Piero Colaprico, 40 anni, da dieci è inviato speciale di un grande quotidiano. Ha seguito l'inchiesta 'Mani pulite' e ha coniato il termine 'Tangentopoli'. é autore di quattro libri, tra cui un giallo, e ha pubblicato alcuni racconti su varie riviste. Insieme al collega Luca Fazzo, ha scritto il fortunato saggio Manager calibro 9, dedicato alla malavita milanese degli ultimi vent'anni.


 

PIERO COLAPRICO
A PALAZZO DI GIUSTIZIA

aracconto allo Scerbanenco
14 fermate
Chi sapeva leggere il segnale, ed erano pochissimi, fingeva di non vederlo. Sarebbe stato dissacrante, oltre che poco prudente, disturbare qualche pezzo grosso della gang del Colombiano - il boss Ferdinando Natalone detto il Colombiano - in piena riunione di lavoro, e proprio nel palazzo di Giustizia.
Chi non conosceva il segnale, e cioè quasi tutti, infilava la pista marmorea del corridoio della Corte d'Assise schivando gli svolazzi degli abiti altrui, sbuffando dietro i piedi lenti, aggirando in semipiroetta i pochi seduti. La fretta degli uomini che marciavano in ordine sparso con la valigetta, lo sguardo delle trentenni regolato come un mirino sull'orizzonte, lo sbigottimento delle ventenni nell'avviarsi alla lotta alla carriera a passo di carica, e la folla non professionale, in cerca della porta giusta tra le altre cento simili, trasformavano il tribunale in un labirinto d'agitazione, e un minuto dopo in una piazza silenziosa. L'uomo biondiccio, quasi calvo e magro, spaparanzato a gambe larghe sulla panca più vicina all'ingresso del corridoio, era allibito di fronte all'assalto di quella mandria sconclusionata, anche se molto elegante. Trovava più consonanze con la famiglia di nomadi che, occupando una panca d'angolo, aveva iniziato a sbocconcellare con tranquillità un po' di pane giù tagliato e dell'uva appassita conservata in una busta di plastica gialla. Se ne stava ora con la schiena poggiata alla parete, ora con il busto piegato in avanti, con un giaccone scuro, forse un tempo era stato verde, e le mani intrecciate sulle ginocchia. All'ippodromo lo chiamavano il Camorra, e non si era guadagnato il soprannome per i legami con l'organizzazione dei napoletani, ma per le peculiarità del cassone del suo vecchio Empolini a tre ruote, carico di qualsiasi cosa potesse rendere qualsiasi altra cosa, dalle mattonelle alle sigarette di contrabbando, dalle autoradio alle tovaglie di pizzo, dalle cassette di frutta alle cassette porno, cocomeri e peluche, piante d'appartamento, piantine proibite e mappe cittadine, ogni pezzo più o meno regolare che si potesse vendere, comprare, o almeno barattare.
Nel palazzo di Giustizia di Milano il Camorra, scommettitore affezionato al circuito del trotto e figlio di scommettitore rovinato dal galoppo, aveva la faccia giusta. Rappresentava, accentuando la sua aria smarrita, l'immagine di un perfetto cliente dozzinale di un'aula per reati minori, il prodotto finale del calderone della periferia milanese, che veniva periodicamente asportato dalle strade lunghe e trafficate, fabbrichette e condomini, spacciatori e supermercati, per essere sottoposto alla terapia obbligatoria di diritto nel cubo di cemento della Giustizia, arrivandoci dopo aver attraversato strade di vetrine, di balconi esotici, di tram non più arancioni, ma colorati come una televisione. Una seduta di poche ore, un rinvio, una multa, un'insufficienza di prove, e infine il ritorno agli abituali stradoni sghembi, dove le grandi vetrine o non ci sono o sono di proprietà di amici, e si consuma una vita lontana dall'Euro e ricca di una consapevolezza: "Miiii, mai visti tanti carabinieri tutti insieme. Quelli del centro devono vivere troppo male... Sembrava di essere nella curva dell'Atalanta".
Il Camorra aspettava. Aspettava, e più stava seduto più si sentiva fuori posto sotto quelle antiquate lampadone con il neon accese anche di giorno, secondo il regolamento interno del palazzo di Giustizia. Aveva anche subito la ramanzina di un occhialuto e calvo uomo delle pulizie, con la faccia che avrebbe potuto ricordare un uovo di struzzo, se non fosse stato per una smorfia che ne deprimeva la superficie: solo per aver lasciato cadere sul pavimento di marmo appena pulito dal doppio scopettone la carta di una gomma, il Camorra era stato centrato sugli stivaletti da una specie di forbice gigante, una doppia scopa pelosa e sporca come un barboncino bianco dopo una giornata di corse nei prati senz'erba del Parco Sempione.
Senza fiatare aveva fissato le grandi sopracciglia dello scopino, anche loro molto pelose, aveva raccolto la carta e l'aveva masticata, e inghiottita, tanto la velina verde quanto l'involucro argentato. Non poteva vociare né sbracciarsi né passeggiare, doveva restare al suo angolo come un pugile vinto, gli avevano ordinato al bar di piazza De Angeli. Dalla panca avrebbe dovuto alzarsi, in base alle indicazioni della banda del Colombiano, solo in un caso: alla vista del maggiore dei carabinieri che comandava il nucleo del palazzo di Giustizia. Un vero tignoso sbirro, un Fratello Branca che non si faceva mai gli affari suoi. La vista del Camorra, arrestato una volta da quel maggiore, era davvero ottima. E mezzo milione, per quel semplice lavoro di vedetta, non era rifiutabile, soprattutto in questo inverno, quando non si poteva estrarre tutti i giorni l'Empolini dallo scantinato e il Camorra aveva preso il vizio di starsene con il montone chiuso sino al collo a percorrere avanti e indietro il piccolo balcone della cucina, a fumarsi il mezzo toscano contando e ricontando le tendine alle finestre del palazzone di fronte per sbirciare, ogni tanto, al secondo piano, dove abitava José Maria Calvino, detto Ramona, il travestito bello come Simona Ventura.
Per chi sapeva leggere nei suoi occhi da gatto, nella sua faccia dove persino le rughe sembravano sparite nello sforzo di restar calmo e seduto, come a scuola, il Camorra immobile a far da palo rappresentava dunque un segnale inequivocabile. Ma chi non sapeva leggere non poteva nemmeno fare due più due. Non avrebbe capito nemmeno guardando l'altro uomo, quello nel lato del corridoio opposto al Camorra.
Baffi alla Hitler. Capelli "nati dal matrimonio tra la macchia mediterranea e il lucido da scarpe", per usare le stanche parole di Pessoa, com'era stato soprannominato dai suoi colleghi un giornalista bravo e disoccupato, che per non perdere la cassa integrazione scriveva ogni giorno per quattordici giornali locali usando quattordici nomi diversi. Due guance porcine, rosee e lisce. Un soprabito nero sbottonato sulla pancia e sull'abito carta da zucchero, camicia blu e cravatta nera. Sembrava quello che era: un quarantenne che, in vita sua, non aveva lavorato sodo neppure un giorno. Anzi, un'ora. Nemmeno mezz'ora. E come lui, in un qualsiasi giorno di novembre, in un qualsiasi Palazzo di Giustizia di qualsiasi grande città, se ne trovano altri: sembrano gemelli, ma non sono, salvo rarissime eccezioni, figli dello stesso papà. Solo delle stesse strade.
Attilio, detto Papero perché la sua voce nasale restava impressa come quella dei cartoni animati di Walt Disney, stringeva in pugno "La settimana enigmistica". L'aveva spiazzato la mancanza di "trottosport" all'edicola del tribunale e lui se ne doveva restare all'angolo, con la penna in mano, a curare lo stesso carabiniere del Camorra. Anche Papero lo conosceva bene, dopo una mattinata passata nel suo ufficio del quinto piano del Palazzo. Era stato per colpa di un allarme autobomba, e si trattava della sua Bmw nera parcheggiata in divieto. Aveva fatto appena in tempo a vedere una nuvoletta di fumo mangiarsi i finestrini azzurrati. Subito dopo il botto delle cariche esplosive era stato coperto dal suo "Delinquenti! Maledette teste di cazzo!" e Papero non aveva voluto sentire ragioni finché l'avevano afferrato, portato dentro il Palazzo e consegnato al comandante.
Il comandante l'aveva fatto interrogare da un maresciallone in borghese, un veneto grande e grosso, mentre rispondeva a dozzine di telefonate dei magistrati antimafia e anticorruzione sul falso allarme, rendendo incandescente la brace di un sigaro. Infine aveva ordinato al maresciallo di uscire, era rimasto solo con il Papero, s'era tolto gli occhiali da primo della classe, l'aveva guardato ben bene negli occhi e poi gli aveva sputato in faccia, senza aggiungere una parola. Sfruttando la sorpresa, l'aveva afferrato per il bavero della giacca e sbattuto fuori dell'ufficio, facendolo ruzzolare in mezzo a cinque o sei militari, anche questi in borghese.
Il Papero, anche se ribolliva, aveva preferito tacere in quella indimenticabile mattina conclusa, per il ritorno a casa in mezzo al vento che soffiava tra i finestrini rotti, con un'infiammazione al trigemino. Anche per lui gli ordini erano stati precisi: solo se avesse visto arrivare il Fratello Branca, buttando penna e giornale nel corridoio gli avrebbe chiesto, anche se in forte ritardo (ma l'uomo è uomo e non dimentica), le ragioni di quello sputacchio che, balisticamente preciso, l'aveva raggiunto nell'occhio sinistro. Papero aveva provato a risolvere il primo cruciverba, ma si era incagliato sul nome del "noto stilista Fiorucci", quattro verticale e così tentava di leggere le barzellette.
Nel corridoio vigilato da due simili uscieri, un gruppo numeroso. Donne, soprattutto. Una dozzina di donne con i gioielli d'oro, catene, bracciali, anelli senza un brillante, senza un'acqua marina, o un topazio. Orecchini massicci. Oro che si può rivendere senza perderci troppo quando gli affari del coniuge, del fratello, del padre, i propri affari, precipitano con crolli talmente poderosi e inaspettati da rendere qualsiasi fallimento commerciale un evento tutto sommato stucchevolmente controllabile. Solo i lunedì neri delle Borse internazionali sono paragonabili a quello che succede in una famiglia malavitosa quando gli affari privati diventato pubblici - dei pubblici ministeri, dei pubblici ufficiali, dell'universo ostile dei pubblici verbalizzanti. L'oro e la bellezza, in quei casi, sono l'unico bene che si vende senza rimetterci troppo.
Donne di tre generazioni, mamme, mogli e figlie, e anche qualche bambino. Una era di una bellezza notevole, una gran chioma scura, occhi neri e l'aria imbronciata che hanno a volte le ragazze di sedici anni quando si vergognano dei genitori. Doveva essere la figlia di qualcuno d'importante, visto che nessuno dei quattro o cinque avvocati con la toga le andava mai vicino. Chi con la toga femminilmente spostata sulle spalle, in equilibrio da pelliccia, e chi poggiata sul braccio, i legali facevano corona a una donna più anziana, una sessantenne magra magra, con gli occhi chiari, i capelli raccolti in una crocchia, che gesticolava facendo tintinnare tre bracciali con le sterline incastonate. Parole, chiasso, prole. Ma anche un altro argine per i troppo curiosi.
Accanto alla porta aperta, due uomini parlavano nella stessa direzione. Parlavano verso l'aula senza giudici togati e popolari, giù riuniti in camera di consiglio per una questione preliminare: se ammettere un altro nuovo testimone. Il pubblico ministero, una donna con un petto prorompente e i capelli a boccoloni, l'aria decisa di chi ha letto tutte le carte, ma proprio tutte, ed è convinta di usare il codice come una spada, se n'era andata al bar, accompagnata dal cancelliere quarantenne, bassino, pallido e mesto. E anche il baffuto e traccagnotto maresciallo dei carabinieri, discretamente si era allontanato con i suoi militari di leva.
Era l'unico ad aver capito il segnale e apparteneva alla vecchia scuola. La prima regola della vecchia scuola è la seguente: siamo professionisti, non è questione personale, quindi non bisogna esagerare, né da parte dello Stato né da parte dei nemici dello Stato. Così campiamo meglio. E il maresciallo, uno che in vita sua non aveva mai preso un quattrino illecito, li voleva lasciar fare. Perché, lasciandoli agire, qualcosa, prima o poi, avrebbe orecchiato e riferito al Comando. Tanto gli altri balordi, se proprio avevano qualcosa da dirsi, se la sarebbero detta comunque lontano da lui.

Solo qualcuno molto intelligente, ma anche invisibile, interpretando tutti quei segnali, avrebbe potuto avvicinarsi e accorgersi che il gruppone familiare esterno faceva quasi da tappo a due uomini che, dalla porta, parlavano con l'uomo chiuso nella gabbia degli imputati detenuti. Nessuno dunque badava a quello che si dicevano il signore in tuta grigioperla, dalla barba ben curata e gli occhi accesi, le grandi mani piatte avvolte come una sciarpa carnosa intorno alle sbarre marroni, e i due amici che sembravano in bilico sulla porta che avevano aperto, come se fossero sospesi a un filo e non tenessero i piedi piantati sul pavimento di marmo del Tribunale. Era per quei due il cordone sanitario intorno all'aula, per evitare tempi ancor più difficili.
Si chiamavano Manulè e O Giappone. Emanuele, detto Manulè, era il primo dei tre fratelli Cocu superstiti: rapinatori, spacciatori, fegatosi e violenti, gran senso della famiglia, decine di cugini, nipoti, cognati che vivevano tutti nel raggio di trecento metri, al loro quartier generale, i palazzoni che confondono Lorenteggio con i satelliti della periferia sud. I due fratelli gemelli più piccoli, Toto e Rocchino, era morti ammazzati, negli anni passati, in storie diverse, che la famiglia non raccontava più, nemmeno quando andavano tutti insieme a cambiare i cilestrini e rosei fiori di plastica nei cimiteri, una volta l'anno. Manulè era quello con più testa e, a dimostrazione, non aveva mai accettato di mostrarsi come il capo incontrastato: "Siamo una democrazia, ognuno se vuole, può dire la sua, ma non perdiamo tempo", era la sua frase di rito, nelle riunioni di famiglia.
Nessuno fiatava, lui decideva per tutti e aveva investito i soldi in una pizzeria e in una palestra di karatè: insegnava lui in persona a pestare amaramente, come testimoniavano i calli anche sulle palme delle mani, sotto le dita. Proprio tre giorni prima una zingara dalla faccia scura gli aveva fatto tante moine da riuscire ad afferrargli la mano, l'aveva tenuta per una decina di secondi, era impallidita, poi gli aveva detto: "Non posso leggerla, non hai i segni". E lui s'era beato per le sue mani da duro.
O Giappone era più anziano, forse si avvicinava ai quarantacinque, cinquant'anni, e risultava nullatenente: Gianfranco Ghezzi, detto O Giappone per il taglio degli occhi, era però autoritario marito della gentile proprietaria di sei appartamenti, padre delle leggiadre titolari di due ville e sei automobili, amico sicuro di un pensionato che gli aveva prestato dieci cassette di sicurezza, amico per la pelle del padrone di un'azienda di trasporti, socio - ma non ce n'era traccia nei libri contabili - di due banchi di frutta e verdura all'Ortomercato e di una macelleria specializzata in carni equine, sette bar, una discoteca, tre aziende specializzate nello smaltimento dei rifiuti tossici e aveva ceduto da poco l'impresa di pulizie, ottanta dipendenti e appalti in fase di calo, dopo che alcuni suoi amici politici erano finiti in carcere. O Giappone era un uomo fortunato e ricco, che raccontava di vivere grazie a un contratto di consulenza saltuaria con un'agenzia di recupero crediti, e nessuno riusciva da anni a provare il contrario.
Chi si fosse trovato a passare, avrebbe solo visto due uomini, uno robusto, con un coloratissimo maglione a losanghe sotto un giubbotto di pelle color ossidiana fatto apposta per lui, i jeans bianchi, il sorriso ironico sulle labbra strette, e l'altro con la barba incolta e un pastrano marrone da poco prezzo, i capelli grigi sulle tempie e lunghi sul collo, il fisico asciutto. Tutti e due guardavano nell'aula, mentre si diffondeva intorno a loro un profumo di malva.
"Habla?", chiedeva dalla gabbia l'unico presente nell'aula. Era il boss Ferdinando Natalone, lo processavano per una vecchia tentata evasione in cui c'era scappato il morto, e non sarebbe mai andato in aula se non avesse voluto incontrare i due luogotenenti. Con l'indice e il medio della mano destra, aveva formato una piccola forbice che poggiava sulle labbra, sotto le narici, in rapida successione. Il segno convenzionale per indicare gli infami, quelli che spifferano con la sbirritudine e i dottori procuratori. Tanta segretezza serviva per parlare di affari di famiglia, una di quelle questioni per cui si poteva anche morire.
Manulè spiegò: "Narduzzu, non ci sono dubbi. Uma era pazzoide schizzata e ci ha tradito. In due giorni l'hanno fatta confessare e portata in un albergo dalle parti di Perugia. Lo sai com'è andata, visto che sei dentro anche per merito suo".
"Senza una prova, senza un riscontro...", si lamentò Narduzzu.
"Sì, anche l'avvocatone, quello che sta dietro e non compare, dice che la cosa si sgonfia, riscontri non ce ne sono, e lei, Uma, ti ha sempre visto poco. Il problema è quest'altra, lo sappiamo bene, purtroppo".
"E allora, non farmi stare sulle uova, habla o no?", richiese il capo.
Manulè continuò come se non avesse sentito: "Questa sa, cazzo se sa, la tua parente! Per ora non parla, è certo come il prete che dice messa. Ma se finisce sotto pressione? Il rischio c'è, forse più del rischio, diciamo che siamo al sessanta e quaranta. Lo sai che pure questa, con rispetto parlando...".
"Minchia, non dirmelo", sbottò il boss, anche se il tono del suo sottoposto non gli stava piacendo, e non gli piacevano i suoi giudizi, e quel "con rispetto parlando", no, qualcosa non andava. Perciò gli dava corda: "Io non l'ho mai sopportata, a questa troia universitaria. E nemmeno l'altra, Uma, la troia elementare. Mio fratello con le donne non ci prende, le sceglie bacate".
I due annuirono, quando il boss concluse.
"Allora, come ci regoliamo?", chiese ancora Narduzzu, senza staccare la faccia dalle sbarre.
"Devi dircelo tu", rispose O Giappone, piatto piatto.
Il boss finse di non accorgersi nemmeno di questo tono asciutto: "Sto pensando ad alta voce, che sto pensando. Fidati, mi diceva mio fratello, fidati. Anche se non è delle nostre parti, la mia Filli è utile, ha studiato. Anche per i conti, sa come si fa. E per i contatti all'estero, parla le lingue, meglio lei dei nostri avvocati che poi sanno troppe cose. é una che sa andare dal medico da sola. Va bene, mi fido. In effetti, all'inizio, soprattutto quando non aveva capito bene che genere di affari facevamo, è stata utilissima. Ma io allora controllavo con gli occhi miei. Adesso che sto in queste condizioni carcerarie, come faccio a sapere se tutto va bene? I miei occhi siete voi, e anche le mie orecchie. Devo stare a quello che mi dite voi, che devo stare. Su mio fratello non posso fare affidamento, è proprio nnamurato della moglie", scuoteva la testa il boss Natalone, detto il Colombiano.
Nel frattempo, mentre parlava e parlava, pensava: "Questi due non mi guardano bene e non mi rispondono subito. Forse hanno qualcosa da nascondere. Se un sottoposto comincia a fare così, significa solo una cosa: ha altre mire. Vuole fottermi...".
Manulè aveva annuito con vigore e Narduzzu aveva avvertito una fitta al fegato: "Non ci piove, tuo fratello stravede per la moglie, non s'accorge di...", stava dicendo Manulè, ma guardando la faccia addolorata del boss si bloccò.
O Giappone, più disattento alle sfumature, continuò per lui: "Vedi, capo, attualmente il problema è la famigerata gelosia di tua cognata Filli. Va bene, tuo fratello ha avuto quella storia mezzo sentimentale con Uma, ed è stato imprudente. L'abbiamo saputo tutti, anche Filli. Sembrava che non ci avesse sofferto, ma appena tu sei finito al due, come dire...".
"Ma dai, parla, che parla. Ti metti a parlare educatino con me?", bestemmiò cupo il boss.
"Tra i due c'è stata maretta, maretta forte e lei l'ha fatto inginocchiare, lo sapevi?", concluse Manulè.
"Inginocchiare? Inginocchiare... E dove?", chiese Natalone, sorpreso.
Si passò una mano sulla barba argentata, e ne approfittò per pizzicarsi sotto la mandibola. Sentiva il terreno scivolargli da sotto i piedi come una scala mobile della Rinascente. Lui dentro, quei due avvoltoi fuori, a sparlare di suo fratello e di Filli, e a darsi il cambio nelle frasi. Sì, quei due avevano studiato la parte, come a teatro. Troppa diplomazia, troppe chiacchiere, non poteva essere diversamente, si disse il boss, volevano fotterlo ora che era debole e in gabbia.
E lui non aveva fottuto il vecchio Gabriele Sagramoso, quello che girava con una bomba a mano alla cintura, soffiando agli sbirri la pizzeria dove trovarlo? Morto ammazzato quello, dilaniato dalla bomba che gli era caduta tra le gambe nella sparatoria di piazzale Corvetto, ne aveva preso il posto. Ora qualcuno voleva prendere il suo. Ma non è così facile, si ripeteva, pizzicandosi sotto la barba, facendosi male. Non è così facile.
"Tuo fratello si è inginocchiato mentre stavamo alla raffineria volante. Manulè, glielo vuoi raccontare tu, che c'eri. A me è stato riferito...", chiese O Giappone.
Manulè stava mettendosi in bocca una caramella verde, gli andò giù, tossì due volte, diventando rosso. Le labbra si erano piegate in basso, come gli succedeva durante i funerali e, così lo criticava sua moglie, dopo aver fatto l'amore - almeno con lei.
"Sì, erano le quattro di pomeriggio, avevamo in programmazione la consegna ai napoletani. E, subito dopo, ai belgi mandati dalla nostra banca estera. Siamo là, nello spiazzo della ditta, che infiliamo nelle portiere della prima Mercedes 60 pacchi da mezzo chilo e un bel po' di pepe nero, come ci hai insegnato tu, quando sentiamo chiaro e forte tuo fratello che dice: Ti prego, tutto quello che vuoi'. Quasi piange: Ti prego, ti prego, anche subito, vieni qui', e le dà l'indirizzo del capannone. E sin qui nulla di male. Tua cognata Filli arriva. Arriva con la decappottabile aperta e inchioda che c'è ancora l'asfalto che sfumazza. Scende, con la faccia buia come una nuvola, e aspetta. Lui si avvicina, e i due parlano a bassa voce, ma si capisce che discutono di brutto. I clienti fanno finta di non guardare, gli basta sapere che siamo protetti, che non arrivano sbirri. A un certo punto tuo fratello dice con la testa di no, no, ancora no. Lei fa per andarsene, allora lui la ferma, le prende un braccio, fa per tenerle la mano, ma lei gliela strappa, butta per terra la borsetta, si mette a piangere. Noi continuiamo l'operazione di carico, come se niente fosse, ma sai, siamo tutti lì, non è che puoi andartene. Tuo fratello e Filli parlano ancora un poco, poi, fanno un giro dietro la macchina, come se noi non vedessimo, e lui a un certo punto si abbassa. Cazzo fa? Si mette in ginocchio. Lei sta davanti a lui, a braccia conserte, e di tuo fratello spunta fuori solo la testa. E allora capiamo: si è fatta chiedere scusa in ginocchio".
"é proprio stronzo! Ho a che fare con uno stronzooooo!", esagerò il Colombiano.
Gli avvocati si avvicinarono: "Ragazzi...".
"Fuori dai coglioni", disse chiaro e forte Manulè, e l'avvocato che aveva parlato impallidì e tornò sui suoi passi, camminando all'indietro. Le donne si erano zittite. Il corridoio di marmo era tornato silenzioso.
Anche l'uomo in gabbia abbassò la voce: "Manulè, chi ha visto mio fratello in ginocchio? Dimmelo", chiese con un accento accorato. O Giappone rispose sollevando l'indice in alto e con tre rotazioni del polso, come per dire: chi c'era c'era, anche i napoletani, anche i ragazzi che trasportavano i pacchi dal doppio fondo del loro camion nelle mani dei napoletani. I belgi della banca. Tutti.
E a Ferdinando Natalone, Narduzzu per gli intimi, Nando il Colombiano per i giornali, scocciava davvero per quella scena. Uno della famiglia che si mette in ginocchio davanti a una donna, soprattutto se è la moglie, depone male. Un boss è maschio. Un boss non chiede permesso a nessuno. Un boss si fa baciare, non bacia. Un boss ammazza, non si fa ammazzare. Questo gli avevano insegnato e ora c'era uno della sua famiglia che contraddiceva le quattro regole fondamentali.
Non gli andava giù, ma adesso era molto più preoccupato per i due luogotenenti: più gli parlavano meno gli piacevano, forse lo avevano tradito e questo era il vero problema da affrontare, per uno come lui. Doveva pensare rapidamente.
Il boss sorrise amaramente, dalla tasca dei pantaloni delle tuta prese le due metà di un sigaro Montecristo, le studiò, ne rimise una in tasca e accese l'altra. Aspirò sei o sette volte, guardando i due luogotenenti, che reggevano lo sguardo e, a tratti, annuivano sospirando. Il fumo del sigaro, intonato alla tuta, lo rendeva un po' evanescente, come il fantasma di un capo: "Se torno a nascere, voglio fare quello che non capisce niente. Io capisco sempre le cose in anticipo. Gliel'avevo detto, a mio fratello: sei sicuro di sposarti questa straniera? Hai deciso bene?", si autocommiserava Il Colombiano.
"E quella dei guantoni la sai?", lo incalzò O Giappone. E spiando la faccia del capo, toccò Manulè e gli ridisse: "Tu che c'eri".
"Ma non ho capito, lui c'è sempre e tu che fai?", scattò il boss.
"Io ci sono, non ti preoccupare, ma lui c'è di più, è un presidenzialista...", considerò O Giappone.
"Presenzialista, si dice", lo corresse Manulè. E raccontò: "Beh, per farla breve, è successo una sera che eravamo andati a vedere la partita della squadra di basket di tuo fratello. Ha cambiato allenatore delle ragazze, ne ha preso uno che è stato anche in serie B per due anni e che fa fare degli allenamenti americani, lo sai, no? C'invita, con gli amici, perché c'è da dire che le atlete le sa scegliere proprio bene, e ci godiamo sta partita all'aperto. Quando finisce, le luci restano accese. E mentre le ragazze si cambiano, chi vediamo? Miiiii, c'è Filli in tuta...", raccontava Manulè.
"Filli in tuta? Ma se un soffio di vento se la porta via", constatò il Colombiano.
"In tuta rosa, che correva, un giro di campo dopo l'altro. Noi ce ne andiamo un po' in giro, sempre per non dare a vedere... e dopo un po' andammo agli spogliatoi. E là c'è lei che picchia sul petto tuo fratello. Bum, due passetti indietro, bum, altri passetti. Lui se ne accorge, che lo stiamo guardando, e resta un po' stordito, non se l'aspettava. Sapete', ci fa, Filli sta studiando Tai-boxe e mi ha chiesto se l'alleno un pochetto'. E che dovevamo dire? Però è strano, non ti pare, capo?".
Il Colombiano tirava a vuoto, il sigaro gli si era spento. Lo buttò sul pavimento di linoleum: "Che devo fare? Ditemi voi", li pregava il boss, mostrandosi molto più incerto di quanto fosse in realtà.

I due non dissero nulla, cercando di restare neutri. Manulè sembrò diventare persino trasparente. Infilandosi in bocca un'altra caramella, recuperò colore e aggiunse: "Poi c'è una cosa che non ho sentito io, ma mi ha riferito Marina, l'ex di Precamuorto. Ha incontrato Filli in un negozio, Filli le ha voluto offrire un tè. Sono andate al bar e lei, tua cognata, ha cominciato a dire che ti odia, che tu sei la rovina di suo marito, che lui è buono e tu sei l'anima nera della famiglia, lui fa di tutto per assomigliarti ma siete come i due Castro. Chi è quello che comanda?".
"Fidel", rispose O Giappone.
"Ecco, tu sei Fidel", disse Manulè al capo nella gabbia, "lui è l'altro, ti copia e non ce la fa ad assomigliarti. Che lui non riesce nemmeno a capire quanto dipende da te, e tu lo umilii ogni volta, gli fai correre i rischi e non gli dai la parte giusta dei guadagni. E, se dipendesse da lei e basta, sarebbe giù andata a fare una spiata ai giudici, per rovinarti. Ma rovinare te significa rovinare il marito e perciò non lo fa. Ma tu ami tuo marito, le ha chiesto Marina? Amare è una parola grossa, le ha risposto Filli, ma con lui sono cresciuta sessualmente. Tutto così, in mezzo agli impiegati che s'inzozzavano di panini. Anche Marina - Marina, non ho detto una santa di chiesa - era sconvolta. Ed è venuta a dirmelo, per sicurezza", concluse Manulè.
Il boss chiese immediatamente: "Per ora sbirri ne ha visti? I nostri amici che ci fanno sapere?".
"No, nessun segnale. Le nostre antenne non hanno avvisi da darci. Noi l'abbiamo controllata".
"E che fa?".
"Sta sempre nell'ufficio vendite, a fare disegnini, non si sa a studiare bene cosa, perché le nostre aziende pubblicità non ne hanno mai fatta, e mai ne faremo, voglio sperare", disse O Giappone.
"Mai, mai. Ci manca pure questo, che ci manca! Ti ricordi quello che è successo a Gru-gru, che si era candidato alle comunali di Corsico. "Rimettiamo Corsico in pista" era il suo slogan, e quando lo hanno preso con la cocaina, quei cornuti dei giornali sono andati avanti anni, con la storia della pista speciale dell'assessore... Da sempre, dico da sempre, a mio fratello ho dato questa regola: finché si può, prestanomi e profilo basso".
Manulè e O Giappone si guardarono. Poi O Giappone si affacciò nel corridoio. Tutto era al solito posto, nessun imprevisto. Allora si girò di nuovo verso la gabbia: "Però guarda che lei ha inventato una cosa...".
"Cosa?"
"Non so come si chiama, ma mi ha chiesto quale preferivo tra due, e ha detto questa parola che non ricordo. Comunque, su un pezzo di carta c'erano delle righe di tutti i colori, come un arcobaleno non rotondo, strano, a punta, e in mezzo, dove faceva come un triangolone, una scritta presa di corsa: Fratelli Natalone, la garanzia di un successone'. Poi c'era un altro foglio, ma questo bianco, con una scritta: Affidati ai fratelli Natalone, sarai in mani sicure, anzi sicurone'. Ma questo non le piaceva tanto, diceva".
Il boss si era riacceso l'altra metà del Montecristo. Tossì, sputò per terra: "Fratelli Natalone, se non ci stai all'occhio sei un coglione".
"é proprio la stessa battuta che ha fatto tuo fratello...".
"Ma perché, c'era anche lui?".
"Scusa, capo, e se no io che ci facevo con la dottoressa tua cognata?".
Il boss sbuffò, trasformò la brace in un caminetto in miniatura, con la bocca a cuoricino emise tre cerchi perfetti e consecutivi: "Dio li fa, e poi li...".
I due restarono in silenzio, anche le donne nel corridoio sembrano aver placato l'esigenza di scambiarsi confidenze a voce alta. "E poi li accoppa", rise da solo.
"Che silenzio che c'è fuori, ah?". Si aggiustò la tuta: "Ci ho pensato bene: ammazzatela", ordinò.
"Come, capo?", chiese Manulè.
"Avete capito bene. L'ordine è per te, Giappone. Te ne devi incaricare personalmente. Non posso più sapere che Filli cammina sulla stessa faccia della terra dove ci siamo noi. E siccome i viaggi spaziali non li hanno ancora inventati, che non li hanno inventati, a questo viaggetto nell'extramondo ci dobbiamo pensare in proprio. Ma che sia una disgrazia. Com'è successo a Oronzo, ci siamo capiti. Guai a dio se mio fratello dovesse immaginare... Lei non va in giro anche con quel motorino rosso, schifoso tant'è arrugginito?".
"Non è che voglio discutere...", tentò Manulè.
"Ho detto che se ne occupa il tuo socio. Tu", disse a O Giappone, "la fai investire da un tossico e poi ammazzi personalmente il tossico, e lo fai proprio tu, una bella iniezione da overdose, che lo manda con i piedi stesi. E questa storia resta tra noi tre e basta", disse a Manulè. E, rivolto a O Giappone: "Giusto?".
"Giusto", confermò O Giappone.
Non avevano più niente da dirsi, se non qualche gentilezza: "Ti è arrivato il pacco?".
"Sì", rispose il boss. "Anzi, a proposito, con tutte queste minchiate di Filli mi stavo dimenticando la cosa più importante. é stata una delle più belle mangiate di Natale della storia di San Vittore, una cosa memorabile e persino utile. Davvero grazie. Ok, adesso me ne vado...".
"Come te ne vai? E il processo?".
"Massì, non cambia niente. Accuserò un malore... Loro non mi accusano di traffico di droga, omicidi e associazione per delinquere? Cosa volete che sia se io mi metto ad accusare un malore...".
I due uomini, dopo una risatella di convenienza, stavano per allontanarsi, quando il boss chiamò dalla gabbia Manulè. "Avvicinati, devo dirti una cosa da solo a solo".
O Giappone si allontanò dalla porta e la richiuse dall'esterno.
Manulè non aveva mai avuto una grande confidenza con il capo, lui aveva sempre e solo ubbidito e l'altro sempre e solo comandato. Anche quando Narduzzu aveva cresimato sua figlia e gli aveva pagato l'orchestra e il pranzo per duecentocinquanta invitati, Manulè aveva detto sì, ma solo perché non avrebbe potuto dire di no. Ora, che voleva il capo?
"Devo dirti una cosa importante, mi fido solo di te, avvicinati".
Il luogotenente si guardò intorno: "Siamo soli".
"Sì, forse. E i microfoni nascosti?".
"Cristo, hanno sentito tutto?", sbiancò.
"No, scherzo, dovrebbe essere tutto tranquillo, ma adesso non voglio correre altri rischi e capirai il perché. Avvicina l'orecchio", disse il boss a Manulè, che aveva attraversato velocemente l'aula vuota.
Manulè non sentì alcuna parola, ma solo un soffio, e intorno al collo una stretta micidiale. Si sentiva stringere, e trascinare verso il basso.
Ci mise un paio di secondi a capire che il boss gli aveva passato il gomito intorno alla carotide e s'era buttato per terra, per fare forza e non dargli scampo. In silenzio, lo stringeva, lo ammorbidiva.
Manulè non ce le faceva a liberarsi dalla presa, tentò con il pollice, tentò con due colpi rapidi da karateka professionista, ma non riusciva a gridare, né a divincolarsi, poteva solo tenere la testa fissa al grande mosaico, sul muro dietro le sedie della corte, dove c'erano due con una tunica, uomini o donne, non si capiva. Una delle due figure gli ricordava qualcosa, ma cosa? Mentre si dibatteva inutilmente, si ricordò della faccia della zingara che gli aveva letto la mano e non gli aveva detto niente. Tentò altri due colpi a sorpresa, ma le sue dita incontrarono le sbarre della cella: "Mi vuoi fregare? Mi volete fregare tu e quell'altro? Brave le mie bestie. E ora sei morto. Ti lascio vivere o no?".
Sì, sì, piegò la testa Manulè.
"Mi volevate fregare? Dimmi la verità".
Sì, piegò ancora la testa Manulè.
Ma il boss aveva deciso di ucciderlo, e strinse, e quando l'altro perse i sensi, lasciò la presa, gli afferrò il collo con le mani e, con calma, gli spezzò le ossa. "Manulè vicecapo di Natalone, traditore di sto ciddone. Te la metteremo sulla lapide, questa pubblicità", rise il boss, alzandosi in piedi.
Riprese il sigaro, non si era spento, e si perse nei suoi pensieri così profondamente che solo quando sentì un avvocato gridare, riguardò quell'uomo spezzato che era stato il suo luogotenente e subito dopo, oltre la porta, incrociò gli occhi di O Giappone.
Non c'era bisogno di aggiungere altro: "Sai quello che devi fare", gli ordinò il capo, e lo vide trasalire, spalancare la bocca e sparire oltre lo stipite, mentre accorrevano i carabinieri, una donna gridava in corridoio, e il maresciallo prendeva Manulè e lo lasciava ricadere, come se fosse di fuoco, e il boss si sentiva ormai addosso le mani, le divise, e un odore di malva sulle dita larghe e piatte.
O Giappone aveva il cuore in gola quando uscì dall'ingresso principale del palazzo di Giustizia, portandosi dietro l'uomo vestito nel perfetto Comasina-Style che andava di moda in quegli anni e che Papero interpretava con un tocco di civetteria nelle cravatte. Fuori, sotto lo scalone, c'era uno degli imputati di Tangentopoli incatenato e con un cartello davanti, Papero lo guardò con commiserazione: "Pagliacci sono. Da quando hanno cominciato a cantare loro, i più deboli dei nostri li hanno copiati. Se parla un politico, che è potente, perché non parlo io, che sono uno stronzo? E vai, tutti a riempire verbali".
O Giappone sembrò accorgersi di lui per la prima volta: "Il boss ha ucciso Manulè", gli disse.
Il Papero non ebbe la reazione che l'altro si aspettava: "Una cosa che farà epoca, non era mai successo in un Tribunale", fischiò, accelerando per allontanarsi il più velocemente possibile. O Giappone rimase sulle scale, a guardarlo attraversare la strada verso il deposito dei taxi. Si sentiva perduto. Il boss avrebbe fatto ammazzare anche lui? Che sapeva esattamente delle trame ordite da lui e dal povero Manulè? Che fare?
Stabilì che avrebbe dovuto eseguire alla perfezione l'ultimo ordine. Alla perfezione, non c'era altra possibilità. Salì su un taxi che aveva appena accompagnato un legale famoso e si perse nel traffico, mentre sul lato opposto del corridoio della Corte d'Assise il Camorra veniva bloccato dal maresciallo, che non voleva sentire ragioni, e portato in una stanzetta al piano terra, dove rimase a guardare le donne ingioiellate, a sentirne le voci senza poterne ascoltare il fiato, nervoso come una scimmia.
Il mondo del Tribunale s'era fermato e lui non l'aveva capito in tempo. Miiii, quanti carabinieri, e c'era pure il maggiore, quello con l'aria del primo della classe, con due telefoni alle orecchie, che lo fissò: "Tu facevi da palo, la complicità in omicidio è un brutto reato...".