Chiara Zocchi è nata a Varese il 25 marzo 1977. Dopo aver conseguito il diploma di maturità scientifica si è iscritta alla facoltà di Scienze della comunicazione di Lugano, che frequenta attualmente. Nel 1996 ha pubblicato presso la casa editrice Garzanti il suo primo romanzo intitolato Olga, che è stato pubblicato in molti paesi europei (Grecia, Germania, Repubblica Ceca, Spagna, Olanda. E presto anche in Giappone, Francia, Portogallo). Il romanzo Olga ha vinto i seguenti premi: premio Rapallo-Carige per opera prima, premio Fiuggi (sez. giovani), premio Costantino Pavan (S. Donà di Piave). Attualmente Chiara Zocchi fa parte della giuria del premio Piero Chiara (sez. giovani) e sta lavorando a un secondo romanzo.


 

CHIARA ZOCCHI
LINEA ROSSA

racconto di fine millennio
6 fermate

Io sono dentro e fuori. Per me non c'è distinzione. Tutto è un buio omogeneo interrotto a tratti dal lampeggiare dei fuochi di un'altra mente.

Ogni mio passo è buio. E si muove tra le cose e persone, mentre gocce di pioggia cadono una sull'altra, inglobandosi. Anzi, cadono una nel punto in cui è caduta l'altra. Perché in effetti ogni goccia rimbalza sull'asfalto e scivola. Questa è la sensazione più visiva che io abbia potuto sentire.

La mia persona è buia. Ma non il buio cieco del sonno, cui si sovrappongono le plastiche vicende del sogno. Piuttosto il buio lampeggiante di chi chiude gli occhi mantenendo lucida la coscienza, esplorandosi. Io sono il buio sogno lampeggiante dell'uomo che sta chiudendo gli occhi rimanendo sveglio. E in quanto sogno vivo nella sua oscurità. Non posso aprire gli occhi sul mondo, perché con la luce io mi dissolvo. Posso nascere solo dall'immaginazione legata al buio.

Tutto di me è buio. Il corpo come lo spirito. Quello che penso o che sento si vede chiaramente come il mio naso o il mio cappello. D'accordo, non ho mai portato un cappello e non ne possiedo uno, ma mio nonno Aldo sì (quando faceva lunghe passeggiate al Sacro Monte)... e io so da lui come sono fatti. Non è indispensabile avere una cosa per portarla ad esempio, per parlarne. Spesso gli uomini parlano solo delle cose che non hanno. E se non avessi così paura delle eccezioni e della parola sempre, direi sempre.

Ho saputo come è fatta la pioggia e tutto quello che c'è da sapere a Milano dalla signora con curiose gonne che lavora sui metrò. Lei non viene pagata con soldi, ma con le parole di chi incontra. So che di notte va a fare delle danze sui Navigli, bacia il citofono di Alda Merini... e poi sta delle ore a parlare con l'acqua. Le persone la chiamano pazza. Non credo che sia il suo nome, ma quando le ho chiesto come si chiamava, lei ha detto Pazza, con la p maiuscola. Grazie a lei ho fatto il mio primo viaggio in metrò.
Mi ha detto che il suo lavoro è molto difficile. E un giorno a voce normale mi ha sussurrato: "Sai del morbo, vero?".
"Quale morbo?".
"Sta prendendo tutti, uomini e donne. Ma, grazie a Dio, Buddah , Allah e agli dei dell'Olimpo, i bambini sono salvi, e anche i matti e certi vecchi. E quelli come te".
"Ma di cosa si tratta?".
"Dell'happy change!".
"Ma io non so l'inglese".
"Non importa. Ascolta il suono delle parole e dimmi se il solo suono non ti fa pensare a un male morale in agguato...".
"...".
"H a p p y C h a n g e...".
"...".
"Allora?".
"Allora non capisco".
"E va bene. Ti aiuto. Significa felice cambiamento".
E dopo avermi detto questo, mi è sembrato che sorridesse compiaciuta. Sicura di avermi illuminato. Spesso gli uomini parlano credendo che gli altri capiscano. E se non avessi così paura delle eccezioni e della parola sempre, direi sempre.
"Ma cosa intendi dire?".
Sapevo per certo che dopo la mia domanda e il chiarimento della mia oscurità, se prima lei stava sorridendo, adesso non sorrideva più.
"La gente non cambia! Capisci adesso? Hanno delle frasi nella testa che ripetono a tutti e per questo vogliono incontrare il maggior numero di persone possibile. Dicendo le stesse cose a persone diverse, ognuno finge di conoscersi una nuova volta. E ci sono persone che non fanno altro, nella vita, che presentarsi e presentarsi. Come se il loro nome bastasse all'esistenza. Vedi, io non sono scema".
"Non l'ho mai pensato".
"Ma lo penserai, lo penserai. Prima o poi tutti pensano di chiunque, almeno un momento nella vita, questo è scemo. Lo so, lo so... Tendo a generalizzare... Ma è colpa di mio marito. Lui era un generale dell'esercito. E da quando è morto, io parlo così per farmi dire dalla gente la frase che più amo: Tu tendi a generalizzare, cara mia'. E quando me la dicono, Dio come mi diverto a rispondere, ridendo selvaggiamente.. Eh certo! Parlo di mio marito!'.
"Così la gente mi chiama pazza... E va bene. Che mi chiamino come gli pare! Finché non si decideranno a chiedermi chiarimenti, non sapranno che tutto quello che dico è LOGICO!
"Lo-gi-co!".
"Beh, ma dimmi del morbo...".
"Ah, sì. Il morbo... Ti dicevo che non cambiano... Il problema è che non danno più un senso alle cose. E dare un senso alle cose vuol dire fare un passetto. Oplà! (E dicendolo, ha fatto un saltino. L'ho capito dallo spostamento del suo profumo e dal leggero rumore della scarpa...) Senza passetto, non si cambia un bel niente".
"Ma tanti camminano, corrono. Ne fanno di passi!".
"E' giù arrivato il momento in cui penso che tu sia scemo?!".
"Scusa, non volevo dirlo, ma l'umorismo è un altro bell'ingrediente...".
"Il passetto non va fatto coi piedi, anche se io te l'ho fatto vedere coi piedi per farti una metafora, un esempio reale che ti spiegasse per bene quello che volevo dire. Ma non conosci i poeti maledetti?
"I passetti vanno fatti con la testa. Ad esempio io, per parlarti ho dovuto fare un passetto perché sei uno sconosciuto. E nelle teste c'è scritto non parlare agli sconosciuti!
"Il passetto non è altro che un cambiamento. Un HAPPY CHANGE, per l'appunto".
"Ma io sono cieco. Non riesco a leggere le cose che ho scritte nella testa...".
"Le hai, le hai. Forse un po' più sfocate, ma le hai. E comunque, ti ho giù detto poco fa che tu, coi veri vecchi e i matti e i bambini, puoi salvarti...".

Anche all'Istituto mi dicevano che avrei potuto salvarmi. Mi dicevano che avrei dovuto valorizzare il mio senso mancante. Ai corsi, quando qualcuno cominciava a piangere o a demoralizzarsi, cominciavano a farci esempi in cui persone normali avevano pensato: "Oh, come vorrei non avere questo senso...". Ad esempio certe donne che compravano cose a Milano e, per la strada, dicevano: "Che casino, Carla!".1 E con questo potevano voler dire o che avrebbero voluto sterminare la popolazione, restando loro due o tre sole, libere di muoversi nella città e di sentire il silenzio della storia. (Ma chi potrebbe attribuire un tale desiderio omicida a quelle braccine dorate?) Oppure che avrebbero voluto, in quel momento, non sentire. (Naturalmente con ciò avrebbero dovuto anche rinunciare a parlare fra di loro, ma tanto non avevano più amiche di cui dire qualcosa.) Certo, non dicevano di voler essere sorde, ma lo facevano capire con espressioni o gesti della mano. Ad esempio, so di una ragazza che, mentre litigava sul marciapiedi col suo ragazzo (con cui, mi sembrava di aver capito, si doveva sposare entro quell'anno), a un certo punto si è premuta con forza le mani sulle orecchie, lasciando intuire che in quel momento non avrebbe voluto sentire... Ecco, all'Istituto ci facevano molti di questi esempi. Mi viene in mente anche quello di un uomo molto sensibile che piangeva ogni volta che qualcuno gli rispondeva male. Beh, un giorno esclamò (c'erano testimoni): "Oh, come vorrei non essere così sensibile!". E poi quello della donna gelosa del marito che, immaginando quello che lui doveva pensare di altre donne, stava impazzendo, così un giorno scrisse sul suo diario: "Al diavolo il sesto senso!". E infine l'esempio di cui sono io stesso testimone: mentre un ragazzo e una ragazza si dicevano "Piccicci ciccipicci" e cose del genere, un vecchio signore ha sputato per terra, vicinissimo alla loro panchina e ha detto fra i denti: "Odio le frasi senza senso!". E, andando via, ha fatto un grugnito. Certo, è raro che qualcuno dica che non vorrebbe vedere, ma l'infermiere mi ha portato su una montagna, una sera. E mi ha raccontato una storia sul deserto. Ogni sera, tornando sulla montagna, potevo essere a Roma, o sul Ponte Carlo, o su una gondola.
Grazie a lui avevo trasformato il mio senso mancante in un contenitore di sensi. E ora, grazie alla Pazza, oplà, avevo fatto il mio primo passetto sul metrò...