Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, è giornalista culturale al "Corriere della Sera". Oltre a studi di argomento
filologico e letterario, ha pubblicato una raccolta di poesie,
Minuti contati (Scheiwiller 1990) e i romanzi Baci da non ripetere (Feltrinelli 1994, Premio Comisso) e Azzurro, troppo azzurro (Feltrinelli 1996).


 

PAOLO DI STEFANO
UN'ORA DOPO

racconto su un barbone
11 fermate

Basta guardare le scarpe di una persona per capire chi è. Lui aveva certe scarpe nere, con la punta verso l'alto, tutte sfasciate di lato. Per trascinarsele dietro, doveva camminare con le gambe un po' larghe e a piccoli passi. Zoppicava. Di solito però non camminava, stava fermo all'angolo e tutto il giorno cantava una specie di Casaciòc versione triste mentre vendeva i fiori proprio di fronte al tribunale. Da qualche settimana lo vedevo tutte le mattine, verso le otto e mezza passavo lì, sotto gli alberi, per andare a lavorare e lo vedevo alto, le spalle curve, i capelli bianchi e fitti.
Quel giorno l'ho visto camminare lentamente dall'altro lato della strada, zoppicava, ogni tanto si fermava, guardava a destra e a sinistra come se volesse attraversare, poi non attraversava e riprendeva a camminare. Con tutto quel che era successo poco meno di mezz'ora prima, non avrei dovuto fermarmi, avrei fatto meglio a proseguire per la mia strada, a raggiungere il viale e andarmene via. Eppure all'improvviso da lontano, dopo tanti giorni che lo guardavo distrattamente, proprio quella mattina mi è sembrato di riconoscerlo, allora ho attraversato io, con le macchine che correvano e suonavano come tutte le mattine, con lo stridore del tram, con tutta la gente che si muoveva nervosa sui marciapiedi. Forse non era lui ad attrarmi, nel buio ingiallito di quella mattina d'inverno ma era il mio stesso passato che di colpo, mentre camminavo spedito per raggiungere la macchina dopo tutto quel che era successo, mi ha assalito con l'immagine di quell'uomo alto, magro, lento, claudicante. In tuffo quel casino cercavo di non perderlo di vista, ma camminava piano e in pochi minuti mi sono ritrovato di fronte a lui. Era Pietro Caruso. Invecchiato di trent'anni, ma era proprio lui, l'ho capito dalle scarpe. Aveva la faccia bianca, i pantaloni troppo larghi e la giacca troppo stretta che teneva chiusa con le mani serrate sui lembi, le braccia sul petto. Anche le mani erano le sue. Non credevo ai miei occhi, l'emozione ha cominciato a battermi sulla fronte e poi sulle tempie, in tutta quella confusione dì macchine, di fumo, di tram, di semafori e di gente che camminava. Era una mattina fredda di febbraio, una mattina nera d'inverno, i lampioni erano ancora accesi e in controluce si vedeva salire una nebbia densa. Gli sono passato accanto per guardarlo meglio, poi sono tornato indietro a passo veloce, l'ho superato, ho fatto un semicerchio attorno a un albero e sono ancora tornato indietro. Allora mi sono fermato, gli ho messo una mano sulla spalla e gli ho detto:
"Pietro".
Si è fermato anche lui, ha lasciato i lembi della giacca e ha cominciato a strofinarsi lentamente le mani l'una contro l'altra, come faceva trent'anni prima. Teneva ancora gli occhi bassi, in mezzo a tutta quella confusione di macchine, qualche sirena, il tram che scricchiolava lì accanto, la gente che camminava veloce, il giallo ancora intenso dei lampioni, la nebbia che saliva che filtrava nelle ossa con spifferi taglienti, ho ripetuto:
"Pietro, Pietro, sono Rizzo, mi riconosci?".
"No, non ti conosco," mi ha detto, sempre guardando in basso e sempre strofinando le mani. "Non ti conosco", ha ripetuto con la sua voce calda e rauca, che non sembrava certo fossero passati tutti quegli anni.
"Come, non mi riconosci...", gli ho detto. "Ti ricordi, padre Nino, le poesie, Castellaccio...".
"No", mi ha detto. "Ormai è tutto finito, non ti conosco e io sto crepando".
"Aspetta", gli ho detto, "aspetta, ti aiuto, chiamo qualcuno".
Tutto sommato, però, non mi sembrava un uomo debole, solo lo sguardo era debole e guardava incerto per terra. Ho guardato anch'io per terra e nel buio di quella mattina ho intravisto le sue scarpe sbrindellate. Ho fatto un rapido calcolo mentale: ventisette, doveva avere ventisette anni a quei tempi, più gli anni che sono passati, trenta anzi trentadue: sessanta, facciamo sessant'anni. Quell'uomo con lo sguardo basso e le scarpe rotte aveva sessant'anni, si chiamava Pietro Caruso, era nato in provincia di Messina e io lo conoscevo benissimo. Lo vedevo da giorni fermo all'angolo di fronte alla scalinata del tribunale, cantava una specie di Casaciòc versione triste, ancora più triste di certe canzoni che certi stranieri cantano sulla metropolitana, vendeva fiori, ma solo quella mattina l'ho riconosciuto Proprio quella mattina, mezz'ora prima, era successo qualcosa di terribile e forse non avrei dovuto fermarmi con Caruso, perché non potevo perdere tempo, dovevo raggiungere al più presto la macchina parcheggiata lungo il viale, e andarmene. Invece ero lì, con il freddo che batteva sulle tempie, fermo davanti a Caruso che guardava per terra, in mezzo alla gente che camminava veloce, le macchine che correvano e frenavano, i tram cigolanti che scampanellavano, le porte dei caffè che si aprivano e si chiudevano.



Era tornata la scabbia al collegio, tutti avevamo ripreso a grattarci le mani tranne Caruso, che era il più grande. Caruso lavorava in falegnameria, ora lo so a chi assomigliava, aveva la faccia di Trapattoni e una voce calda come quella di Fini ma più rauca, aveva una risata rauca inconfondibile, rideva spesso, zoppicava, si diceva che gli mancavano due dita di un piede. Mi piaceva sentirlo ridere. Dopo il sanatorio, era arrivato a Castellaccio come portinaio a seimila lire al mese, aveva una stanza vicino al parlatoio. Nella sua stanza a un certo punto andavamo per parlare, con Marcello, con Lisi, con Trovato e con Di Blasi che aveva una testa enorme e tanti capelli ricci, e suonava il tamburo durante le marce. Se chiudo gli occhi e faccio uno sforzo,
mi ricordo benissimo di loro. Lisi, vent'anni circa, era spavaldo, un bel ragazzo, leggeva poesie, sognava di fare l'attore, aveva scritto alla Metro Godwyn Mayer, gli avevano risposto con una lettera di circostanza e lui girava sempre con quella lettera in mano e la faceva vedere a tutti anche se nessuno capiva niente di inglese. Marcello era paffuto con gli occhiali, dicevano che era figlio di NN e che suo padre forse era americano, aveva una carnagione un po' caffelatte da indiano e un paio di baffetti appena accennati. Di Trovato mi ricordo solo il cognome, ma più o meno doveva avere la mia età, quattordici o quindici. Ora ricordo che cera anche Sorci, che era il più piccolo, lo chiamavamo Sorcio.
Caruso diceva che io, Trovato e Sorci eravamo i migliori della nuova leva e per questo ci convocava nella sua stanza con Marcello, Di Blasi e Lisi. Per qualche giorno siamo stati ammessi alla sua stanza in prova, poi ci ha promossi, diceva che voleva farci cultura a bassissimo costo, procurava vecchi volumi non si sa dove, forse andava a rubarli nella libreria del paese dove si trovavano libri usati. Il suo motto era: fare cultura a bassissimo costo, e tutto quello che gli permetteva di rispettare il suo motto era lecito. Durante le sedute si poteva fumare, io avevo ripreso a farmi le sigarette con gli aghi di pino perché sembravano più saporite delle Nazionali. Caruso ogni volta faceva l'appello anche se eravamo solo sei e poteva vedere benissimo se mancava qualcuno. Non mancava mai nessuno, ma se qualcuno arrivava in ritardo doveva giustificarsi: "Padre Nino mi ha trattenuto", "Ero in bagno", "Ero in reparto", eccetera. "Essere in reparto" significava lavorare in falegnameria o in tipografia, che era l'attività del pomeriggio, la mattina si faceva scuola. Il pomeriggio alle sei, dopo il reparto e prima di mangiare, ci si trovava nella stanza di Caruso.

Caruso continuava a guardare per terra. La faccia di Trapattoni si era come smussata negli angoli, forse per la barba lunga che non avevo mai notato. Sbiancata. La faccia aveva perso vitalità e forza, aveva acquistato tristezza, anzi più che tristezza desolazione, con gli occhi che sembravano galleggiare nel vuoto. Ha cominciato a cantare quella specie di Casaciòc triste che sentivo ogni giorno da qualche settimana. Non avevo mai fatto caso alle parole, che erano incomprensibili, dovevano essere in russo. Un po' mi imbarazzava stare lì, di fronte a uno straccione che cantava una canzone strana, una nenia guardando per terra. E poi avrei giù dovuto raggiungere la macchina lungo il viale, invece ero fermo come un coglione davanti a un uomo che credevo di conoscere e mi rispondeva cantando una nenia del cazzo. Cominiciavo a perdere la pazienza, ma non riuscivo a muovermi e ad andare via come avrei dovuto fare, visto quello che era successo ormai tre quarti d'ora prima. Per calmarmi ho acceso una sigaretta come se avessi davanti a me un tempo infinito, le tempie hanno smesso di battere forte, la gente passava al nostro fianco sempre più veloce, il rumore cresceva con i clacson delle macchine improvvisamente impazziti, i tram, le sirene delle ambulanze o quelle isteriche della polizia. Quando ha smesso di cantare la sua nenia ha detto:
"Ormai è tutto finito e io sto crepando".
Continuava a strofinarsi le mani lentamente sempre guardando per terra.
"Sto crepando", ha ripetuto.
"Ti ricordi?", gli ho detto.
Portava sempre in mano qualche libro, si sentiva il nostro maestro e per noi lo era davvero. "Per me si va nella città perduta" dopo un po' la sapevamo quasi a memoria. Ci avvolgeva con la sua bella voce rauca, leggeva Pascoli, Carducci, il Cinque Maggio. Ci dava un bigliettino a testa su cui dovevamo scrivere una parola, poi raccoglieva i bigliettini e ci diceva di inventare una poesie con quelle parole. Ogni tanto si incazzava perché non avevamo idee, sbatteva i libri sul tavolo, strofinava le mani con più forza del solito, ci guarda negli occhi e ci urlava che se volevamo potevamo anche andarcene. Nessuno però se ne andava, restavamo fermi sulle nostre sedie aspettando che gli passasse la rabbia. Gli passava presto e ricominciava a leggere poesie: Pascoli, Carducci, il Cinque Maggio. Distribuiva ancora i suoi bigliettini bianchi e quando ci diceva finalmente di essere contento, noi ci sentivamo poeti come Carducci, artisti come lui, dopo due ore uscivamo dalla sua stanza e per qualche minuto ci sentivamo migliori degli altri. Ma bastava poco per tornare ad essere quei poveracci che eravamo, a cena nel refettorio mangiavamo come porci la zuppa di fagioli, sapevamo bene che i sacchi di fagioli erano stati invasi dai vermi, ma noi li mangiavamo ugualmente, ci strappavamo dalle mani il pane duro che ci mettevano sul tavolo. Il giorno dopo si ricominciava, andavamo nella stanza di Caruso dimenticando tutto. Lui ripeteva: "Non ci siamo, non ci siamo, dovete ascoltare me, dovete ascoltare la mia voce, la voce di Carducci". Aveva una predilezione per Carducci, "L'albero a cui tendevi la pargoletta mano" era la sua preferita. Ognuno doveva interpretarla, allora si apriva la discussione, si cominciava a parlare della nostra vita, della vita e della morte, Caruso muoveva le braccia, diceva è giusto, è sbagliato e noi pendevamo dalle sue labbra come poveracci. Lisi smetteva di fare lo spavaldo e di muoversi come un attore, diventava un poveraccio anche lui, diceva: "Voi siete la mia famiglia, so cosa c'è fuori e preferisco restarmene qui a Castellaccio". Caruso parlava anche del nostro futuro, a ognuno di noi aveva assegnato un destino: chi professore, chi avvocato, chi dottore, a me diceva che potevo diventare uno scrittore o un poeta perché sui bigliettini, diceva, scrivevo sempre la parola che avrebbe scritto lui. Durante quelle ore scompariva persino il prurito alle mani. Diceva di essere sicuro di noi, delle nostre qualità, diceva anche di essere sicuro che c'era un'altra vita. In fondo speravamo che anche in futuro lui ci avrebbe prorotetti e guidati. Invece le cose, purtroppo, non vanno mai come dovrebbero andare.



Ho sollevato lo sguardo e ho ritrovato gli stessi occhi azzurri e luccicanti di un tempo. Esattamente uguali. Mi ha guardato, ho ritrovato la calma, nonostante il rumore delle macchine e dei clacson e della gente che passava. Continuava a stropicciarsi le mani. Mi ha detto:
"Sto crepando, è tutto finito".
Io gli ho detto: "Ti aiuto, ti porto in ospedale, chiamo un'ambulanza".
Con quello che era successo un'oretta prima, avrei dovuto raggiungere rapidamente la macchina, altro che chiamare l'ambulanza e portarlo in ospedale. Ho preso una decisione, ho afferrato il braccio di Caruso e l'ho tirato verso la strada, ho guardato a sinistra, ho sollevato una mano e si fermato un taxi. L'ho aiutato a salire, ho chiuso la portiera, ho fatto il giro e mi sono seduto al suo fianco, puzzava di merda e di sudore e di fumo e di vino rancido. Ho detto al tassista di portarci al primo ospedale. Caruso ha chiuso gli occhi, ha lasciato andare indietro la testa e come in trance ha cominciato a sussurrare qualche verso che non ricordavo. Forse Carducci. Con tutto quel che avevo combinato un'ora prima, ora stavo lì tranquillo ad ascoltare Carducci, come se niente fosse successo. Guardavo la città oltre il finestrino, qua e là si spegnevano i lampioni, un grigiore più chiaro invadeva le strade, i palazzi e forse anche la gente che non si fermava mai, camminava diritta sui marciapiedi, mentre le macchine avanzavano e rallentavano a ondate uniformi.



Un pomeriggio abbiamo parlato dell'orrido abisso. Ci ha chiesto che cosa significa orrido, nessuno rispondeva, allora lui ha detto: "Significa profondo di secoli". E abisso? "L'abisso è un buco senza fine". Spesso chiudeva gli occhi e recitava i suoi versi, parlava del cuore che diventa di ghiaccio e del ghiaccio che si scioglie, diceva che chinarsi è gioire, questo lo diceva spesso. Poi chiedeva a noi di recitare i versi che aveva scritto su un foglio, se non li leggevamo bene dovevamo ricominciare da capo. Lisi leggeva benissimo e non capivamo perché la Metro Goldwyn Mayer gli aveva risposto così. Caruso gli diceva che i desideri non si possono esaudire subito e che comunque sarebbe diventato un grande attore. Un pomeriggio Caruso ha detto che non voleva leggere poesie, voleva parlare della donna. Ci siamo guardati, le orecchie di Sorcio sono diventate rosse e lampeggiavano come semafori. Caruso ha cominciato a dire che quando si va con la fidanzata bisogna rispettarla, non bisogna mai mettere una mano nella racchia (ha detto proprio così, racchia) all'improvviso, bisogna stare calmi, se la mettete incinta potete darvi una pistolettata in testa, meglio una sega. Ma anche quando uno si sposa, ha detto Caruso, non deve essere brutale perché la donna va presa sempre con molta calma e cortesia. Mentre parlava, sentivo le mie orecchie calde e rosse come quelle di Sorcio. Poi Caruso ha parlato de velo che si rompe e del sangue che esce la prima volta, non bisogna spaventarsi, non è successo niente di male, l'importante è fare molto piano e se lei non vuole, non insistete perché rischiate di farle male e di rovinarla, perciò dovete fare adagio adagio. Poi ha detto che se il sangue non esce sei rimasto fregato. I più grandi si guardavano e facevano sì con la testa. Io avevo le orecchie sempre più calde, sentivo anche il solito prurito alle mani e non capivo niente. Allora ho acceso una sigaretta.


Ho aspettato diverse ore in piedi nell'atrio dell'ospedale, finché è venuta a chiamarmi un'infermiera, mi ha chiesto se ero un parente, le ho detto di no. Ha fatto una smorfia come per dire: meno male. Ho chiesto che cosa stava succedendo, non mi ha risposto, mi ha detto di seguirla, l'ho seguita per un lungo corridoio tappezzato di mattonelle bianche, lungo le pareti c'erano barelle vuote qua e là. Siamo entrati in una stanza dai soffitti altissimi, lui stava lì sdraiato e coperto da un lenzuolo bianco, aveva gli occhi socchiusi, molto lentamente li ha girati verso di me, ha farfugliato qualcosa, forse ha ripetuto "Sto morenndo", gli occhi sono rimasti girati verso di me, si sono come asciugati ma è uscita una lacrima che ha rigato la guancia scavata perdendosi sulle labbra viola. é morto così, forse voleva dirmi qualcosa ma non ho capito. Le sue scarpe stavano per terra, di fianco al lettino. L'infermiera è rimasta al mio fianco per un minuto, poi mi ha chiesto il suo nome, ho risposto che non lo conoscevo, ho lasciato il mio nome e sono uscito nel grigio gelido di quella mattina. Avrei dovuto raggiungere al più presto la mia macchina, ma forse era troppo tardi per andar via. Prima o poi qualcuno si sarebbe accorto di me. Infatti, sotto la pensilina dell'ospedale, ho sentito una morsa sul braccio, mi sono girato. Lo sapevo che sarebbe finita così. Mi hanno chiesto subito: "Lei è Giovanni Rizzo?". Ho detto: "Sì, sono io".