Appunti di lavoro


S l a v o j   Z i z e k
Violenza politica tra fiction e fantasy

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Nella sua versione filmica de Il Processo, di Kafka, Orson Welles compie un’esemplare operazione anti-oscurantista reinterpretando il luogo e la funzione della famosa parabola della "porta della Legge". Nel film, la sentiamo ripetere due volte, all’inizio funge come una sorta di prologo, letta e accompagnata da (false) antiche stampe proiettate da una lanterna magica; in seguito, appena prima della fine, essa è declamata a Josef K. non dal prete (come nel romanzo) ma dall’avvocato di K. (interpretato da Welles stesso), che inaspettatamente raggiunge il prete e K. nella cattedrale.
L’azione qui prende una strana piega e diverge dal romanzo di Kafka:prima ancora che l’avvocato si animi nel suo racconto, K. lo interrompe: "L’ho già sentita. Tutti l’abbiamo sentita. La porta era stata destinata solo per lui". Ciò che segue è un doloroso dialogo fra K. e l’avvocato in cui l’avvocato consiglia K. di "protestarsi pazzo" dichiarando che è perseguitato dall’idea di essere vittima del diabolico complotto di un misterioso agente di stato. K. comunque, rifiuta il ruolo di vittima offertogli dall’avvocato: "Non voglio fingermi un martire". "Nemmeno una vittima della società?" "No, non sono una vittima, io sono un membro della società...".
Nel suo slancio finale K., infine, sostiene che la vera cospirazione (del Potere) consiste nel tentativo di persuadere i soggetti che essi sono vittime di forze irrazionali impenetrabili, che ogni cosa è folle, che il mondo è assurdo e senza senso. Quando K., poco dopo, lascia la cattedrale, due poliziotti in borghese lo stanno già aspettando; lo trascinano in una cava abbandonata e lo fanno esplodere con la dinamite. Nella versione di Welles, la ragione per cui K. è ucciso è perciò l’esatto opposto della ragione implicita nel romanzo: egli presenta una minaccia per il potere nel momento in cui smaschera, "vede attraverso", la fiction su cui è fondato il legame sociale della struttura esistente del potere. La lettura di Welles del Processo, differisce così dai due approcci prevalenti verso Kafka, quello oscurantista-religioso e quello ingenuamente illuminato e idealista. Secondo il primo, K. è effettivamente colpevole: ciò che lo rende colpevole è la sua molto ingenua asserzione di innocenza, la sua arrogante fiducia in argomentazioni ingenuamente razionali. Il messaggio conservatore di questa lettura, che presenta K. come il rappresentate della illuministica messa in questione dell’autorità, è evidente: K. stesso è il vero nichilista che agisce come il proverbiale elefante nel negozio di porcellane cinesi: la sua fiducia nella ragione pubblica lo rende totalmente cieco al Mistero del Potere, alla vera natura della burocrazia. La Corte appare a K. come una misteriosa e oscena agenzia che lo bombarda con "irrazionali" domande e accuse esclusivamente dal punto di vista della distorta prospettiva soggettivista di K.: come il prete nella cattedrale chiarisce a K., la Corte è di fatto indifferente, non desidera nulla per lui... Per la lettura opposta, Kafka è uno scrittore profondamente ambiguo che mette in scena il supporto fantasmatico del macchinario burocratico totalitario, ma è tuttavia egli stesso incapace di resistere alla sua attrazione fatale. Qui risiede la difficoltà percepita da molti come una lettura "illuminata" di Kafka: alla fine, non partecipò all’infernale macchina che andava descrivendo, dunque andando a rafforzarne le fondamenta, invece di romperne l’incantesimo?
Benché possa sembrare che Welles collochi se stesso nella seconda lettura, le cose non sono poi così prive di equivoci: egli per così dire aggiunge un altro giro di vite conducendo la "cospirazione" a un doppio del potere — come K. indica nella versione di Welles del suo esito finale, la vera cospirazione del Potere risiede nella stessa nozione di cospirazione, nella nozione di alcuni misteriosi Agenti che "tirano le fila", ed effettivamente tengono la scena, cioè alla nozione che, dietro il potere pubblico, visibile, ci sia un’altra oscena, invisibile, "folle" struttura di potere. Quest’altra, nascosta Legge, farebbe la parte dell’"Altro dell’Altro" in senso lacaniano, la parte di meta-garanzia della consistenza del grande Altro (l’ordine simbolico che regola la vita sociale). La "teoria della cospirazione" fornisce una garanzia che il campo del grande Altro non è un inconsistente bricolage: la sua premessa di fondo è che, dietro al Padrone pubblico (che naturalmente è un impostore), c’è un Padrone nascosto che tiene realmente tutto sotto controllo. I regimi "totalitari" erano abili specialmente nel coltivare il mito di un potere parallelo segreto, invisibile e per questa stessa ragione onnipotente, un tipo di "organizzazione nell’organizzazione" — K.G.B., frammassoni, o quel che sia — che compensi l’evidente inefficienza del potere pubblico e legale, e così assicuri il tranquillo operare della macchina sociale: questo mito non solo non è in alcun modo sovversivo, ma funge da definitivo puntello del Potere. La perfetta controparte americana a ciò è (il mito di) Edgar Hoover, la personificazione dell’osceno "altro potere" dietro il Presidente, l’ambiguo doppio dietro il potere legittimo. Egli si aggrappò al potere per mezzo di schedari segreti che gli permisero di tenere sotto controllo l’intera élite politica e di potere, mentre lui stesso indulgeva regolarmente in orge omosessuali vestito da donna...
L’avvocato di K. gli offre, come una disperata ultima risorsa, questo ruolo di martire-vittima di una cospirazione nascosta; K., comunque, non lo accetta, ben consapevole che accettandolo si incamminerebbe verso la più perfida trappola del Potere. Questo osceno miraggio dell’Altro Potere porta in scena lo stesso fantasmatico spazio che si vede nel famoso spot pubblicitario della vodka Smirnoff, che manipola con destrezza lo scollamento tra la realtà e "l’altra superficie" dello spazio fantastico: la macchina da presa vaga lungo il ponte di un lussuoso transatlantico, piazzata dietro la bottiglia di vodka sul carrello spinto da un cameriere; ogni volta che passa un oggetto, prima noi lo vediamo come è nella realtà di ogni giorno, poi, quando per un breve momento il vetro trasparente della bottiglia cade tra il nostro sguardo e l’oggetto, lo percepiamo distorto nella sua dimensione "fantasy" — due genti-luo-mini in smoking diventano due pinguini, il collier intorno al collo di una signora diviene un serpente vivo, la scala diventa una tastiera di pianoforte, ecc. La Corte nel Processo di Kafka possiede la stessa esistenza puramente fantasmatica; il suo predecessore è il Castello di Klingsor nel Parsifal di Wagner. Dato che si basa sul soggetto è interamente fantasmatica, sarebbe sufficiente rompere il suo incantesimo grazie a un gesto di distanziamento, e la Corte e il Castello cadrebbero in polvere. Qui risiede la lezione politica del Parsifal e del Processo di Welles: se vogliamo rovesciare il potere sociale "reale" dobbiamo prima spezzare il suo fantasma che sta in noi.
Per evitare il rimprovero di stare commettendo una petitio principii, facendo ricorso a un esempio preso dalla fiction letteraria per provare che la violenza emerge quando la finzione è minacciata, evochiamo un altro caso esemplare di Male che, benché sia passato nella fiction, prende origine dalla "vita vissuta": lo sfortunato Capitano Bligh del Bounty. Qui siamo di fronte ad un vero enigma: perché questo ufficiale esemplare, ossessionato dalla sicurezza e dalla salute dei suoi marinai, si è trasfigurato in una delle figure archetipe del Male nella nostra cultura popolare? I cambiamenti successivi nell’immagine prevalente di Bligh servono come degli indicatori perfetti dei cambiamenti nell’ideologia egemonizzante — ogni epoca ha avuto il suo Bligh. Sarà sufficiente menzionare i tre principali ritratti cinematografici: l’aristocratico decadente Charles Laughton negli anni ’30, il freddamene burocratico Trevor Howard negli anni ’60, il mentalmente sofferente Anthony Hopkins negli anni ’80 ...
Quasi più interessante di queste vicissitudini è comunque l’enigma delle origini: che cosa accadde "realmente" sul vascello di Sua Maestà la Regina, The Bounty? Quale fu la "vera causa" dell'ammutinamento? La nostra prima tentazione, naturalmente, è di opporre un contro-mito al mito ufficiale: Bligh fu un severo, zelante e pedante, tuttavia profondamente corretto e scrupoloso capitano, di impeccabile integrità personale. L’ammutinamento contro di lui fu causato dalla coalizione di alcuni giovani ufficiali viziati di origine aristocratica infastiditi dal fatto che Bligh, loro superiore, non fosse un vero gentiluomo, "uno di loro", ma di rango inferiore ed equo nel trattare con i marinai; ed anche dal lumpenproletariato dei marinai-galeotti che erano altrettanto infastiditi dal senso di giustizia di Bligh che lo portava a reprimere i loro tentativi di terrorizzare i comuni e innocenti marinai. La sua tendenza "progressista", inusitata per la sua epoca, viene attestata ancora quando, vent’anni dopo l’ammutinamento del Bounty, nel solo caso di colpo di stato militare di tutta la storia inglese, egli fu forzosamente costretto a dimettersi dalla carica di governatore dell’Australia. Gli ufficiali corrotti del Nuovo Galles del Sud lo rovesciarono proprio per causa della sua politica: Bligh aveva minacciato di rompere il loro monopolio illegale sulla vendita del rhum; dopo che i prigionieri avevano scontato la pena, egli si sforzava di integrarli nella vita sociale normale e offriva persino loro un impiego nelle agenzie governative ecc.
Questo contro-mito, comunque, fornisce un quadro fin troppo semplificato della situazione. L’elemento di verità in esso è che Bligh era visto come un "non autentico gentleman", come uno che aveva il potere (come capo della nave aveva il potere di prendere le decisioni e dare ordini, diritto da cui aveva tratto tutti i vantaggi), tuttavia senza irradiare la vera autorità (il carisma, il je ne sais quoi da cui avrebbe dovuto scaturire il rispetto e far di lui un leader naturale). Tutte le descrizioni concordano su questo punto: Bligh era in un certo senso "rigido", carente di quella sensibilità che consiglia a un buon leader quando e come applicare le regole, come mettere in conto l’"organico", spontaneo collegamento di relazioni fra i suoi subordinati, ecc. Comunque, anche questa analisi non è abbastanza precisa: l’errore di Bligh non fu semplicemente quello di essere insensibile alla rete concreta di relazioni "organiche" fra i suoi marinai, la sua limitazione cruciale consisté nel fatto che egli fu completamente cieco per la funzione strutturale delle relazioni ritualizzate di potere fra i marinai (i diritti del più anziano, la possibilità, da parte del marinaio più esperto di umiliare il più giovane e inesperto, di sfruttarlo sessualmente, di sottometterlo ad ordalie, ecc.). Questi rituali fornirono un ambiguo supplemento alle relazioni pubblico-legali di potere: essi agirono come il loro ambiguo doppio, apparentemente trasgredendole e sovvertendole, ma invece servendo loro da concreto supporto. È sufficiente menzionare la cosiddetta "Crossing the line", una ordalia estremamente crudele e umiliante a cui erano sottomessi coloro che per la prima volta attraversavano l’equatore (legati a una corda, erano gettati nell’oceano e trascinati per ore, così da bere l’acqua del mare, ecc.).

Era questa linea che divideva il mondo in emisferi, l’equatore. Questa linea segnava l’ingresso in un mondo capovolto, agli antipodi, un luogo di opposizioni speculari, dove le stagioni erano rovesciate, dove anche i cieli immutabili erano differenti… Attraverso il tempo e fra le nazionalità, le cerimonie differivano, ma la loro espressione aveva un carattere comune. Innanzitutto, esse mettevano in scena un mondo rovesciato in cui per una volta la guida della nave apparteneva a quelli che avevano già attraversato la Linea, e non a qualcun’altro per diritto o per guarentigie o per comando... Una seconda qualità comune era che il teatro della cerimonia era sempre una grottesca satira alle istituzioni e ai ruoli del potere. La satira avrebbe dovuto essere verso i sacramenti dello Stato — l’abbraccio di un cavaliere — o verso i sacramenti della Chiesa — battesimo dato dal prete. Sulle navi inglesi del tardo XVIII secolo la satira riguardava la monarchia e il potere di vita e di morte... La prova era piena di insulti, umiliazioni, ingiustizie, giuramenti erotici, e scelte compromettenti.

Ancora, bisogna essere attenti al carattere profondamente ambiguo di questi rituali: essi sono una satira delle istituzioni legali, una inversione del potere pubblico, e tuttavia sono una trasgressione che consolida ciò che trasgredisce. Nella sua cecità per il ruolo "stabilizzante" di questi rituali, Bligh li proibì, o almeno li rese inoffensivi tramutandoli in innocui esercizi folkloristici. Preso nella trappola illuminista, Bligh fu capace di percepire solo l’aspetto brutale e disumano del rituale ("di tutte le usanze, questo è il più brutale e inumano" scrisse), non la soddisfazione che portava con sé. Henningsen ha trovato osservatori che usano le seguenti parole per descrivere la cerimonia del "Crossing the Line": ridicola, infantile, sciocca, stupida, idiota, comica, bizzarra, grottesca, pazza, ripugnante, burlesca, profana, superstiziosa, vergognosa, oltraggiosa, rivoltante, faticosa, pericolosa, barbara, brutale, crudele, volgare, ingorda, vendicativa, contestataria, licenziosa, folle, e non sono forse tutti questi dei sinonimi di jouissance, godimento? L’ammutinamento-violenza erompe quando Bligh interferisce con questo fosco mondo di osceni rituali che servivano da fantasmatico sfondo del Potere.
Il nostro terzo esempio deriva dalla "vita vissuta" nella sua maggior brutalità: gli atti di violenza (torture e assassini) nelle attuali comunità di cercatori d’oro nel bacino amazzonico. Qui abbiamo a che fare con comunità isolate in cui è possibile osservare la logica delle relazioni di potere e degli scoppi di violenza come se si fosse in condizioni di laboratorio. Queste comunità consistono di una moltitudine dispersa di cercatori d’oro individuali; benché nominalmente liberi imprenditori, tutti sono in realtà dipendenti dal mercante locale che monopolizza il commercio nell’area. Il mercante vende loro cibo, gli strumenti per scavare, come pure altri utensili, e compra da loro le pepite; essi sono pesantemente indebitati col mercante che non vuole che questi debiti siano estinti, dato che il suo potere è basato sull’indebitamento permanente dei suoi clienti. Le relazioni sociali in una simile comunità sono regolate da una duplice fiction, o piuttosto dalla coesistenza paradossale e surdeterminata di due fiction incompatibili. Da un lato vi è la fiction dello scambio paritario, come se il cercatore e il mercante fossero due soggetti liberi che si incontrano sul mercato sul piede di parità. L’inverso è dato dall’immagine del mercante monopolistico come Padrone patriarcale che si prende cura dei suoi clienti, mentre questi ultimi lo ripagano per le sue cure paterne con rispetto e amore. Al di sotto di questa fiction contraddittoria c’è, naturalmente, la realtà del monopolio del mercante, del suo brutale sfruttamento. La violenza che, di tanto in tanto, scoppia in queste comunità è diretta in primo luogo contro quelli che minacciano il fragile equilibrio di questa doppia fiction: il bersaglio preferito dei mercenari dei mercanti non sono quelli che non riescono a ripagare i propri debiti, ma quelli che tentano di sfuggire dalla zona benché siano ancora indebitati, e specialmente quelli che hanno troppo successo e sono così in posizione da estinguere i loro debiti, essi sono la minaccia maggiore al potere del mercante. (Uno scenario tipico è per il mercante di convocare un cercatore pesantemente indebitato, e di dargli ad intendere di esser pronto a cancellare metà dei suoi debiti se egli mette a fuoco la casa di un altro cercatore i cui affari vanno troppo bene...). Ciò che abbiamo qui è il caso esemplare di come il desiderio sia inscritto nell’ambiguità del francese ne expletif: il desiderio "ufficiale" del mercante è che i suoi clienti ripaghino i propri debiti il prima possibile, ed egli li tormenta incessantemente perché sono in ritardo con l’ultimo pagamento, mentre in realtà ciò che teme veramente è che essi si liberino dai debiti, cioè il suo vero desiderio è che essi rimangano indebitati con lui indefinitamente. Come Bruce Fink dimostra un equivalente approssimativo del francese ne expletif è l’uso ambiguo in inglese di "but" ["ma", "purché", "tranne che"; n.d.t.]: l’interpolazione del "ma" spesso conferisce un accento che smentisce l’intenzione "ufficiale" dell’affermazione. Così, potremmo immaginare il mercante che dice a un cercatore d’oro indebitato: "Non ho timori, tranne che tu non onori i tuoi debiti"...

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Il nostro argomento può essere riassunto come segue: l’esplosione della violenza "reale" è condizionata da un punto morto simbolico. La violenza "reale" è una specie di acting out che emerge quando la fiction simbolica che garantisce la vita di una comunità è in pericolo. Vi è comunque un aspetto per cui l’esempio dei cercatori dell’Amazzonia differisce dai primi due: nei primi due esempi, la finzione disturbata era un ente irriconoscibile, ambiguo, osceno (la Corte di Kafka, il rituale iniziatico e osceno dei marinai), mentre nella comunità dei cercatori dell’Amazzonia il disturbo riguarda la finzione simbolica che determina l’autentica struttura dell'autorità pubblica. Il modo migliore per elaborare questa differenza cruciale è aggredire il problema dall’altro capo: chi è il bersaglio dello scoppio di violenza? A che cosa stiamo tendendo, che cosa ci sforziamo di annientare quando sterminiamo gli ebrei o picchiamo gli extracomunitari nelle nostre città?
La prima risposta che si offre coinvolge ancora la finzione simbolica: non è, al di là del dolore fisico diretto e dell’umiliazione personale, fine ultimo delle violenze nella guerra di Bosnia, ad esempio, minare la coerenza della fiction (il racconto simbolico) che garantisce la coerenza della comunità mussulmana? Non è una conseguenza di estrema violenza anche che "la storia che la comunità si è raccontata a se stessa a proposito di se stessa non ha più alcun senso" (per parafrasare Richard Rorty)? Questa distruzione dell’universo simbolico del nemico, questo "cultoricidio", comunque, non è in se stesso sufficiente a spiegare uno scoppio di violenza etnica — la sua causa ultima (nel senso di forza conduttrice) va vista ad un livello un po’ più profondo. Che cosa nutre la nostra "intolleranza" verso lo straniero? Che cos’è che ci irrita in esso, e disturba il nostro equilibrio psichico? Già al livello di una semplice descrizione fenomenologica la caratteristica cruciale di questa causa è che essa non può essere individuata con precisione ad una qualche proprietà osservabile chiaramente definibile: benché di solito possiamo enumerare una serie di fatti che ci infastidiscono verso di "essi" (il modo in cui essi ridono troppo sonoramente, il cattivo odore del loro cibo, ecc.), queste caratteristiche funzionano come indicatori di una stranezza più radicale. Gli stranieri possono apparire e agire come noi, ma c’è un qualche impenetrabile je ne sais quoi, qualcosa in essi "più che essi stessi" che li rende "non del tutto umani" ("alieni" nel senso preciso che questo termine ha acquisito nei film di fantascienza degli anni ’50). La nostra relazione con questo imponderabile elemento traumatico che ci "secca" è strutturata nell’Altro in fantasie (circa l’onnipotenza politica e/o sessuale dell’Altro, circa le "loro" strane pratiche sessuali, circa i loro segreti poteri ipnotici, ecc.). Jacques Lacan ha battezzato questo oggetto paradossalmente misterioso, che sta per ciò che nell’oggetto percepito positivamente ed empiricamente elude necessariamente il mio sguardo e come tale funge da forza conduttrice del mio desiderio di esso, objet petit a, l’oggetto-causa del desiderio; un altro nome per esso è plus-de-jouir, il "surplus di godimento" che designa l’eccesso oltre la soddisfazione delle proprietà empiriche, positive, dell’oggetto. Al suo livello più radicale, la violenza è precisamente uno sforzo di battersi contro questo intollerabile surplus di godimento contenuto nell’Altro. Dato che l’odio non è circoscritto alle "proprietà attuali" del suo oggetto, ma ha come bersaglio il suo vero nocciolo — objet petit a, ciò che è "nell’oggetto più di se stesso" — l’oggetto di odio è strictu senso indistruttibile: più distruggiamo l’oggetto in realtà, più potente il suo sublime nocciolo sorge di fronte a noi. Questo paradosso è già emerso a proposito degli Ebrei nella Germania nazista: più venivano sterminati senza pietà, più orrorifica era la dimensione acquisita dai sopravvissuti...
Il paradosso di un elemento fantasmatico, che più viene annientato in realtà, più ritorna forte nella sua presenza spettrale, porta verso la problematica freudiana del complesso di castrazione. La nozione del complesso di castrazione è stata per anni il bersaglio delle critiche femministe: solo se accettiamo silenziosamente che "avere il fallo" è lo standard in base a cui noi misuriamo entrambi i sessi, allora "non avere il fallo" appare come una mancanza, cioè la donna è percepita come "castrata". In altre parole la nozione della castrazione femminile alla fine rimanda ad una variazione del noto sofisma degli antichi Greci, "Ciò che non hai, hai perso; tu non hai le corna, dunque tu le hai perse". È però troppo affrettato rifiutare questo sofisma (e di conseguenza la nozione di castrazione) come un falso ragionamento non consequenziale. Per dare un presentimento dell’ansietà esistenziale che può appartenere a questo tipo di logica, è sufficiente richiamare il caso dell’Uomo dei Lupi, il paziente russo di Freud, che soffriva di una ipocondriaca idea fissa: egli si lamentava di essere la vittima di una lesione nasale causata dall’elettrolisi; tuttavia, quando approfonditi esami dermatologici stabilirono che non vi era niente di malato nel suo naso, ciò scatenò un’intollerabile ansia in lui: "dopo che gli fu detto che nulla poteva esser fatto per il suo naso poiché non vi era alcuna malattia in esso, egli si sentì incapace di andare avanti a vivere, in quello che considerava uno stato di irreparabile mutilazione". Questa "irreparabile mutilazione", naturalmente, sta per la castrazione, e la logica è qui esattamente la stessa di quella del citato sofisma: se tu non hai le corna, le hai perse; se niente può essere fatto, allora la perdita è irreparabile... Nella prospettiva lacaniana, naturalmente, il sofisma indica le caratteristiche fondamentali di un ordine strutturale/differenziale: la perdita intollerabile e assoluta emerge esattamente in quel punto in cui la mancanza stessa è mancante.
Secondo Freud l’atteggiamento del soggetto maschio verso la castrazione implica una spaccatura paradossale: io so che la castrazione non è una minaccia attuale, che non accadrà realmente, però sono nondimeno angosciato da questa prospettiva. E lo stesso accade per la figura dell’"ebreo mentale": esso non esiste (come parte della nostra esperienza della realtà sociale), eppure per questa ragione lo temo anche maggiormente — in breve, la stessa non esistenza dell’ebreo in realtà, funziona come il migliore argomento per l’antisemitismo. Cioè, il discorso antisemita costruisce la figura dell’ebreo come un’entità-fantasma che non si può trovare da nessuna parte nella realtà, e perciò usa questo scollamento fra l’"ebreo mentale" e la realtà degli ebrei attualmente esistenti come argomento inconfutabile contro gli ebrei. Siamo così in una specie di circolo vizioso: più le cose sembrano normali, più sono sospettabili, e più noi stessi cadiamo in preda al panico. In tal senso, l’ebreo è come il fallo materno: non c’è una cosa simile nella realtà, eppure per questa stessa ragione la sua presenza fantasmatica e spettrale dà origine ad una intollerabile angoscia. In questo consiste anche la più succinta definizione del Reale lacaniano: più il mio (simbolico) ragionamento mi dice che X non è possibile, più il suo spettro mi ossessiona — come quel proverbiale inglese così coraggioso che non solo non credeva nei fantasmi, ma anche non ne aveva paura...
Una omologia si impone qui fra l’"ebreo mentale" e il Nome-del-Padre: nel secondo caso, abbiamo a che fare con la spaccatura fra conoscenza e credenza ("So bene che mio padre è in verità un essere imperfetto, confuso e impotente, eppure nondimeno credo nella sua autorità simbolica"). La persona empirica del padre non vive mai al livello del suo Nome, del suo mandato simbolico — se vivesse a quel livello, avremmo a che fare con una costellazione psicotica (un caso chiaro di un padre che viveva al livello del suo Nome fu il padre del presidente Schreber, analizzato da Freud). Dunque la "transustanziazione", la "sublazione [Aufhebung]" del padre reale nel Nome-del-Padre, non è strettamente omologa alla "transustanziazione" dell’Ebreo empirico nella (forma apparente) dell’"ebreo mentale"? La spaccatura che separa l’ebreo reale dalla figura fantasmatica dell’"ebreo mentale" non è della stessa natura di quella che separa la persona empirica e sempre inefficiente del padre dal suo mandato simbolico, il Nome-del-Padre? Non è forse vero che, in entrambi i casi, una persona reale agisce come la personificazione di un’entità irreale, fittizia — il padre reale è una controfigura dell’entità dell’autorità simbolica, e l’ebreo reale una controfigura del fantasma dell’"ebreo mentale"?
Per quanto convincente, questa omologia deve essere respinta come ingannevole: nel caso dell’ebreo, la logica classica della castrazione simbolica è rovesciata. In che cosa, esattamente, consiste la castrazione simbolica? Un padre reale esercita l’autorità solo fintantoché egli si pone come l’incarnazione di una entità simbolica trascendente, cioè finché egli accetta che non è lui stesso, ma il grande Altro che parla attraverso di lui, nelle sue parole, come il milionario nel film di Claude Chabrol che inverte il normale lamento sul fatto di essere amato solo per i suoi milioni: "Se solo trovassi una donna che mi amasse per i miei milioni, non per me stesso!". Qui si cela la profonda lezione del mito freudiano del parricidio, del padre primordiale che, dopo la sua morte violenta, ritorna più forte che mai in forza del suo Nome, in quanto autorità simbolica: se il padre reale deve esercitare l’autorità simbolica paterna, egli deve in un certo senso morire da vivo — è la sua identificazione con la "lettera morta" del mandato simbolico che conferisce autorità alla sua persona.
Il guaio con le critiche al fallocentrismo di Lacan è questo, che, di norma, esse si riferiscono al "fallo" e/o alla "castrazione" in un modo preconcettuale, con uno stile da buon senso metaforico: nei classici studi sul cinema di parte femminista, ad esempio, ogni volta che un uomo si comporta aggressivamente verso una donna o impone la sua autorità su di lei, si può star sicuri che il suo atto verrà designato come "fallico"; ogni volta che una donna deve adattarsi, è senza aiuto, è messa all’angolo, si può star sicuri che la sua esperienza verrà designata come "castrante"... Ciò che va perduto qui è esattamente il paradosso del fallo come significante della castrazione: se dobbiamo affermare la nostra (simbolica) autorità "fallica", il prezzo da pagare per questo è che dobbiamo rinunciare alla posizione di agente e acconsentire di funzionare come medium attraverso cui il grande Altro agisce e parla. Fintanto che il fallo in quanto significante designa l’entità dell’autorità simbolica, la sua caratteristica cruciale risiede nel fatto che esso non è "mio", organo di un soggetto vivente, ma un luogo a cui sopravviene un potere estraneo ed iscrive se stesso sul mio corpo, un luogo in cui il grande Altro agisce attraverso me — in breve, il fatto che il fallo sia un significante significa soprattutto che esso è strutturalmente un organo senza un corpo, in qualche modo "staccato" dal mio corpo. Questa caratteristica cruciale del fallo la sua staccabilità è resa visibile nell’uso del fallo artificiale di plastica ("dildo") nelle pratiche lesbiche o sadomasochiste, in cui si può giocare con esso, in cui circola — il fallo è cosa troppo seria perché il suo uso sia lasciato a stupide creature come gli uomini...
C’è, comunque, una differenza cardinale fra questa autorità simbolica garantita dal fallo come significante di castrazione e la spettrale presenza dell’"ebreo mentale": benché in entrambi i casi abbiamo a che fare con la spaccatura fra conoscenza e credenza, si tratta di spaccature di natura fondamentalmente diversa. Nel primo caso, la credenza concerne l’autorità simbolica "visibile" e pubblica (nonostante la mia consapevolezza della debolezza e delle imperfezioni del padre, io lo accetto come figura dell’autorità), mentre nel secondo ciò in cui credo è il potere di una apparizione invisibile e spettrale. L’"ebreo mentale" fantasmatico non è una figura paterna di autorità simbolica, un medium-controfigura "castrato" dell’autorità pubblica, ma qualcosa di decisamente diverso, una specie di misterioso doppio dell’autorità pubblica che perverte la sua propria logica: essa deve agire nell’ombra, invisibile all’occhio pubblico, irradiando una specie di onnipotenza spettrale, fantasmatica. In base a questo insondabile ed elusivo status del cuore della sua identità, l’ebreo è — in contrasto al padre "castrato" — percepito come non-castrabile: più la sua reale, sociale e pubblica esistenza è ridotta, più minacciosa diventa la sua elusiva e fantasmatica ek-sistenza.
In breve, la differenza fra il Nome-del-Padre e l’"ebreo mentale" è quella tra fiction simbolica e spettro fantasmatico: nell’algebra lacaniana, fra S1, il Padrone-Significante (il significante vuoto dell’autorità simbolica) e l’objet petit a. Quando il soggetto è avvolto dall’autorità simbolica, agisce come un’appendice del suo titolo simbolico, cioè è il grande Altro che agisce tramite suo; basti pensare a un giudice che può anche essere una persona miserabile e corrotta, ma tuttavia nel momento in cui indossa la toga e gli altri segni, le sue sono le parole della Legge stessa... Nel caso della presenza spettrale, al contrario, il potere che esercito si basa su qualcosa "in me più di me stesso" che è ben esemplificato da numerosi film di fantascienza, da Alien a Hidden: un indistruttibile corpo estraneo che rappresenta la sostanza vitale pre-simbolica, un nauseabondo muco parassita che invade il mio interno e mi domina. Così, per tornare alla battuta del milionario di Chabrol, quando qualcuno dice che mi ama non per me stesso ma per il mio posto simbolico (potere, ricchezza), la mia affermazione è decisamente migliore di quando mi vien detto che sono amato perché qualcuno sente la presenza in me di "qualcosa più di me stesso". Se un milionario perde i suoi milioni, la sua donna, che lo amava per la sua ricchezza, semplicemente perderà il suo interesse e lo abbandonerà; se invece io vengo amato per "qualcosa in me più di me stesso", la stessa intensità di questo amore può facilmente convertirsi in un odio non meno passionale, nel violento tentativo di annientare l’oggetto-surplus in me che disturba la mia partner. Si potrebbe dunque simpatizzare con il lamento del povero milionario: è assai più confortante sapere che una donna mi ama a causa dei miei milioni (o potere, o gloria) — questa consapevolezza mi permette di mantenere una distanza di sicurezza, di evitare di venir preso nel gioco troppo profondamente, di esporre all’altro l’autentico nocciolo del mio essere. Il problema sorge quando l’altro vede in me "qualcosa oltre me stesso" — la via allora è aperta per il cortocircuito paradossale fra amore e odio, per cui Lacan conia il neologismo hainamoration.

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La differenza tra la fiction (simbolica) e la fantasia, è di importanza cruciale per la teoria psicoanalitica dell’ideologia. Nel suo recente libro su Marx Derrida mette in scena il termine "spettro" al fine di indicare la pseudo-materialità elusiva che sovverte la classica opposizione ontologica di realtà e illusione, ecc. E forse, è qui che dobbiamo cercare l’ultima sopravvivenza dell’ideologia, il cuore pre-ideologico, la matrice formale, su cui hanno lucrato varie formazioni ideologiche: nel fatto che non vi è realtà senza spettro, che il cerchio della realtà può esser chiuso solo attraverso un elemento misteriosamente spettrale. Perché, poi, non vi è realtà senza spettro? Lacan ha dato una risposta precisa a questa domanda: (ciò che esperiamo come) la realtà non è la "cosa in sé", è già-sempre simbolizzata, costituita, strutturata per mezzo del meccanismo simbolico — e il problema risiede nel fatto che la simbolizzazione alla fin fine fallisce sempre, che non ha successo completo nel "coprire" completamente la realtà, che sempre implica un certo non saldato, non redento, debito simbolico. Questo reale (la parte di realtà che rimane non simbolizzata) ritorna sotto forma di apparizione spettrale. Di conseguenza, "spettro" non va confuso con "finzione simbolica", con il fatto che la realtà stessa ha la struttura di una fiction perché è simbolicamente (o, come dicono certi sociologi, "socialmente") costruita; la nozione di spettro e di fiction (simbolica) sono inter-dipendenti nella loro stessa incompatibilità (sono complementari nel senso della meccanica quantistica). In parole semplici, la realtà non è direttamente "se stessa", essa si presenta solo attraverso la sua incompleta-fallita simbolizzazione, e le apparizioni spettrali emergono in questa spaccatura che separa sempre la realtà dal reale, e in base a cui la realtà ha il carattere di una fiction (simbolica): lo spettro dà corpo a ciò che schiva la (simbolicamente strutturata) realtà.
Il "nocciolo" pre-ideologico dell’ideologia consiste così di una apparizione spettrale che riempie il buco del reale.
Questo è ciò di cui tutti i tentativi di segnare una chiara linea di demarcazione fra "vera" realtà e illusione (o di fondare l’illusione nella realtà) non tengono conto: se (ciò di cui facciamo esperienza come) la "realtà" deve emergere, qualcosa deve essere omesso in essa, cioè la "realtà", come la verità, non è mai, per definizione, "intera". Ciò che lo spettro nasconde non è la realtà, ma il suo "represso primordiale", l’X irrappresentabile sulla cui "repressione" la realtà stessa è fondata. Può sembrare che noi si abbia perduto la nostra strada nelle oscure acque della speculazione che non hanno nulla a che vedere con le concrete lotte sociali — ma il supremo esempio di un simile "reale" non è forse fornito dal concetto marxista di lotta di classe? Pensare conseguentemente questo concetto ci spinge ad ammettere che non vi è alcuna lotta di classe "in realtà": "la lotta di classe" designa lo stesso antagonismo che impedisce che la realtà (sociale) oggettiva si costituisca come un tutto chiuso.
Questa interpretazione dell’antagonismo sociale (lotta di classe) come Reale, non come (parte della) oggettiva realtà sociale, ci permette di contrastare la logora linea di argomentazione, in base alla quale si deve abbandonare la nozione di ideologia, dato che il tentativo di distinguere la "mera ideologia" dalla "realtà" implica un’"occhio di Dio" epistemologicamente insostenibile, cioè l’accesso alla realtà oggettiva come "realmente è". La questione della convenienza del termine "lotta di classe" per designare la forma di antagonismo oggi dominante è qui secondaria, concerne l’analisi sociale concreta; ciò che conta è che la costituzione stessa della realtà sociale implica la "repressione primordiale" di un antagonismo, così che il supporto ultimo della critica dell’ideologia — il punto di riferimento extraideologico che ci autorizza a denunciare il contenuto della nostra esperienza immediata come "ideologico" — non è la "realtà" ma il reale "represso" dell’antagonismo.
La "realtà" stessa, fintanto che è regolata da una finzione simbolica, nasconde l’antagonismo reale, ed è questo reale, precluso alla finzione simbolica, che ritorna in guisa di apparizione spettrale — ad esempio al modo dell’"ebreo mentale". In altre parole, il Reale non è accessibile direttamente, come ciò che soggiace all’illusorio reame di finzioni e/o fantasie: ciò che rende accessibile il Reale è piuttosto lo scollamento fra due tipi di finzione, finzione simbolica e fantasia spettrale: esse non stanno sullo stesso livello, la loro relazione è di "coimplicazione", cioè la fantasia sorge per riempire il vuoto, la mancanza della finzione simbolica. Dunque, la lezione fondamentale del cosiddetto totalitarismo concerne l'interdipendenza di questi due aspetti della nozione di fantasia. Quelli che affermano di voler realizzare completamente la loro fantasia1 (la finzione simbolica) devono poi ricorrere alla fantasia2 (apparizione spettrale) al fine di giustificare i loro fallimenti — il rovescio occulto dell’armoniosa Volksgemeinschaft nazista [comunità popolare] ritorna sotto forma della loro paranoica ossessione del complotto ebraico. Allo stesso modo, nello stato stalinista, il compulsivo smascheramento di ogni nuovo nemico del socialismo era il rovescio inevitabile della loro pretesa di realizzare l’ideale del "nuovo uomo socialista".
La fantasia1 e la fantasia2, finzione simbolica e apparizione spettrale, sono così le due facce della stessa medaglia: fintanto che una comunità fa esperienza della propria realtà in quanto regolata e strutturata dalla fantasia1, deve sconfessare la sua intrinseca impossibilità, l’antagonismo nel suo stesso cuore; e la fantasia2 (la figura dell’"ebreo mentale" ad esempio) dà corpo a questa sconfessione. In breve, la concretezza della fantasia è la condizione affinché la fantasia mantenga il suo predominio.
Lacan ha riscritto le parole di Cartesio "Penso, dunque sono" così: "Sono uno che pensa «dunque, sono»". Il punto è naturalmente la non-coincidenza dei due "sono", cioè la natura fantasmatica del secondo "sono". Si potrebbero riformulare allo stesso modo certe patetiche asserzioni di identità etnica: nel momento in cui "Io sono francese (tedesco, ebreo, americano...)" viene riscritta come "Io sono uno che pensa «dunque, sono francese»", la frattura nel mezzo della mia auto-identità diventa visibile — e la funzione dell’"ebreo mentale" è precisamente di rendere invisibile questa spaccatura.