Roberto Barbolini è nato a Modena nel 1951. é giornalista culturale e critico teatrale di "Panorama": nei suoi romanzi predilige i temi del fantastico: La gabbia a pagoda (Cesati 1986), La strada fantasma (Garzanti 1992), La fine di Dracula (Polistampa, 1993), Il punteggio di Vienna (Rizzoli 1995) Piccola città bastardo posto (Mondadori 1997). é autore di saggi sul fantastico letterario (La chimera e il terrore, Jaka Book 1984; Il riso di Melmoth, 1989) e ai miti del poliziesco (Il detective del sublime, Theoria 1988). Ha curato con Guido Almansi La passione predominante, un'antologia della poesia erotica italiana.


 

ROBERTO BARBOLINI
A MOSCA CIECA

racconto di suspance metropolitano
7 fermate


Voglio insegnarvi un gioco. Somiglia a moscacieca. Se siete stati bambini ai miei tempi ve lo ricorderete. Quello che perde la conta viene bendato, poi lo si fa prillare su se stesso quattro cinque otto dieci volte finché non gli viene una specie di vertigine e perde il senso dell'orientamento. Nel frattempo ci si è giù sparpagliati ai quattro venti. Tocca a lui venirci a cercare. Oppure a lei, naturalmente: quella bambina con la sottanina scozzese che sappiamo si spaventa più di tutte a restare al buio e adesso deve brancolare a braccia tese in avanti verso l'ignoto, nella speranza di acciuffare uno di noi invece che rovesciare un paralume, urtare lo spigolo d'un mobile o andare a sbattere contro la porta chiusa, scoprendo con angoscia di essere stata abbandonata per beffa dai compagni in una stanza vuota dove presto scoppierà in lacrime.
Certe volte vorrei essere proprio come quella lì: una bambina capace di piangere. Invece, ho imparato ad affrontare qualsiasi genere di spavento con gli occhi chiusi e a ciglio asciutto, come raccomandava mio padre.
Fin da piccola amavo le vertigini del luna park. Sul vagone delle montagne russe, dopo essermi inebriata della mia città vista dall'alto, stringevo le palpebre e trattenevo il fiato in attesa di precipitare nella voragine. Durante la discesa interminabile, prigioniera della mia cecità volontaria, dovevo mordermi a sangue per non urlare come facevano le mie amiche. Quando poi arrivavo in fondo, mentre la macchinetta cominciava a risalire per affrontare un nuovo tuffo nel vuoto, provavo un languore strano al basso ventre. Come se assieme alla paura, mescolandosi al sollievo per lo scampato pericolo, mi entrasse dentro una punta di eccitazione, giù nell'aspettativa d'un altro abisso. Allora riaprivo gli occhi e prendevo a fissare come ipnotizzata il dosso ferrato oltre il quale la prossima discesa era pronta a inghiottirmi nel mio buio.
Anche il gioco che voglio insegnarvi corre sui binari.Ogni mattina salgo sempre alla stessa ora sulla linea 2 della metropolitana. Un tempo, per distinguere i percorsi, usavo i colori. Dicevo: "Fai tre fermate della verde, scendi a Loreto e prendi la rossa fino al Duomo". Quando è arrivata anche la linea gialla, ho cominciato a figurarmi il ventre di Milano tutto percorso da festosi convogli colorati come i bastoncini dello Shangai: dopo il rosso, il giallo e il verde, ecco l'arancione, il colore dell'attesa e dell'esitazione che ci blocca davanti al semaforo; poi il celeste, il rosa, il marroncino scuro... "Un disastro per i daltonici", pensavo. Né ancora ero in grado di immaginare a chi sarebbe toccata la stanghetta da cento punti, quella tutta nera come un bastone di liquirizia.
Dopo l'incidente, la mia vita s'è fatta sbiadita. Così, quasi senza accorgermene, dai colori sono passata ai numeri: "Fai tre fermate della 3, poi una della 1 e sei giù a Cordusio. Altri due stop e arrivi a Cadorna. Lì trovi la 2 che ti porta in sole sei tappe a Famagosta".
In genere, però, preferisco prenderla nella direzione opposta, da Missori fino a Sesto San Giovanni. A mano a mano che ci si allontana dal centro, le stazioni hanno nomi strani, spesso un po' buffi: Turro, Gorla, Precotto, per non dire di Sesto Rondò, che ha un suono classico da Quarto Brandeburghese o da Nona Sinfonia: in ogni caso un brano molto popolare, diffuso in tutto il vicinato da un vecchio apparecchio Radiomarelli tipo quello che c'era in casa della nonna.
Se non esistesse il terzo programma, in effetti, che ne sarebbe dei miei pomeriggi? Da quando ho sostituito i numeri ai colori, non solo la musica, ma ogni genere di suono mi è diventato indispensabile. Persino le voci delle persone che mi stanno attorno, anche quelle sgradevoli perché rauche o cattive; addirittura lo stridere dei freni della metropolitana e il soffio delle porte di metallo che si spalancano per vomitare fuori un branco di passanti frettolosi: tutto mi risuona all'orecchio con un nitore mai udito prima, come se la realtà si presentasse solo dopo una buona seduta in sala d'incisione.
Non guardo mai la gente che sale sulle carrozze. Il gioco consiste proprio in questo: cerco ogni volta d'indovinare, soltanto dalle voci e dagli odori, chi sono, che cosa fanno, dove stanno andando. Proprio come nella moscacieca, per ottenere buoni risultati bisogna concentrarsi su un fruscìo caratteristico, un timbro particolare; insomma: mai sparare nel mucchio, ma scegliere con cura la propria vittima, se non si vuole restare lì a brancolare nel buio mentre attorno sale la risata crudele dei compagni di gioco. Così, con gli occhi chiusi, me ne sto in allerta come quando salivo sulle montagne russe e attendevo con un brivido lo spasmo che saliva dal basso ventre, nel presagio d'essere presto inghiottita in un gorgo fatto di spavento e piacere.
Prima di cominciare questo gioco, ero un tipo piuttosto indifferente agli sguardi. Le facce mi parevano tutte ugualmente inespressive. Specialmente quelle degli uomini. Quando mi fissavano con una cert'aria di cupidigia stereotipata risentivo il sapore dell'olio di fegato di merluzzo e strizzavo le palpebre aspettando il cucchiaio. Ero capace di andare da Famagosta a Gessate, facendomi scorrere davanti ventotto stazioni della metro, senza poter dire di aver visto davvero qualcuno.
Adesso, invece, mi sembra di conoscerli uno per uno, i miei complici inconsapevoli. Indovino se stanno leggendo il giornale alla pagina sportiva oppure scorrono avidi i titoli di borsa; se guardano le gambe alle ragazze o si perdono a fissare il buio fuori dal finestrino finché tremolano in fondo al cunicolo le luci della prossima stazione e il treno inizia la sua frenata.

Una domestica filippina s'alza in piedi trafelata e saluta in fretta l'amica con la sua voce da cocorita: s'è persa in chiacchiere e non s'è accorta che il suo viaggio è giù finito.
Avrei potuto dirtelo io, sciocchina, ch'era ora di scendere. Credevi che non ti avessi riconosciuta? T'incontro tutti i giorni e so anche che stai andando dal fidanzato. Cosa che la tua amica non sospetta affatto, credendolo ancora il suo ragazzo che adesso dovrebbe starsene esattamente dall'altra parte della città, a fare le sue ore in casa d'una vecchia signora bisbetica. E invece presto ti terrà fra le braccia pigolando false promesse, come quando eravate seduti proprio al mio fianco appena l'altroieri, stessa linea, ore 11,15...
é curioso quante cose si imparano sulla gente quando smetti di guardarla e cominci a vederla con gli occhi della mente, mentre s'affanna su e giù per le scale mobili o s'affretta a strizzarsi nei vagoni come se salire a Rogoredo e scendere a Porta Romana costituisse un compimento della vita. Grazie a tutti loro, a quegli odori di cuoi e profumi, di colletti sporchi e fiati pesanti, di smalti per unghie e confetti sailamenta, ho finalmente perfezionato il metodo per vincere a moscacieca. Prestando orecchio agli sbuffi e ai commenti, agli sfoghi e alle lagne dei passeggeri, intervallate dai lamenti disoccupati dei finti bosniaci a caccia di portafogli veri e dai laidi lai delle loro donne sempre incinte, ho imparato ad afferrare a tentoni le vite altrui. Da quando ho avuto l'incidente che mi ha reso cieca, esse abitano il mio buio e mi fanno compagnia.
Proprio oggi mi sono ricordata di quel filosofo greco che si studiava a scuola, con la sua storia degli uomini legati nella caverna che, dando le spalle al fuoco, vedono vane ombre proiettarsi sulla parete e le scambiano per la realtà. A me succede il contrario. Dopo che ho perso la vista in quel maledetto incendio sui binari, tutti i fantasmi delle cose inutili si sono cancellati dalla mia vita. Le facce che prima non vedevo, le storie a cui ero indifferente, le esistenze che non mi riguardavano, mi sfiorano adesso da vicino. Finché nella mia moscacieca io le tocco, come quando si afferra per il colletto il compagno di gioco più imbranato e si fa "Salvi!", col sollievo di sapere che la prossima volta toccherà a lui essere bendato.

Proprio stamattina un altro disperato si è gettato sotto il treno. é successo alla fermata di Caiazzo, sulla linea 2. Il macchinista non ha frenato in tempo e l'ha travolto. I pezzi sono volati dappertutto. I passeggeri erano sotto shock. Anche chi non ha visto niente è rimasto molto scosso. Qualcuno ha detto che quel poveretto è stato spinto. Mi sembra strano. Ero vicinissima e non ho sentito nessun rumore sospetto. Forse solo un leggero fruscio come quando, giocando a Shangai, si sfila con mossa veloce il bastoncino nero da sotto la pila.
Il caso ha voluto che toccasse a lui. Ma io quasi lo invidio. Ho sentito il bisogno di aiutarlo. é un fatto di solidarietà umana: riconoscerei dovunque il ticchettìo d'un bastone da cieco. Sembrava smarrito. Mi è bastato un piccolo gesto, forse solo un pensierino affettuoso, per fargli ritrovare di colpo la sua destinazione, e il suo destino.
Purtroppo la mia partita non è ancora terminata. Chi estrarrà il responso anche per me? Forse qualcuno, senza conoscermi, mi sta giù cercando fra gallerie e cunicoli per passarmi il testimone della definitiva moscacieca. Allora non ci saranno più numeri né linee sotterranee: finalmente tornerò a chiamare i colori con il loro nome.