Overview (2006-2007) Anno 1 Numero 6 settembre 2006
Effettuo la registrazione e mi addentro esitante in uno dei numerosi forum in internet dedicati alla cultura otaku. Vengo fagocitata da un coloratissimo mondo, che immediatamente mi riporta con la mente ai cartoons giapponesi della mia infanzia. Nei sorprendenti luoghi virtuali in cui timidamente penetro, tuttavia, si annida molto di più. Voraci, onnivori, succubi di una passione destabilizzante, in alcuni casi ai limiti della patologia: è così che vengono spesso descritti nella loro madrepatria i cosiddetti otaku, giovani appassionati di manga e anime (i cartoni animati giapponesi), che trascorrono la maggior parte del tempo in casa, coltivando in maniera del tutto smodata questo loro interesse. Oggetto di vere e proprie indagini sociologiche, spesso, e forse troppo frettolosamente, bollati come espressione del malessere di un’intera generazione, gli otaku sono un fenomeno nato in Giappone, e che in seguito si è esteso progressivamente all’Occidente, tanto da indurre a coniare il termine Wapanese, per indicare ragazzi europei e americani appassionati dello stile di vita del Sol Levante.
Una morale estetizzante e ai limiti del voyeurismo, intrisa di sottintesi erotici, neanche tanto celati; un mondo caotico, coloratissimo, iperbolico, costellato da sinuose ragazze ammiccanti e dalle forme prorompenti, liceali alle prese con le prime turbe sessuali, “miracle girls” dotate di poteri magici; tutto questo, e molto di più, è il regno degli otaku, uno spazio sospeso in una variegata virtual reality, in cui oggi, a manga e anime, si aggiungono film e videogames. A caratterizzare la cultura otaku è soprattutto l’inconfondibile grafica: personaggi dagli enormi occhi, colori brillanti, un’arte profondamente pop che ha varcato i confini dei comics per penetrare in maniera sottile molti aspetti della way of living giapponese.
Eppure l’opinione pubblica dell’Impero del Sol Levante possiede un’idea profondamente deformata degli otaku, considerati come una tribù metropolitana, spesso protagonista di inquietanti fatti di cronaca.
La subcultura otaku ha in ogni caso permeato profondamente l’estetica e l’arte contemporanea giapponesi, rendendo quanto mai visibile la ricchezza, la varietà e anche le profonde contraddizioni di un mondo metropolitano, quello della stessa stupefacente molteplicità percepibile tra le surreali figure di Shinjuku e Harajuku, i quartieri più celebri di Tokyo.
Un filo comune sembra legare questo mondo e quello dissacrante, onirico, famelico, a tratti nostalgico del celebre artista giapponese Takashi Murakami, nella cui opera sembrano essersi felicemente incontrate la tradizione giapponese e la creatività profondamente pop degli otaku.
La sua opera attinge a tutto questo e lo rielabora sulla base del concetto di superflat/superpiatto, una poetica agli antipodi della “giottesca” idea di prospettiva e che richiama l’estetica del celebre pittore Hokusai, uno dei padri della pittura orientale. Il patrimonio otaku è la chiave di lettura dell’arte di Murakami, i manga e gli anime ne rappresentano i pilastri inconfondibili: Doraemon, Miffy, Hello Kitty sono solo alcune delle più celebri icone del surreale mondo pop giapponese che l’artista ha voluto indagare. Fin qui nessuna novità: i cartoons sono stati tra i soggetti protagonisti dell’arte sin dai tempi di Roy Lichtenstein negli anni ’60.
Ciò che differenzia l’arte di Murakami dalla pop art di Warhol e dei suoi successori è il suo spesso criticato legame con il mercato: le sue collaborazioni con Louis Vuitton e Marc Jacobs hanno reso la sua arte onnipresente. Ma tutto questo non deve oscurarne la profondità.
Il caratteristico universo di Murakami ha infatti posto tristemente in risalto anche la piattezza emotiva del Giappone contemporaneo, la vacuità di un tempo distorto, in un paese che pare aver superato il trauma bellico, ma che, contemporaneamente, sembra essere divorato da una febbre consumistica senza limiti.
Le grandi fratture che corrodono l’Impero del Sol Levante sono più che mai evidenziate da quella che si delinea come una vera e propria “questione otaku”, quasi che questi ragazzi siano emblema e insieme metafora di un paese che ripiega tristemente su se stesso e sembra aver smesso di lottare. Murakami ha apertamente sfidato i pregiudizi esistenti sugli otaku, affermando che essi sono discriminati e alienati nella società giapponese contemporanea, tanto da essere costretti a creare nuovi “culti” nella loro disperata ricerca della salvezza. Una salvezza, peraltro, che li vede confinati nello spazio caratteristico ed esclusivo delle loro case o dei comic market, veri e propri eventi con la partecipazione di migliaia di persone, territori simbolici in cui essi rappresentano manifestamente la loro volontà di restare al margine.
Per Murakami la “otaku culture” è una via privilegiata, dunque, per la comprensione della società giapponese contemporanea.
L’artista ha così felicemente attinto a tale iperbolico e contraddittorio regno, arrivando a coniare il termine poku, combinando le parole pop e otaku: ha così fondato quella che viene definita poku culture, di cui un emblema è sicuramente Hiropon, l’inconfondibile ragazza in stile manga dai seni immensi che spruzzano latte. Da qui, quindi, la creazione della Hiropon Factory, un evidente richiamo alla celebre Factory di Andy Warhol, un laboratorio volto alla sperimentazione e alla ricerca artistica, peraltro fucina di talenti dell’arte contemporanea giapponese.
A un occhio superficiale e poco addestrato ai profondi substrati dell’arte, l’opera di Murakami sembrerà un tripudio di giocosa voglia di vivere; eppure, come è parso evidente, ciò che questo provocatorio artista vuole rappresentare con le sue creazioni è soprattutto la condizione discriminata di un folto gruppo di suoi connazionali. E questo non può che velare la sua opera di una nota sottilmente malinconica, un messaggio di denuncia contro i preconcetti di una società che ha smesso di interrogarsi su stessa, o forse ha il timore di farlo.