceva Candilis, però pensavo che fosse una persona di grande qualità umana, di grande onestà, che impegnava tutta la sua vita con grande passione nell'architettura e tanto mi bastava.

Stefano Boeri: E' straordinario, l'assenza di questa trasparenza diventa una catastrofe dal punto di vista della costruzione di una élite intellettuale. Questa oggi di solito si costruisce solo attraverso il reciproco riconoscimento in base alla comunanza formale delle opere in architettura. Avvenne così anche per il CIAM, mentre mi pare che il Team X sia rimasto un caso mai più ripetuto.

Hans Ulrich Obrist: Però è un modello che sembrerebbe molto incoraggiante e valido.

G.D.C.: Per fortuna abbiamo lasciato pochissimi documenti dietro di noi.

Stefano Boeri: Non a caso, direi.

G.D.C.: Non a caso, certo, e forse si può dire "per fortuna", perché così quello che nascerà sarà nuovo, non sarà una riproduzione.

Hans Ulrich Obrist: Quando prima abbiamo parlato della Triennale lei ha parlato anche di Kepes. Mi interesso molto a questo aspetto perché Kepes parlava molto di una certa transdisciplinarietà e dell'importanza di tutto ciò. Quando ho parlato con Smithson mi sottolineava per la sua ricerca, oltre agli incontri e alle relazioni del Team X, anche l'importanza - e quasi la necessità - di questi dialoghi con artisti di diverse discipline. Vorrei domandarle come vede lei questa interdisciplinarietà per il suo lavoro.

G.D.C.: E' una domanda un po' difficile questa, per me. Me la sono rivolta spesso. In realtà sono spesso diffidente verso gli artisti che lavorano per "produrre arte". Devo dire che l'unica persona con la quale io ho lavorato molto bene - sembrerà un po' ridicolo dirlo -è Fernand Leger, che ha fatto per me, su una nave (uno dei primi lavori che avevo fatto) una grande tela che poi ha incollato su una parete di 6 metri per 2,10. Ecco, vede, questo contatto è stato per me fondamentale.

Hans Ulrich Obrist: Che anno era?

G.D.C.: Era il '51, '52. Per me l'incontro con Leger era stato fondamentale perché Leger era un grande artista, perché Leger era un uomo di generosità umana straordinaria e perché sapeva che cos'è l'architettura. Sapeva davvero cos'è l'architettura. Ha partecipato al convegno dei CIAM di Atene e lì ha tenuto un discorso bellissimo sul Paris II, mentre redigevano la Carta di Atene. Aveva parlato in polemica con gli architetti ed era stato molto interessante. Lo ripeto, questo capitava poiché Leger sapeva che cosa è l'architettura. Molto spesso mi ritrovo con artisti che non sanno cos'è l'architettura o la considerano meno importante della loro arte e questo mi irrita ancora di più, non perché io pensi che l'architettura sia il centro del mondo, ma perché penso che se uno non è interessato allo spazio, alla qualità dello spazio, è semplicemente perduto. Perché la qualità dello spazio venisse distrutta non ci sarebbe più niente nel mondo che valga la pena di esperire. Allora quando incontro qualcuno che non è interessato alla qualità dello spazio io divento molto sospettoso. Così ho un rapporto spesso difficile con gli artisti perché alla fine molti di loro non chiedono tanto di collaborare, ma di "entrare", il che è diverso. Ci sono molti artisti che io stimo. Ho trovato qualche facilità di collaborazione con personaggi a lato rispetto alla produzione d'arte: come Kepes, per esempio. Kepes era però più che altro un critico, anche se dipingeva molto.
Perché dipinge molto. Lei lo sapeva?

Hans Ulrich Obrist: Lui ha fatto dei cataloghi con delle illustrazioni multimedia, con delle installazioni interattive e sulla partecipazione ai processi di produzione artistica.

G.D.C.: Abbiamo discusso molto delle sue ricerche. Lui, quando l'ho incontrato al M.I.T., si interessava a come riuscire, adoperando nuovi mezzi multimediali, a dare nuove rappresentazioni della città, non consuete e molto significative. Alla Triennale aveva portato tre opere (in realtà lui diceva che una sola era la sua e la riconosceva): erano visioni molto particolari della città notturna, in particolare di Boston. Riusciva, con questi mezzi multimediali, a dare un altro significato alla città. Erano molto interessanti i suoi lavori: li aveva fatti con McNulty, che era architetto, perché Kepes era pittore e critico d'arte ma non era architetto e se dveva fare un modello si doveva rivolgere a qualche architetto. Allora era il '68: erano gli anni che vanno dal '67 al '70, io andavo molto negli Stati Uniti; proprio in quel periodo ho fatto dei corsi al M.I.T.; vedevo Kepes spesso. Anche allora a scuola si discuteva di più di quanto si discuta adesso, credo. C'erano molte riunioni in cui si discuteva su cosa si insegnava e sul perché lo si facesse. Adesso credo che non capiti più. Una delle discussioni fondamentali verteva sulla partecipazione, che stava venendo fuori proprio allora negli Stati Uniti, come un'esigenza sollecitata sia dal basso che dall'alto nell'Università.

Hans Ulrich Obrist: La partecipazione nel senso dell'architettura e dell'urbanistica o nel senso della pratica dell'università?

G.D.C.: Nel senso di tutto, direi. Cioè per capire come si poteva stabilire un nuovo rapporto con le persone in maniera da non avere una direzione unica di dialogo, ma da avere direzioni multiple e complesse. Questo era un tema fondamentale, poi all'interno dell'architettura si trattava di capire come la gente si rappresenti attraverso le figure architettoniche. Rappresenti i suoi bisogni ma anche le sue aspettative, i suoi desideri e il suo modo di vedere il mondo. Questi sono i grandi problemi che discutevamo e Kepes era di grande aiuto in queste discussioni perché aveva fatto, tutto sommato, l'intera trafila dell'architettura moderna. Non so dire che età abbia Kepes. Di certo è piuttosto anziano, ma non so quanti anni abbia.

Stefano Boeri: Sai che nei suoi libri non c'è la data di nascita?

Hans Ulrich Obrist: Io credo di averla trovata, dovrebbe avere 95 anni, è nato all'inizio del secolo, nel 1905 o 1906 credo.

G.D.C.: Era un personaggio molto curioso perché aveva i cap elli tutti neri, non tinti, proprio neri, e quindi era difficile capire che età avesse; inoltre era fresco di pelle e aveva una moglio - spero l'abbia ancora - deliziosa, molto intelligente e gentile.


Hans Ulrich Obrist: E' molto bello il racconto che mi ha fatto della sua collaborazione con Leger e con Kepes. Mi domandavo se avesse avuto altri incontri simili con la scienza.

Stefano Boeri: Puoi parlare di quelli in campo musicale.

G.D.C.: Si, ce ne sono, ma ora non riesco a metterli a fuoro.

Stefano Boeri: C'era il dialogo con Stockhausen.

G.D.C.: Stockhausen, si è vero. E' venuto all'ILAUD due volte e si è fermato 3 o 4 giorni ogni volta. Una volta a Siena aveva anche dato uno spettacolo molto bello. Ho avuto discussioni molto interessanti con lui. Era venuto anche Berio , però il discorso con Stockhausen era stato molto interessante perché è un uomo molto coinvolto, dotato di un'energia spaventosa. Stockhausen aveva discusso con noi il problema della partecipazione trovando analogie, che di fatto esistono, tra il mondo della musica e quello dell'architettura. Stockhausen considera la musica un campo di partecipazione, anche se non si ha immediatamente questa percezione perché la sua è una musica molto personale. Ma il suo modo di montarla non lo è, perché i suoi spettacoli sono anarchici. Il suo pensiero è un pensiero davvero sibilante, va in tutte le direzioni. E' molto interessante. Se penso poi ai rapporti con la scienza mi viene in mente che all'ILAUD abbiamo avuto molti scienziati che sono venuti a discutere: dagli astronomi ai fisici.

Hans Ulrich Obrist: Cosa è l'ILAUD?

G.D.C.: L'ILAUD è un laboratorio internazionale: raccoglie il sostegno di 13 università in questo momento, per la maggior parte europee e nord-americane. Durant el'anno dovrebbero, ma non tutti lo hanno, lavorare su un tema che abbiamo stabilito con un gruppo. Dopo di che nel mese di agosto, per 5 settimane, mandano 5 o 6 studenti per ognuna delle università e 1 o 2 docenti. Poi noi invitiamo altre persone. Smithson è uno dei quelli invitati sempre a stare con noi per 15 giorni, ma vengono anche altri che stanno 2 o 3 settimane. E questi lavorano con gli studenti in gruppi internazionali su un tema scelto sulla città, per esempio a Venezia ultimamente abbiamo lavorato sull'Arsenale.

Stefano Boeri: Ogni estate il luogo cambia, ci si trasferisce. Adesso sono tre anni che si sta a Venezia, prima a San Marino e a Urbino.

Hans Ulrich Obrist: E' un laboratorio nomade?

G.D.C.: E' esattamente come un laboratorio nomade.

Hans Ulrich Obrist: Ed è lei che lo ha fondato?

G.D.C.: L'ho fondato insieme a alcuni amici di altre università. Don Lyndon del M.I.T., Henry Millon, Sverre Fehn, Bengt Edmann

Hans Ulrich Obrist: In che anno è nato l'ILAUD?

G.D.C.: Nel '76. E' vecchio, ha già 25 anni. Come spesso capita con le iniziative culturali solo vagamente si sa che esistono. Non sono scoppiettanti come le castagne appena messe sul fuoco.

Hans Ulrich Obrist: Ho letto che anche molto suoi progetti, che sono in un certo senso costruiti in evoluzione, sono evolutivi; in particolare mi viene in mente il caso di Urbino. Vorrei sapere da Stefano cosa ne pensa.

Stefano Boeri: Io penso che l'esperienza di Urbino, nella situazione italiana, sia unica. E' un servizio di un architetto che non solo riesce a depositare alcuni segni fondamentali nel tessuto della città in punti diversi ma che riesce, a distanza di alcuni decenni, in qualche modo a reinterpretare gli stessi segni che lui ha depositato con una nuova offerta di architetture. In questo senso credo che Giancarlo sia un architetto che, come dire, richiama alcune figure dell'architettura rinascimentale come propensione a fare parte della storia dell'evoluzione di una città. Se allora pensiamo a Urbino, per esempio, questo fatto della nuova inaugurazione dell'università di Economia è l'ultimo di una serie di eventi che non si sono mai interrotti.

Hans Ulrich Obrist: E come è cominciata quest'esperienza?

G.D.C.: Tutto è dovuto a un letterato italiano di grande valore che si chiama Carlo Bo, che per 50 anni è stato Rettore dell'Università di Urbino e lo è ancora. Lo avevo conosciuto durante la resistenza, attraverso Elio Vittorini, grande scrittore italiano, e Italo Calvino, che lei conosce di sicuro. Anch'io, come Bo, ero amico di Calvino e Vittorini e Carlo Bo ha pensato - sembra normale, detto così, ma non è affatto normale nella realtà - che bisognava farlo non solo cambiando i professori e gli insegnamenti, ma anche cambiando lo spazio fisico. Nessuno pensa allo spazio come stimolo, oltre che prova, di rinnovamento. Invece Carlo Bo ha avuto questa intuizione, mi ha chiamato e insieme abbiamo cominciato dal niente.

A questo punto arriva Rem Koolhaas

Stefano Boeri: Ah, ecco, è arrivato.

G.D.C.: Facciamolo entrare.

Hans Ulrich Obrist: Ma è piuttosto rara questa cosa.

G.D.C.: Non è normale, insomma, che accada quanto è accaduto a Urbino ma grazie a Carlo Bo è accaduto: abbiamo cominciato con niente perché c'erano pochi soldi, abbiamo cominciato con un piccolo intervento nella vecchia sede e poi, man mano, il progetto si è allargato.

Rem Koolhas: Hello, I am really happy to meet you.

G.D.C.: Oh, thanks a lot. Please take a seat.

Stefano Boeri: Would you like to have a place where to rehearse your lecture for tonight at the Triennale?

Rem Koolhas: Well, I'd rather stay here and listen.

Stefano Boeri: Giancarlo was telling Hans about his projects in Urbino.

Hans Ulrich Obrist: Lei diceva di aver iniziato con pochi mezzi.

G.D.C.:
Si, avevamo cominciato con piccoli interventi e poi siamo andati avanti: quello che è interessante è che è stato un processo davvero evolutivo, come diceva anche Stefano, nel senso che davvero io ho cominciato da piccole mosse, poi ne ho fatte altre, e in seguito sono tornato su quelle di prima. La progettazione dei luoghi universitari di Urbino è diventata come permanente: dura dal 1951, sono lì da mezzo secolo. La mia esperienza a Urbino dura da mezzo secolo e se si può dire che è stato un processo evolutivo è perché ogni volta l'esperienza è stata nuova. Adesso ho finito la facoltà di Economia, dove ho cercato di travasare l'esperienza che avevo fatto in tutti i miei progetti. A me interessa questo modo di lavorare e nella mia vita ho avuto fortuna, perché ho potuto continuare a fare questo gioco. Anche a Catania si è cominciato con poco, e adesso è diventato un processo complesso che coinvolge la città.

Hans Ulrich Obrist: Da quanti anni lavora nell'università di Catania?

G.D.C.: A Catania sarò arrivato negli anni '80. Quest'esperienza è quindi un poco più breve, però è analoga a quella di Urbino. A Catania sto lavorando a vari progetti che confluiscono uno nell'altro e mi interessano molto.
Sorry, can you follow us?

Rem Koolhas: Oh yes.

G.D.C.: Where did you learn Italian?

Rem Koolhas: In Italy.

Hans Ulrich Obrist: Si può parlare di un accumularsi, di un processo accumulativo?

G.D.C.: Di un evolversi - piuttosto - evolutivo, come ha detto Stefano, che ha aggiunto anche "rinascimentale". Mi sembra proprio che gli architetti rinascimentali lavorassero molto bene. Perché avevano proprio questo modo di progettare itinerante e al tempo stesso legato al luogo. Io ho sempre pensato che non sono cittadino nei luoghi dove progetto e sono contento di non esserlo, perché solo così posso vedere con chiarezza il contesto che non vedrei con il distacco necessario se fossi cittadino. Mi piace di essere in parte cittadino e in parte viaggiatore, mi interessa molto essere attaccato e allo stesso tempo estraneo ai luoghi, altrimenti perdo l'ansia e il piacere della scoperta oltre al piacere del distacco. E' un grande piacere poter guardare alle cose da una certa distanza. Mi ha interessato molto per esempio insegnare all'estero, non solo perché avevo modo di conoscere nuove realtà, ma anche perché potevo vedere l'Italia più lontana, così riuscivo a capire meglio come era fatta. Io amo molto l'Italia, ma sono molto critico nei suoi confronti.

Hans Ulrich Obrist: Vorrei ritornare sul principio del vostro laboratorio: state alcuni anni in alcune città e poi il progetto diventa itinerante?

G.D.C.: Siamo stati in varie città. Siamo stati a Urbino per sei anni, poi siamo stati a Siena nove anni, poi siamo tornati a Urbino per tre anni e poi siamo andati a San Marino - una piccola repubblica nel ventre dell'Italia - e adesso siamo a Venezia. A Venezia per tre anni abbiamo lavorato sul problema chiave della città, che è l'Arsenale. E' interessante anche questa ultima tappa! Le cose capitano poi, per caso, anche se poi non sono mai del tutto per caso. Che questo viaggio che dura da 25 anni sia arrivato a Venezia mi sembra interessante, perché Venezia è, secondo me, il punto caldo del problema urbano. Intendo dire che a Venezia si vede tutto del problema urbano. A Venezia si scopre il resto del mondo e non perché il resto del mondo è Venezia. Però a Venezia ci si rende conto della complessità del problema urbano negli infiniti modi in cui si manifesta. Ci si accorge dei legami tra l'organizzazione fisica della città e l'ambiente e la rappresentazione dell'ambiente, che a Venezia è incredibilmente eloquente e chiara. Venezia è una città che sempre ti tiene incatenato con ansia di architetto.

Stefano Boeri: Venezia è una delle città italiane che negli ultimi anni ha visto nascere più progetti di architettura contemporanea. Questo è un paradosso incredibile, da un certo punto di vista.

G.D.C.: Mi pare che sia vero, si è molto progettato. Io, per esempio, sto costruendo un edificio al Lido.

Rem Koolhas: But how would you explain that process happening in Venice?

G.D.C.: I think that the main reason is because they have an excellent mayor, an intellectual person, a philosopher, Massimo Cacciari, very close to architecture, knowing very well about architecture. I think that was a good opportunity for Venice to get a period of modernisation, new ideas and openings.

Rem Koolhas: And does it work?

G.D.C.: I think it worked, but now Cacciari is leaving Venice to run as president of the Region, I think it is a pity for the city, but anyway the process started and I hope it will continue. Actually I am building a project at the Lido, and that also is a very interesting topic because the relationship between Venice and the sea is a crucial problem and so I've found myself in trouble, as they gave to me a commission for a something becoming uncommon in Italy: a public building which should contain a restaurant, cafe and a piazza where people can enjoy the place and see the sea. That is not really common today to consider the lack of these spaces as a social problem, they normally consider housing or schools social problems, not places for leisure.
Oh, mi scuso siamo scivolati fuori dal tema.

Hans Ulrich Obrist: Vorrei rivolgerle ancora una domanda che pongo a tutti gli artisti che incontro sul tema del progetto non realizzato preferito. Quali tra i progetti non realizzati vorrebbe realizzare per primo?

G.D.C.: Sono due domande quele che mi ha fatto: una è "quali sono i miei progetti non realizzati preferiti", e l'altra "quali sono i progetti che vorrei vedere realizzati". Sono due le domande. Alla seconda domanda non saprei bene cosa rispondere, perché non so se li vorrei vedere realizzati, non sono sicuro: perché sono stati fatti in un altro tempo, e forse se li facessi adesso li farei diversi, anzi sono quasi sicuro che li farei diversi. Noi abbiamo fatto un progetto, tutti e due, Rem Koolhas ed io, separati, a Salonicco e a me piaceva il mio progetto, però se adesso lo dovessi rifare non so se lo rifarei così. Perché sono cambiato io.

Hans Ulrich Obrist: Magari è cambiata anche Salonicco.

G.D.C.: Sicuramente è cambiata anche Salonicco. Una virtù mirabolante dell'architettura è che il suo tempo continua a variare e se uno è veramente un architetto ed è in sintonia col tempo, non può rifare la stessa cosa a distanza di cinque anni.

Rem Koolhas: Absolotely true. Not even in four years.

G.D.C.: Non può rifare la stessa cosa. Se è in sintonia col tempo; se invece fa dello stile può farlo, sì. Gli architetti che fanno dello stile possono fare sempre la stessa cosa, gli architetti che invece sono legati al cambiamento del tempo non possono fare la stessa cosa. L'altra domanda è quali sono i miei progetti preferiti. Beh, io ho avuto un grande dolore a non poter costruire la torre di Siena, che secondo me conteneva novità interessanti. E' un progetto che mi è molto dispiaciuto di non realizzare.

Hans Ulrich Obrist: Questo progetto era in origine per un concorso?

G.D.C.: Sì, era per un concorso. Mi dispiace anche di aver perso il concorso dell'IUAV a Venezia perché sono sicuro che il progetto conteneva spunti interessanti.

Stefano Boeri: Probabilmente domani risponderesti in un altro modo.

G.D.C.: Sì, risponderei di certo in un altro modo. Mi dispiace di averlo perso perché mi sarebbe piaciuto fare a Venezia un progetto di quel genere, che è molto difficile. La mia vita è punteggiata di progetti che non ho realizzato, ho realizzato pochissimi progetti rispetto a quelli che ho fatto.

Rem Koolhas: What is the percentage of projects you realised?

G.D.C.: I believe 15 per cent, I would say, I think I built 15 per cent.

Rem Koolhas: So you've built up fifteen percent?

G.D.C.: I think so, is it the same for you?

Rem Koolhas: Oh no, less.

G.D.C.: Oh well maybe I am exaggerating. E' quasi una condizione esistenziale questa per un architetto di progettare molto e di realizzare poco.

Rem Koolhas: But do you think it matters? Because I now have the feeling that it doesn't really matters. The need to realise is almost arbitrary. But that is maybe also because there are so many of media, that in the perception of many people actually don't know whether something is actually built or not built. Which is not necessarily a happy situation.

G.D.C.: But when you arrive at a certain point in your life Anytime I lost a competition it was a suffering, a drama. And I was also angry everytime, you know. But now looking in perspective, you know, I think that so is the life of an architect. And I am sure I didn't loose what I lost, it was recovered in a way in another project.

Rem Koolhas: In terms of intensity?

G.D.C.: Yes, intensity, and then you know you need some rage, so if you win all competitions you are no longer enraged. And you have to be enraged constantly, because if not you loose your tension.

Rem Koolhas: How do you generate rage now?

G.D.C.: Oh, I have many reasons.

Rem Koolhas: But no more loosing?

G.D.C.: Oh no, I am going to loose, well I have lost just recently a competition for five "piazzas" in Milano.

Rem Koolhas: But was it a single competition or different ones?

G.D.C.: No, it was just one, for five different places around the city.

Rem Koolhas: I really would be enraged too, then!

Hans Ulrich Obrist: C'era un'ultima questione che vorrei discutere, concernente questo aspetto della partecipazione. Ero interessato a queste strategie partecipatorie molto complesse.

Rem Koolhas: Yes, that would be really interesting because if I think about it, your attitude in that is quite essential, because you worked in the beginning when it was still totally authentic and then it became political and very degraded, so I would like to know if you saw these changes.

G.D.C.: I agree with you. If you consider the end of sixties, where at the same time two things which were important. One was the rebellion of the students and the other one was a new consciousness in the trade-unions, that was also quite relevant. The workers at that time were crucial. In that period I had made two projects, one was for a housing complex in Terni and the other one was the urban plan for the new center of Rimini, both based on the idea of participation. Then after that moment a more bureaucratic period started, when participation became something very formalistic and stupid. The problem to me had changed, and we tested this changes within the ILAUD: the question was how to make an architecture which can intrinsically be participated and this becomes a question of language. How can the language be such as that it favours and pushes participation, I think that this question still has to be explored, in many different fields, I think for instance at the technology we use, I think it is important to use technologies which are understood. So I believe that the crucial issue, still is to use language that people can understand, penetrate and eventually use. So the process in my opinion now is longer.

Rem Koolhas: Are you still working on language, now?

G.D.C.: Yes, I am still working on language, yes. Participation is something that you should start, but then, and this is something that you should not forget, it lasts forever.

Rem Koolhas: Yes, in fact somehow I fell I miss it.

Hans Ulrich Obrist: But what do you mean when you say that you miss it.

Rem Koolhas: Well, you miss a certain kind of resistance.

G.D.C.: In terms of nostalgia?

Rem Koolhas: No, in terms, really, of resistance, and of course that is not contemporary anymore.

G.D.C.: Sì, questo è del tutto vero.


     

 
 

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