Tiziano Scarpa è nato a Venezia nel 1963 e vive a Milano. Ha pubblicato il romanzo Occhi sulla Graticola (Einaudi 1996). Con la commedia radiofonica Popcorn ha vinto la quarantanovesima edizione del Prix Italia. Il suo racconto Madrigale è pubblicato nella raccolta Anticorpi. Racconti e forme di esperienza inquieta (Einaudi 1998).
Questo racconto uscirà a settembre nel suo nuovo libro Amore


 

TIZIANO SCARPA
BODY BUILDING

racconto su un padre
8 fermate

Ho compiuto ventun anni, e mio padre mi ha regalato gli attrezzi per il body building.
"Hai due spalle che fanno pena".
"Ma papà, non ho tempo. Devo studiare".
"Come, non hai tempo! Un'ora, mezz'ora al giorno, dài che facciamo gli esercizi insieme".
Tre settimane dopo ha sbadigliato in faccia al capufficio; gonfiando il collo gli ha sparato addosso il bottoncino del colletto della camicia, e poi quelli sul petto, a mitraglia. Ha dovuto cambiare il guardaroba. Dopo un mese gli andava di nuovo stretto tutto.
"Stai attento", gli diceva suo cognato, "con gli anabolizzanti non si scherza". é veterinario, mio zio.
"Ma non la prendo mica quella roba lì", ribatteva mio padre, un po' offeso, come se lo avessero beccato a barare. "Solo qualche vitamina ogni tanto. Piuttosto, ho una fame tremenda, mangerei giorno e notte. Mi va via mezzo stipendio solo di bistecche".
"Attento lo stesso, anche il colesterolo fa brutti scherzi".
"Sai sempre tutto, tu, ma io non sono mica uno dei tuoi vitelli imbottiti di estrogeni. Comunque il mio medico dice che è tutto a posto. Cosa credi, io i controlli li faccio. E poi, seguo le regole". A quel punto mio padre sbandierava i suoi manuali di body building. Quello tascabile lo portava sempre con sé. Edificate (il titolo del libro faceva capolino sul fianco della giacca) il vostro corpo, (mezzo nascosto nella tasca).
Gli esercizi con gli attrezzi certe volte non gli bastavano; gli venivano delle smanie; aveva voglia di spaccare tutto; si è comprato un'accetta, ha sfasciato l'armadio vecchio già nel cortile del condominio.
"Cosa fa, signor Panizzon, le hanno tagliato il gas? Avete la caldaia rotta?", gli ha gridato dalla finestra la signora del quinto piano.
Un anno fa si è messo in testa di partecipare a un concorso estivo.
"Ma dài, Ettore, alla tua età!", gli ha detto mia madre.
"Quarantanove anni, praticamente sono un ragazzino".
"Ti farai solo ridere dietro".
Però intanto sentivo ridere lei di notte, di là in camera. Stavo alzato a preparare gli esami; ero a metà di una frase di Weininger, dunque uomo e donna sono come due sostanze distribuite tra gli individui viventi in proporzione variabile, e intanto mio padre mi chiamava di là in camera per mostrarmi come alzava cinque chili appesi al mignolo del piede: così, semplicemente sollevando il ditino. Senza trucchi, perché il resto del piede rimaneva fermo, appoggiato allo sgabello.
"Visto?", diceva fiero, e mia madre batteva le mani.
Io facevo una smorfia che voleva dire: ma va' là, e tornavo nella mia stanza a studiare, uomo e donna sono come due sostanze distribuite in proporzione variabile, senza che il coefficiente di una delle due sia mai pari a zero, però attraverso il muro lo sentivo che continuava a fare lo sbruffone.
"E adesso, si—ressi—ri, il muscolo dei muscoli!", diceva. "Un disco da dieci a destra, un disco da dieci a sinistra! Un altro da cinque a destra, un altro a sinistra!".
Nell'esperienza non esistono l'uomo e la donna, si potrebbe dire, alzavo di nuovo gli occhi dalla pagina al suono del rullo che avrebbe voluto creare la suspence; una stamburata fuori cadenza. Sul culo di un fustino, credo. Tump, ponf, ponf, dum. Dev'essere stata mia madre: anzi, di sicuro era lei, non ha mai avuto il senso del ritmo, lei.
"più la barra del bilanciere e il gancio, fanno trentacinque chili!".
Dum dum, ponf, tump, non esistono l'uomo e la donna, si potrebbe dire, ma soltanto il maschile e il femminile. Perciò un individuo A o un individuo B, il rullo si interrompeva, c'era un gridolino di sorpresa, "Oddìo! Ti si spezza tutto, Ettore! Per fortuna che lì non hai ossa!", diceva ridendo mia madre, "non esagerare, adesso!", un'altra sghignazzata acuta, un applauso, "Bravo! brà-v—!", perciò un individuo A o un individuo B non possono essere definiti "uomo" o "donna" senz'altro, sul pavimento rimbombava il tonfo del bilanciere appoggiato per terra, "E questo è niente! Lo raddoppiamo, il record! Settanta chili di carne umana viva!", diceva mio padre, altro trambusto, "Cosa fai, Ettore! Peso troppo! Non scherzare: peso, io!" non possono essere definiti "uomo" o "donna" senz'altro, ma ciascuno va descritto, "E adesso: senza mani!", diceva mio padre. "Mettimi già! Basta, Ettore! Mi squarti! Arriva fino al letto e mettimi già!", ciascuno va descritto secondo le frazioni che ha di ambedue.
Il bello è che quattro mesi dopo al concorso ci è andato davvero. Fino a quel giorno, per quattro mesi ha riempito la casa di creme, flaconi d'olio, integratori alimentari, sveglie puntate sul minuto esatto degli spuntini fuori pasto, tabulati calorici, tabelle degli allenamenti, tabelloni con gli aumenti di carico degli esercizi: li teneva sempre aggiornati, tracciava a pennarello ogni progresso, disegnava bilanci in ascesa, catene montuose di grafici. Conquistava picchi, vette, cocuzzoli. Ingigantiva.
"La routine", insisteva ogni cinque minuti, "devo rispettare la routine". La routine era la scaletta degli esercizi giornalieri. Ormai mio padre parlava soltanto il gergo dei palestrati, si faceva di riviste specializzate e videocassette dimostrative, 'SuperMuscle', 'BodyBomb', 'Exploit'.
"Ancora un set di abduzioni per definire il sopraspinato", diceva grondando sudore. Oppure: "Non vorrei mai che troppo squat mi fottesse le fibre ossidative".
Mi sembrava che fosse diventato perfino un po' più alto. Si è lasciato crescere i capelli, lui che era sempre andato dal barbiere una settimana sì e una no.
C'era questa discoteca a Jesolo, il Devastum, mio padre si è messo in ferie una settimana prima e ha preso una camera d'albergo a Jesolo, con mia madre, per avere tutto il tempo di perfezionare le pose da ercolino e presentarsi alle selezioni preliminari bello abbronzato.
Dopo cinque giorni, ho ricevuto la telefonata da mia madre.
"Vieni su anche tu, dài. Tuo padre domani sera fa la finale".
"Devo studiare, io".
"Ma cosa vuoi che sia, per una sera! Di sabato, poi. Ci tiene tantissimo, dài".
La mattina dopo ero a Jesolo. Sono entrato nella camera d'albergo. Mio padre era disteso nudo. Occupava tre quarti del letto matrimoniale. Mia madre gli stava dando un ultimo ritocco con il rasoio, lo percorreva con la pupilla dalle dita dei piedi alla fronte, attraverso una lente da investigatore rasente la pelle, e ogni tanto lo sfiorava con il bilama. La solita mania degli ultimi tempi; non ce n'era per niente bisogno: mettendo su muscoli, mio padre era diventato quasi completamente glabro.
"Noi fra un paio d'ore scendiamo a pranzo. Perché non vai a farti un bagno?".
"Non mi va".
"Come fa a non venirti voglia, con questo sole! Non è male l'acqua, stamattina mi sono buttata presto, era limpidissima".
"Sto qui già sotto la veranda, mi sono portato un libro".
"Non puoi leggere anche al sole?".
"Non mi va di prendere il sole così tutto d'un colpo. Picchia troppo forte, oggi".
"Di' la verità, è per via dei peli? Vuoi che faccia la ceretta anche a te?".
Gli esercizi con gli attrezzi io non li facevo quasi mai, ero più stretto e smilzo di prima, solo che mi erano spuntati un'infinità di peli. Tranne occhi, unghie e denti, stavo diventando un batuffolo nero. Mi vergognavo a stendermi così sulla sabbia, mi avrebbero arrestato per inattività oscena in luogo pubblico.
La giuria del Devastum: qualche finta modella, il pacchetto di mischia di una squadra di rugby femminile, tre ragazze sorteggiate fra il pubblico, due gestori di palestre, la moglie del proprietario della discoteca, il campione di due anni fa, Miss Culetto d'Oro della settimana scorsa, e un semplice grassone anzianotto. Mio padre è salito sul palco come sesto concorrente, dopo un paio di giovanotti un po' loffi, un truzzo di Crotone alto un metro e mezzo, due piloni gemelli, completamente calvi, con i baffi. La presentatrice grattava il microfono a forza di erre mestrine retroflesse: l'ha annunciato come "la sorpresa della serata".
Si è fatto avanti in tanga rosso fuoco, i capelli grigi placcati sul cranio, con il gel, tirati sulla nuca, il codino a svirgolo. Nonostante mesi di esercizi di digrignamento per far quadrare la mascella, le guance cadenti gli davano l'aspetto di un molosso malinconico. Ha cominciato a fare la serie di pose da bronzo di Riace di San Donà di Piave. Riflessi iridescenti guizzavano sulla sua pelle, era tutto unto dalla testa ai piedi, pronto per farsi friggere dal pubblico. Qualche fischio, applausi di sfottò, mi è sembrato, e una battutina carogna.
"Stringi più forte il culo sennò ti sgonfi, nonno!", ha gridato qualcuno fra la folla: io.
"Non le piace?", mi ha chiesto serio un tizio con il cravattino giallo di fianco a me.
"Mi sembra piuttosto ridicolo", ho detto.
"Ah sì? A me no. Io rispetto la gente che non si lascia andare. Quell'uomo è in forma splendida, ci metterei la firma a essere così fra vent'anni. Troppo facile fare gli spiritosi".
"Lei è del servizio d'ordine?", gli ho domandato.
"Prego?".
"Lavora per la discoteca?".
"No, perché?".
Palette della giuria: due sette, un dieci, cinque nove, un quattro e sei otto. Il quattro era del grassone anzianotto. Il dieci della moglie del proprietario. Il voto più alto e il più basso non valevano. Totale centosette. Applausi del pubblico. Mio padre era in testa di dodici lunghezze. Un'esagerazione.
"Venduti!", ho gridato.
"Senta, perché non la smette di sgomitare e scalmanarsi e non mi lascia vedere in pace lo spettacolo", ha detto il tipo in cravattino giallo.
"Ma non vede che lo stanno prendendo in giro?", ho detto. "Quello là adesso si monta la testa perché l'hanno messo primo, non si rende mica conto che lo fanno apposta, è tutta scena per movimentare un po' la gara. Adesso che salgono su i concorrenti veri, con centosette punti ci si pulisce il culo da tutto il grasso che si è spalmato". Stavo tifando per mio padre? Ho voltato i tacchi sconcertato, sono andato a farmi un bicchierino al banco.
"Non ci vuoi proprio niente? Neanche un goccio di gin, un po' di rum?", mi ha chiesto la ragazza in minigonna di cuoio al bar.
"No, no, va bene così. Succo di pera liscio, grazie".
Mio padre ha retto miracolosamente all'assalto di un ragazzotto con le sopracciglia folte e nerissime, centosei, ma è crollato sotto il peso di un armadio di Pordenone, centododici.
Sono uscito dalla discoteca perché non mi piacciono né le agonie, né i colpi di grazia. Dopo essersi divertita, ormai alla giuria non restava che infierire, si trattava di massacrare mio padre a palettate da nove e dieci con lode. Me lo immaginavo in lacrime, ricondotto alla sua realtà di corpaccione in decadenza, e mia madre che lo consolava con la sua vocina patetica per tutta la notte. Ho preso la mia roba in albergo, mi sono messo in macchina e sono tornato a casa.
La mattina dopo mi ha svegliato uno squillo.
"Ma dove sei finito? Eravamo in pensiero". La voce di mia madre trillava più forte del telefono.
Ho risposto con un grugnito sporco di sonno.
"Non chiedi com'è andata a tuo padre? Sei proprio un orso".
"Com'è andata", ho sillabato.
"Compra il giornale. Tuo padre se l'è un po' presa".
Ho dormito un'altra oretta. Ho fatto la doccia, bevuto un caffè senza biscotti, perché ormai tanto valeva aspettare una mezz'ora e mettere su l'acqua per gli spaghetti. Mi sono ricordato del giornale. Fuori era domenica. L'edicola stava chiudendo. Ho sfogliato le pagine locali. Venezia. Mestre. Marghera. Mogliano. San Donà di Piave. Nella pagina di San Donà c'era solo un articolo sulla soppressione di un'altra linea degli autobus, tre morti del sabato sera, una rapina al bancomat, un' intervista all'assessore su chioschi abusivi e tasse sul plateatico. Ho voltato pagina: Jesolo. Ha cinquant'anni Mister Massiccio, titolava 'Il Gazzettino'. E sotto, più in piccolo: Squalificati i primi tre classificati. Baciato da Miss Culetto d'Oro, mio padre sorrideva in bianco e nero puntinato, ricevendo le chiavi della Fiat Brava e un assegno di tre milioni. Ettore Panizzon, impiegato delle poste a San Donà, vincitore a sorpresa, diceva la didascalia della foto.
Ho chiamato l'albergo.
"Scusa, ma se l'è presa perché?".
"Non dirmi che non ti ricordi quand'è il compleanno di tuo padre! Lui cinquant'anni non li ha ancora fatti!".
Incoraggiato dai milioni e dalla Fiat Brava, mio padre si è messo in aspettativa al lavoro.
Da allora è cominciata una stagione di concorsi provinciali, regionali, nazionali, europei, intercontinentali. Anche dopo la vittoria nella categoria over fortyfive a Vancouver, ha rifiutato di farsi un lifting alla faccia. Mia madre lo accompagnava dappertutto, mi spediva le videocassette a casa; lui era sempre più solido, scalpellato, compatto. Traboccava dalle foto dei settimanali; in uno spot alla tivà inghiottiva un beverone energetico. Per tutta l'estate i cinquantenni sono andati in giro con la t-shirt di Ettore Panizzon stampato in quadricromia sul torace. Ogni tanto ascoltavo le sue interviste alla televisione.
"Signor Panizzon, lei oltre che un fenomeno atletico è un enigma per la scienza medica. Nel giro di pochi mesi, senza anabolizzanti né altri trucchi chimici, lei ha triplicato la sua massa muscolare, e come se non bastasse ha avuto un notevole sviluppo osseo".
"Esatto. Un anno fa misuravo un metro e settanta. Ora raggiungo due metri e nove centimetri circa".
"Come è possibile tutto ciò? Ci sveli il suo segreto", chiedeva l'intervistatore, e alla fine della frase allungava in alto il microfono slanciando il braccio sopra la testa per raggiungere le labbra di mio padre.
"Mah, da un punto di vista scientifico, come diceva Lei, è un mistero, non spetta certo a me risolverlo. Ma sa, io penso che lo stress, la noia, la repressione accumulata in trent'anni da impiegato, seduto tutta la vita dietro la scrivania in ufficio... be', prima o poi esplodono".
"La domanda è un po' maligna, ma è sicuro che questa improvvisa fioritura fisica non le abbia provocato qualche scompenso di altra natura, che so, caratteriale, sessuale?".
"Guardi, c'è qui mia moglie. Basta dare un'occhiata a Agostina per rispondere alla sua domanda".
La telecamera allargava l'inquadratura e coglieva mia madre che faceva ciao su uno sfondo di palmizi e spiagge bianche: luminosa, florida, felice.
Spegnevo la tivà e tornavo a lavorare alla mia tesi su Malinowski.
Mia madre mi telefonava da Osaka, Tel Aviv, Sydney.
"Perché non prendi un aereo e vieni a far festa con noi? Tuo padre ti vorrebbe come manager. Potresti fargli da addetto stampa, ti divertiresti. Gli scrivi le risposte per i giornalisti". Sentivo l'eco sintetica dei ripetitori dentro il cavo del telefono; le sillabe di mia madre arrivavano a blocchetti, fiotti intervallati. Immaginavo una fila interminabile di tessere del domino stesa sul fondo dell'oceano; mia madre dava un colpetto alitando sulla prima tessera a Sydney e tutta la fila indiana del domino cadeva già per migliaia di chilometri fino al mio orecchio.
"Se la cava benissimo da solo, mi pare. E poi, devo finire la tesi".
Il mese scorso, mio padre è tornato in Italia per una tournée. Panizzon on tour. Ormai aveva lasciato perdere i concorsi. Alto due e quindici per centosessantotto chili di fulmicotone puro, faceva il fenomeno da baraccone. Sponsor, test clinici, bollettini antropometrici, conferenze stampa e tanta, tanta televisione.
Mi sono deciso, ho preso un treno e sono andato al talk show dove faceva la vedette della serata. In studio avevano costruito apposta una poltrona, con dei rinforzi a putrella volutamente grotteschi. Confuso tra il pubblico, covavo in testa la frase che, ne ero sicuro, avrebbe annientato mio padre di fronte a dieci milioni di telespettatori.
Il conduttore del talk show l'ha avvolto per tutta la serata di domande stupefatte, ma si capiva benissimo che avrebbe voluto lasciar perdere le parole per dare almeno una toccatina a quel corpo prodigioso, lì davanti a tutti sul palco.
"C'è qualcuno tra il pubblico che vuol dire qualcosa al nostro ospite", ha chiesto il presentatore voltandosi verso la platea; ha fatto proprio il gesto del sacerdote che offre in pasto ai fedeli un pezzetto di dio.
Ho alzato la mano di scatto insieme a un'altra ventina di persone, ma una biondina in terza fila mi ha scippato il microfono all'ultimo momento.
"Signor Panizzon", ha detto la biondina, e in quel preciso istante da mio padre è uscita un po' di tosse, due colpetti in tutto, come se si dovesse schiarire la voce, dopodiché si è accasciato in avanti, è caduto a picco dalla poltrona.
"Noi ci prendiamo un attimo di respiro", ha detto il presentatore alla telecamera lanciando la pubblicità, in un attimo un paio di addetti magrolini hanno sollevato mio padre e l'hanno portato senza fatica dietro le quinte, come se fosse diventato all'improvviso leggerissimo.
All'ospedale è durato non più di una settimana, intubato in un groviglio di cannette, cavi, cateteri. Si è come svuotato, prosciugato, accartocciato. Quando è morto pesava cinquantadue chili per un metro e sessantotto.
Certe volte mi viene in mente quella frase, sto pensando ad altro e all'improvviso vengo colto di sorpresa dalla frase annientatrice che non sono riuscito a dire a mio padre: allora sferro una raffica di pugni alla cieca, ma di fronte a me c'è sempre aria, aria, solo aria. Dopo un po' però passa, mi calmo.