Raul Montanari (Bergamo 1959) ha pubblicato i romanzi Il buio divora la strada (Leonardo 1991), La perfezione (Feltrinelli 1994, 1996; premio Linea d'Ombra 1995), Sei tu l'assassino. L'ultimo giallo possibile (Marcos y Marcos 1997) e Dio ti sta sognando (Marcos y Marcos 1998). Numerosi suoi racconti sono apparsi su riviste, quotidiani e antologie, ed entro il 1998 ne uscirà una raccolta presso Rizzoli, dal titolo Un bacio al mondo.
Fra lo stupore di amici e conoscenti, ha persuaso i più importanti editori italiani di conoscere l'inglese (falso) e le lingue classiche (un po' più vero), e ha tradotto autori come Sofocle, Seneca, Gurganus, Styron, Greene, P. Roth, Brink, Cormac McCarthy e Oscar Wilde, fra gli altri.
Vive a Milano, e ha rischiato di morirci almeno tre o quattro volte (mai in metropolitana, però).


 

RAUL MONTANARI
IN METROPOLITANA CON DIO

cinque pezzi brevi
2 fermate ciascuno

Premessa
Facoltativa

Suggerisco subito un uso alternativo di questo piccolo libro, visto che hai avuto l'imprudenza di sceglierlo evitando titoli e autori molto più allettanti, o semplicemente dopo avere giù consumato tutti gli altri. Leggi il primo pezzo e prova a fare tu il gioco che implicitamente esso suggerisce. (Se sei una donna, scusami per aver descritto il gioco da un punto di vista maschile.)
Non esiste scrittore che non voglia manipolare l'esistenza altrui; basta pensare che il fatto stesso di scrivere non è altro che il tentativo di piazzare sul naso del lettore gli stessi occhiali dello scrittore, costringerlo a vedere il mondo nello stesso modo (con le medesime distorsioni). Se sei d'accordo su questo, aggiungerò che l'idea di intervenire in modo benevolo, regalando qualcosa al lettore o alla lettrice al di là del semplice presunto piacere che possono trarre dalle parole dello scrittore, è la quintessenza più nobile e simpatica di questo desiderio di pasticciare un po' con il cervello e con la vita di chi legge. In altri termini, non c'è libro che non aspiri a essere galeotto, non c'è autore che non amerebbe immaginare che le proprie pagine possano stendersi come lenzuola sopra e sotto coppie felici il cui innamoramento o semplicemente il cui reciproco desiderio sia nato, in qualche modo, grazie al libro.
Quindi, se dopo In viaggio smetterai di leggere, alzerai la testa (o abbasserai il libercolo) e comincerai a guardarti intorno, sei perdonato. Sei perdonata. Ti perdono io a nome mio e a nome di Dio, che straripa per tutte le pagine seguenti e che quindi in teoria potrebbe offenderSi e ingelosirSi se tu Lo trascuri, e invece non farà né l'una né l'altra cosa. Fidati, fidati, siamo in buoni rapporti; Lui, gli atei come me, li adora, è una Sua vecchia debolezza. Se poi individuerai fra i presenti su questa carrozza l'anima gemella, sei ultraperdonato/a. Se convolerai a giuste coltri (peccato non poter consumare qui sotto, subito, in appositi vani creati nei tunnel fra una stazione e la successiva!) sei addirittura invidiato/a, da me e da Dio. Dio ed io ti invidiamo (anche Lui, anche Lui. é una delle poche cose che non può fare, capisci).
Godete, fratelli e sorelle, e arricchite il mondo dei vostri sospiri. L'universo è un immenso deposito di tutte le parole dette, di tutti gli sguardi, di tutte le bocche socchiuse. Niente va perduto. Se la luce delle stelle che vedi ha impiegato millenni ad arrivare fino a te, tu mandale un messaggio in risposta. Trasforma ogni massaggio in un messaggio. Sentiti piacevolmente responsabile del gemito cosmico. Le tue vibrazioni fanno tremare le galassie. L'universo si rallegra in te. La Via Lattea si compiace, si espande addirittura. Un tuo sorriso regala qualcosa a tutti, figuriamoci un brivido, un sussulto, un orgasmo. Il tuo "oh!" schizza verso il cielo, rimbalza e torna giù, ricade a pioggia su tutto il grato mondo.
Perciò fatti beffe delle tenebre, guardati intorno e sorridi.
O, in mancanza di meglio, vai avanti a leggere e attacca il terribile secondo racconto.

Adesso devo andare, scusami. Toccava a Lui muovere e, sai, conoscendo il tipo, non vorrei mai che mi fosse giù sparito un alfiere o un cavallo.

Raul Montanari, martedì 28 aprile 1998, 18:46.

In viaggio

(adattato da Sei tu l'assassino,
Marcos y Marcos, 1997)

Quando era ragazzo gli capitava a volte di fare un gioco con se stesso. Era in un bar, su un marciapiede con altre persone, oppure più spesso su un tram, o nella carrozza di una metropolitana o di un treno, e immaginava che Dio o chi per lui gli dicesse:
"La donna con cui passerai la vita è una di quelle che vedi qui. Guardati intorno e scegli, adesso e per sempre".
A volte riusciva a immedesimarsi nella situazione a tal punto da tremare per l'emozione. Una di quelle che vedi qui, e poi: per la vita. Lei, per la vita. Tutti gli incontri che avrebbe fatto nella sua vita, condensati nella carrozza della metropolitana; tutte le stagioni del desiderio, della gioia e della frustrazione, schiacciate in questi pochi minuti. Era degna di Dio, questa trovata. Così potente, così stupido e crudele.
Cominciava a passare in rassegna i volti, i corpi. Esitava fra una bellezza vistosa e una più discreta. Ricostruiva la storia di un'anima a partire dalla piega di una bocca, o almeno credeva di farlo. A volte le donne desiderabili abbondavano, nello spazio che lui stesso - che Dio - aveva circoscritto; a volte invece aveva la sensazione di doversi accontentare di quell'unica biondina seduta laggiù, in fondo, che però aveva delle belle caviglie e un'aria abbastanza simpatica. Avrebbe riso, sotto le sue carezze? Come si sarebbe voltata, come l'avrebbe guardato, notte dopo notte? Aveva le unghie lunghe? Da lì non le vedeva. Forse dormiva sulla pancia, lui l'avrebbe svegliata sfiorandole la schiena, passandole un dito lungo la spina dorsale, o leccandola su una spalla.
Non aveva mai rivolto la parola a nessuna delle prescelte. Era troppo timido per farlo, e poi il gioco non lo prevedeva. Lui aveva fatto la sua; ora toccava a Dio.
Rise fra sé, intrecciando le dita delle mani abbandonate in grembo. Rideva sempre, quando ripensava a quel gioco, e alla parte che Dio si era divertito a fare. Perché un giorno era stata una di loro ad attaccare discorso con lui, proprio su una metropolitana, riempiendolo di un imbarazzo che si era sciolto rapidamente, lasciando il posto a un'allegria imprevista. La ragazza si chiamava Elena. Quel giorno era scesa dalla metropolitana insieme a lui, e molti anni dopo era diventata sua moglie.
Si accorse che con il pollice di una mano stava accarezzandosi lentamente il palmo dell'altra, come se la mano o il dito non fossero suoi, ma di Elena...




Azzurro
a Tiziano Scarpa

Io mi sono macchiato, a detta di molti, di colpe irrimediabili. Penso che non siano più atroci delle infinite altre che questo sole torrido ha contemplato.
E' vero, appartengo alla polizia di uno stato oppressore della libertà. Sono stimato, dai miei corrotti superiori, per la mia incorruttibile fedeltà al mio compito. La faccia del commissario che mi porge un bicchiere di brandy non è diversa da quella dell'uomo che ha smesso da poco di urlare. Nella mia mente scorrono immagini odiose ai più. Ma se guardo all'intreccio di vie che mi ha condotto a questo porto, non trovo di essere stato più crudele o più codardo di mio fratello, che occupa una posizione rispettabile nell'ordine civile.
Ho ventitré anni, ma conosco giù abbastanza del corpo umano da saperne trarre il massimo spasimo o il massimo piacere. (Ricordo un ragazzo, dal nome francese. Con aria di sfida, mi disse che l'impulso che genera piacere o dolore è il medesimo, solo il segno cambia. Sono stato, con lui, non meno spietato che con altri.)
Non trovo differenze fra le contorsioni dell'orgasmo e quelle della tortura; ma forse sono indotto a questo dal fatto che molte delle donne che ho avuto - spesso di ottima famiglia - amavano immaginare che le stessi torturando, e sussurravano confessioni non richieste.
In verità, non gioisco del potere che ho sui miei prigionieri. Nessuno qui ne gioisce, benché non ci si faccia mancare l'alcol per renderci più zelanti. Solo i nuovi arrivati mostrano (non so quanto fingano) di godere dell'opportunità di essere crudeli, e si fanno assegnare le donne.
Io mi sento il grado intermedio fra il potere esercitato su di me dallo stato che difendo e quello che io esercito sui prigionieri.
Senza avere ancora metà della loro vita, ho provato disprezzo e pietà per uomini di cinquant'anni, che gridavano possedendo una ragazza legata.
Tutto mi è indifferente.
Forse perché nessuna donna mi ha amato (io ispiro eccitamento, non amore), neppure io mi sono mai innamorato.
Faccio quel che devo fare, provando un'ombra di piacere nello svolgere le operazioni necessarie in modo efficiente e rapido. Per questo sono giù ispettore. E per questo vengo impiegato in interrogatori veri e propri, e non collaboro con le Squadre della Morte. Non credo che Dio, se esiste, abbia tempo per premiarmi o punirmi.
Non esiste niente al mondo che mi piaccia davvero, niente che mi tocchi nel profondo, tranne un colore. Sono stato fortunato in questo, perché il desiderio avrebbe potuto tormentarmi per una donna irraggiungibile, o per un tesoro inafferrabile, o per un colore strano, misterioso e inusuale. Invece, se solo il cielo è terso e sgombro da nubi, e il sole non troppo intenso né troppo blando, io posso immergere i miei occhi nell'azzurro.
Non so come, ho resistito all'impulso di tappezzare d'azzurro le pareti della mia casa, quando l'ho avuta. Ho invece rivestito del mio colore l'interno dei cassetti, che mi sorprendono e accarezzano i miei occhi quando li apro immemore, pensando ad altro. Il lampadario del piccolo salotto è azzurro, e diffonde un universo diafano di azzurro, ammorbidendo, più che illuminando, la notte intorno a me. La mia biancheria intima (non la camicia) è azzurra, come il confortevole interno della mia automobile.
Penso con gioia che un fiocco azzurro è stato il mio simbolo, un giorno.
I miei occhi sono neri. Non mi dispiace, perché intuisco in qualche modo che c'è una connessione tra la mancanza in essi del colore che amo, e l'amore stesso che provo. Ma nei miei sogni, che non sono mai angosciosi, figure luminescenti e azzurre emergono e mi guidano tra bui corridoi.
Oggi, come sempre, ho bendato gli occhi di un prigioniero, perché non mi distogliesse né influenzasse in alcun modo la mia opera. (A volte immagino di ucciderli subito con una scarica violenta, lasciando la bocca silenziosa e gli occhi spalancati e limpidi.)
Vivo immerso nell'azzurro. Il sangue che cola non tocca il fiore celeste, intangibile, in me. Mi hanno detto che la rivoluzione è ormai vicina (noi li torturiamo per sapere quando loro ci uccideranno). Mani rese invincibili dall'odio mi afferreranno. Dita inesperte mi strapperanno grida imperfette. Morirò certo troppo in fretta. Ma l'ultima immagine, l'ultimo urlo, l'ultimo battito del cuore, avrà il colore e il sapore dell'azzurro.
(Se esisti, se non ti sono indifferente, fai che mi prendano all'aperto, sotto un cielo terso e sgombro da nubi, e un sole né troppo intenso né troppo blando...)




La vittoria segreta

Troppo tardi se ne accorse: tutti i suoi pezzi erano protesi nel grande, armonioso, meraviglioso attacco - solo il Re era rimasto indietro, indolente, rannicchiato nel corridoio dei Pedoni. La Torre nera guizzò improvvisa, come una lama affondata nel ventre, come un ricordo sepolto da tempo, e lo inchiodò nell'umiliante scacco matto.
"Ho vinto", disse l'altro, a bassa voce.
Si guardarono in silenzio, per un momento.
La terribile gravità di quello che era appena successo sembrò addensarsi e ristagnare nello spazio che li separava, e gli parve che anche l'altro ne fosse oppresso in qualche modo, ne fosse spaventato, forse.
"Hai vinto", riconobbe.
"Un magnifico attacco, il tuo", osservò l'avversario parlando lentamente, staccando le parole una a una, con distratta cortesia. "Credo che anch'io me ne sarei ubriacato, sarei diventato spavaldo e imprudente, come è successo a te".
Senza rispondere, lui ricollocò i pezzi nella posizione di partenza, prima i suoi, poi quelli dell'altro. L'idea di gridare, di abbandonare ogni ritegno e supplicare per una rivincita o imporla con la violenza lo invase per un attimo, più mortificante della sconfitta stessa.
"Hai vinto", ripeté alla fine. "E adesso? Davvero ci scambieremo il posto? Tu sarai me e io te, come abbiamo pattuito? Hai considerato gli svantaggi del mio ruolo? Il peso insostenibile, che fa tremare anche me, a volte... Ti senti di caricartelo addosso?".
Il nemico rise fra sé, annuendo.
"Sai, ho avuto tempo per pensarci", replicò. "Mentre tu godevi della tua complicata offensiva, e io potevo solo sperare nella fortuna di una mossa lacerante, fulminea... ecco, io sognavo l'impossibile vittoria, e cosa ne avrei fatto, se mi fosse stata data".
Rimase in silenzio, aspettando il seguito. Quasi fosse la prima volta, scrutava quello sguardo stanco, intelligente, dietro cui si celavano pensieri che tanto spesso gli erano parsi più limpidi e ammirevoli di quelli che lui stesso ordiva in sé. Sorrise, senza motivo, e anche l'avversario lo fece.
"Ti lascio tutto", mormorò alla fine l'altro, sommessamente. "Le sconfinate ricchezze, i poteri, la vanità che ha voluto fabbricarsi un Universo, il dominio del tempo e del nulla, e ciò che è stato e ciò che sarà. Ma io avrò il tuo nome, e tu il mio. Di questo baratto mi accontento. Rimanga il male nel mondo, come tu stesso l'hai creato, e il poco bene che io, ormai, disprezzo più che odiare. Ma sia mio nome: Dio; e tuo: il Diavolo.
"Da oggi le preghiere e le bestemmie degli uomini saliranno al cielo per me, per il Nemico, ogni volta che loro crederanno di parlare a te, ogni volta che pronunceranno con rabbia o devozione o indifferenza il nome di Dio. Chiederanno pietà allo Spietato e luce all'Oscuro. Chiameranno Padre il Figlio ribelle, chiameranno Signore lo schiavo e l'assassino.
"Ma nessuno lo saprà, solo noi due. Questa burla segreta mi basta, e non c'è altro".





Un bacio al mondo
a Luca Doninelli

L'acqua continua a salire.
"Spingi!... Forza, forza, dannazione!...".
E' inutile, l'ha capito anche lui, ormai. Non siamo riusciti ad aprirla prima, questa maledetta porta, e adesso è molto più difficile perché l'acqua ci fa scivolare le mani e i piedi.
Smettiamo di spingere, e ci guardiamo. La sua faccia risparmiata dagli anni, gli occhi grigi disperati, i capelli bianchi lunghi, ancora lunghi, ancora folti... Le riconosco tutte, queste rughe. Che strano - mi accorgo adesso che mio padre è alto esattamente come me. L'ho raggiunto, negli anni in cui la mia vita era tutto un rincorrere, ma non l'ho mai superato. L'acqua è a metà del mio stomaco piatto, contratto, coperto da muscoli inservibili proprio ora che ne avrei bisogno, ed è arrivata alla stessa altezza sul suo stomaco carnoso, prominente, grande e pieno come tutto il corpo nudo che ora ho davanti agli occhi. L'acqua fa spazio al corpo di mio padre, s'incurva a conca intorno alla sua pancia, ma intanto continua a salire perché giù non è più a metà dello stomaco ma sta raggiungendo le macchie scure e allungate dei capezzoli - sì, questo corpo che ho davanti è il metro su cui misuro i passi della morte che viene a prendermi, perché anche i miei capezzoli più chiari, rotondi - con cui tante mani e tante dita e tante labbra e lingue hanno giocato, e tanti sorrisi diversi hanno spiato il mio piacere, gli occhi dalle ciglia lunghe si illuminavano o si velavano del mio piacere che non era solo il mio - Dio, Dio, ma perché adesso? Perché devo pensare a lei e a tutte loro adesso che l'acqua è davvero arrivata al mio petto e al suo, e allora:
"Non ce la facciamo!".
"Proviamo ancora".
"Non ce la facciamo, papà. Cristo, papà, stiamo morendo!".
"Spingi ancora! Spingi ancora!".
Ma sì, spingi, spingi ancora, dovevamo pensarci prima, forse, forse prima ce l'avremmo fatta, ma prima avevamo bisogno di qualcos'altro che non era ancora la salvezza, prima avevamo più paura della nostra paura che della morte - e poi a tutto bisognava pensare prima! C'è sempre un prima che ti sta alle spalle, appena dietro le spalle che cominciano a essere bagnate proprio adesso, c'è un prima che è come un'immensa discarica di tutto ciò che si doveva fare e non si è fatto, una regione del rammarico, della vergogna, perché io mi vergogno di morire così, maledizione!, non posso morire così, bisogna fermare il tempo e riavvolgerlo all'indietro ma non mi ricordo come si fa, eppure mio padre deve avermelo detto, chissà quando, prima di dimenticarselo anche lui... Non è vero?, sono sicuro che me lo hai detto - scivolo sul ferro della porta e con uno sciacquio osceno mi ritrovo addosso a lui, mani e braccia si intrecciano, non è solo acqua quella che gli bagna la faccia e - no, papà,
"No, papà, no, no, Dio santo, no"
no, papà, perché sto piangendo anch'io e non credevo che sarei morto piangendo, ma non credevo nemmeno che sarei morto insieme a te, così,
"Non voglio che muori. Non voglio che muori"
neanch'io, sai?
"No, neanch'io, papà! Oh, Dio, papà!"
neanch'io voglio morire, e non voglio che tu muoia, com'è bella adesso la tua faccia bagnata, sei tu, sei sempre stato tu quello che cercavo, ci ho messo tanto a capirlo! L'acqua è arrivata alla gola, la tua bella gola morbida, quella voglia scura che da piccolo mi sembrava qualcosa di speciale che tu avevi e gli altri no, ed era vero! Adesso vedo che era vero, adesso ti guardo come il bambino che ero allora, finalmente, sto morendo ma almeno ora tu sei mio, sei di nuovo mio,
"Stringimi, cazzo, stringimi, è finita!"
"No, proviamo ancora..."
allora devo urlare:
"E' finita! Cazzo, papà, è finita! Stringimi!"
perché non capisci che questi sono gli ultimi istanti e l'acqua sale ancora, non lo vuoi capire - Dio, ma cosa dico?, tu fai finta, ma certo, hai sempre fatto finta che la morte non ci fosse, hai creato per me un mondo senza morte, e anche questo io l'ho scordato, se no non sarei qui... Ma sì, certo che lo sai, i tuoi occhi somigliano troppo ai miei per non essere pieni di questo orrore, questa quiete, questa resa, anche se un ultimo fuoco vigliacco di vita, di voglia di vivere ancora adesso mi fa urlare di nuovo:
"No! No!"
"Non gridare!"
"No, Cristo!"
e allora stringimi come fai, sì, stringimi come per uccidermi - oh, perché, perché no, perché non mi uccidi tu? Perché non mi uccidi - che dolcezza improvvisa in questo pensiero,
"Perché non mi uccidi? Uccidimi. Uccidimi"
uccidimi e io non morirò, ma tu piangi più forte, sentendomi, con l'acqua quasi alla bocca...
Ecco, sì. Sì, la tua bocca.
Tu sei il mondo, la tua bocca, papà, tu sei il mondo, tu sei tutto, le tue labbra bagnate. Sì, mi stringo a te, non lotto più, senti?, non scappo più, mi stringo forte a te. Tu sei il mondo, voglio il tuo respiro. No, non parlare, non c'è più tempo, l'acqua è giù agli occhi, respirami in bocca, questo è il mio bacio al mondo, papà, soffiami in bocca il tuo respiro, così, piano, il tuo ultimo respiro l'hai tenuto per me - no, piano, ti prego, fai piano. Ecco, così. Ti sfioro i denti con la lingua. Ti amo, prendi il mio, adesso. Prendilo, prendimi. Tienimi. Non lasciarmi mai. Ti amo, prendi il mio respiro. Stringimi, padre. Io ti amo, sono tuo, sono tuo, sono te...
Il Dio rubato
a Ornella Ziroldo

Un giorno Dio decise di creare un mondo per nascondercisi dentro. Millenni e millenni passarono, quel mondo venne infine abitato dall'uomo, e qualcuno cominciò a parlare di questo Dio sconosciuto, a dire che bisognava pregarlo e temerlo. Lui intanto se ne stava nascosto. Ogni tanto rideva piano, per non farsi trovare. Una donna udì quel riso (le donne ci sentono meglio degli uomini), scoprì il Dio nascosto e lo rapì: era molto alta e forte, lo tirò fuori da lì per portarselo a casa, e lui non poté farci nulla. La donna avrebbe potuto avere tutto, ora che aveva in mano Dio; ma era saggia e anche un po' perfida, per cui si accontentò di ficcarlo in un cassetto. Certe sere apre il cassetto e guarda dentro, e ride forte: tanto, anche se la sentono, nessuno immagina che lei abbia rubato Dio agli uomini.