M i c h a e l   S o r k i n

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Prima di mostrarvi alcuni lavori che ho realizzato vorrei invitarvi a fare una passeggiata con me.

Questa mia passeggiata dall’appartamento allo studio richiede circa mezz’ora, 50 minuti se mi fermo per un cappuccino e il New York Times.
Il viaggio comincia con una discesa dalle scale del mio appartamento al quinto piano. In una città che privilegia il movimento, la locomozione umana, cinque piani diventano un ostacolo naturale, l’apice della limitazione .
Inoltre le scale sono il primo livello del passaggio dal privato al pubblico, l’estensione della strada, l’altamarea del reame pubblico.
Scendo e supero i sacchetti della spazzatura dei miei vicini, questa evanescente archeologia mi permette di riconoscerli: Jeff disordinato e asociale con i suoi aggressivi mucchi di giornali e tutti i sacchi di chissà cosa. Margo la cui minima quantità di spazzatura dice che lei vive altrove nonostante l’affitto bloccato del suo appartamento, cosa che mi fa alzare la pressione sanguigna, pensando alle distorsioni del mercato immobiliare newyorkese. Io lavoro duramente, perché devo pagare sei volte il suo affitto per vivere nello stesso edificio al padrone di casa? Quel parassita, strumento di quest’ingiustizia. Non pulisce l’atrio di entrata perché la sua etica è semplicemente quella di arraffare più soldi possibile.
Mi ripasso la lezione di civiltà che vorrei dargli; gli direi che siamo in un distretto storico, in un edificio che svolge la funzione di testimonianza storica per la comunità. Non ti tocca tutto questo?
Lui risponderebbe che i Beni Culturali gli impediscono di sistemare le cose.
— Non ti preoccupare, li conosco, farò sistemare le cose.
— Ma non ci sono soldi — mi direbbe cercando di trascinarmi dalla sua parte, cercando di stimolare in me della solidarietà. Invece mi fa solo aumentare la rabbia quel bastardo.
Incontro Jeane, fragile e bella, asmatica. Oggi sembra più vecchia del solito. È esattamente il contrario del padrone di casa, è il centro morale del nostro palazzo e direi il capitano morale del quartiere.
Stà cercando di provvedere alla raccolta differenziata in una città che è consacrata all’immondizia. Oltre lei vedo montagne di sacchi di plastica, la vedo come un nostro Sisifo con tutta la sua fatica inutile. La nostra cultura purtroppo non sta producendo abbastanza figure come lei ovvero, gli attivisti del quotidiano. Jeane, e altri come lei, sono la linea sottile che sta impedendo il collasso totale del sistema ecologico così complesso in una città. Ma può una città dipendere da milioni di gesti gentili ogni giorno per funzionare?
Jeane sta attenta a chi va e a chi viene nel quartiere, è sensibile all’ambiente sia sociale che fisico di chiunque, riconosce le persone, i bambini, i cani. Individua perfino i criminali e può raccontarvi la storia di qualsiasi appartamento tra MacDouglas Street e Sheridan Square. Conosce i segreti delle piante e dei fiori, si occupa perfino delle piante e dei fiori che stanno sulla strada, nei weekend lavora al giardino pubblico che sta dietro l’angolo.
Le grandi città offrono abbondanti opportunità e non è esagerato dire che questo è uno dei legami tra entità urbana ed entità politica che la democrazia crea in un ambiente simile.
Una misura del successo concreto del design urbano stà nella varietà di mezzi e intinerari di circolazione, il modo in cui la scelta, il piacere, il corpo, la convenienza si uniscono per formare le reti di circolazione e del movimento urbano. La sola complessità non è un elemento sufficiente e nemmeno la confusione. Però la possibilità di perdersi è una delle pratiche vitali della varietà urbana.
Le mie scelte quando esco dal palazzo sono essenzialmente due anche se poi alla fine diventano dozzine. Scegliamo di voltare a sinistra. Quest’ultima scelta ci porta a Washington Square, il parco principale del quartiere, il posto dove si portano i cani. Il luogo per il mercato della droga, lo spazio per delle performance, la spiaggia, il polmone del quartiere. Oggi scelgo di seguire una specie di linea verde per andare al mio studio, cosa non facile perché il centro di Manhattan necessiterebbe di più verde però è lo stesso possibile fare una passeggiata più o meno lunga godendosi quello che c’è.
Un taglio diagonale all’interno del parco ci porta nella sfera d’influenza della New York University. Due edifici che vengono direttamente dagli anni 60, la facoltà e l’edificio del personale .
Benché lo stile modernista che questi edifici rappresentano, sia stato ufficialmente ripudiato, questo progetto e quest’ambientazione sono buoni, irradiano le virtù canoniche, luce, aria, un po’ di verde, un po’ di spazio relativamente libero e un po’ di movimento anche nelle strutture dei tetti.
Questi edifici così come gli altri tre, le tre torri di I. M. Pei nell’isolato successivo offrono una visione umana dell’urbanesimo. Non ricordo gli edifici andati distrutti per la loro costruzione e non conosco nessuno che sia stato sfrattato per la loro edificazione, quindi ho a che fare semplicemente con il loro presente.
Mi piacciono questi edifici e nonostante non desideri vivere in un quartiere costituito solo da questi esempi, comunque la loro presenza mi fa piacere.
Guardando verso sud, verso questa mini città radiante, lo sguardo va verso Wooster Street, una delle strade di SoHo meglio conservate. Il panorama è chiuso da uno degli edifici della società dei telefoni, una grande esempio dell’Art Deco della città di New York. Il grande edificio che vedo anche dalla parte orientale del mio studio è piacevole per il suo liberarsi nella metafora, le sue evocazioni della città dei canyon e degli altopiani, geologia che scolpisce le masse. Nel mio studio pensiamo che le metafore siano utili anche se ovviamente hanno i loro limiti.
Alcuni edifici più avanti e ci troviamo in una situazione in qualche modo più attuale, siamo a SoHo l’omega della Gentrification (Gentrification è l’occupazione del luogo da parte di classi più agiate che comportano un miglioramento estetico e sostanziale, ma causano lo sfratto di chi lo occupava in precedenza).
Questo è il quartiere di New York più europeo e cosa c’è di più europeo che mostrare questo "buco nel muro" un cambia valuta europea. C’è qualcosa di strano in tutto questo, è l’esempio perfetto di come il capitale locale si scontra con la "località" offrendo la palpabilità del denaro invece della solita transazione elettronica che converte immediatamente i soldi in franchi o in Deutchmark. È particolarmente pittoresco perché i turisti devono per forza cambiare per partecipare a quell’economia di moneta spicciola che ci aspetteremmo di trovare in un distretto "storico" come SoHo. In realtà la necessità di tali transazioni è limitata ed è richiesta solo se si va a comprare da venditori ambulanti o da piccoli negozietti della gente del quartiere che ha preceduto gli artisti e gli yuppies e che ora sembra quasi ridicola tra questo "luccichio" ma ironicamente ed in scala minore incarnano l’identità della vecchia Europa mentre il nuovo establishment stà cercando di ricrearlo attraverso un calcolo disperato.
Non c’è migliore esempio per questa stratificazione di carattere europeo dell’area tra West Broadway e Grand Street, il triangolo dell’euro-trash, che recentemente ha agglomlerato una mezza dozzina di ristoranti e caffé francesi.
Da un lato è certamente un’altro segno dell’intraprendenza yuppies, dall’altro è magnifico perché l’abbraccio tenace della strada nonostante l’abdicazione quasi completa del dominio pubblico ha comunque mantenuto il senso del "marciapiede" cosa al contempo piena di speranza e di disperazione.
Arrivando a Canal Street, il confine tra SoHo e Tribeca appare chiara un’altra verità: non vi sono soluzioni parziali al problema del traffico. Canal Street che è "tossica" praticamente giorno e notte, viene usata come arteria per il traffico che attraversa Manhattan ed è un’area da disastro perpetuo. Passandoci ogni giorno per ben due volte ho cercato di immaginare soluzioni per migliorala. Queste fantasie hanno una lunga storia, una delle ultime grandi iniziative di Robert Moses fu il tentativo di costruire una specie di superstrada sopra SoHo che avesse il compito di collegare il ponte ed il tunnel dell’isola attualmente collegati da Canal Street. Ciò avrebbe però distrutto il quartiere .L’unica vera radice del problema, l’unica soluzione per Canal Street rimane l’eliminazione del traffico. I fattori sono semplici: questo tunnel che ci soffoca deve essere semplicemente chiuso, purtroppo non ci sono né politici né rappresentanze cittadine che abbiano la forza di affrontare radicalmente una situazione del genere.
Attraversando il canale siamo in un piccolo parcheggio dove due estati fa c’era un cantiere e degli operai che stavano costruendo due edifici diciamo "storici". Il più piccolo che sembrava una casetta pareva appartenere all’inizio del XIX secolo mentre vicino ve n’era un altro che sembrava più giovane di quasi 75 anni. Al piano terra di questa casetta si trovava uno Snack Bar che cercava disperatamente di sembrare autentico. Tutto l’insieme fu costruito in due settimane. Chi poteva essere la responsabile di tutto ciò se non Hollywood?
Per settimane tutto il quartiere fu coperto di volantini che descrivevano l’evento scusandosi per tutti gli inconvenienti che sarebbero potuti accadere, cercando di portare tutta la comunità locale dalla loro parte giocando sull’emozione di avere un set sotto casa; ed è stato emozionante davvero, con le folle di scenografi che cercavano la verosimiglianza, quella sera in cui sono arrivati gli idranti ad inondare Franklin Street, quel mattino in cui abbiamo visto Bridget Fonda bere un cappuccino al Bobby’s Café con Harvey Keitel.
C’era un depliant della società di produzione che spiegava perché stavano facendo tutto questo; l’ambientazione principale del film doveva essere situata all’interno dello Snack Bar che avrebbe dovuto ospitare la scena dell’incontro tra un poliziotto ed una cameriera e che sarebbe stata la scintilla per dare il via alla vicenda. Gli scout per la ricerca dei luoghi sempre come diceva il depliant avevano visitato migliaia di posti senza trovarne uno che soddisfacesse i requisiti di autenticità e quindi era intervenuta la paradossale decisione di costruire un simulacro, una finzione più reale di qualsiasi realtà disponibile.

La simulazione è una delle questioni centrali per l’architettura e per le città, ed è un’indice sia del nostro potere sia della perdita delle nostre capacità. La falsa costruzione è notevolmente persuasiva è una sorta di iper-realtà. Quel set cinematografico mi manca.I suoi volumi erano proprio adatti per questo angolo e la sua patina falsa dava un’impressione di ricchezza. In un quartiere di ristoranti costosi, Robert De Niro ne possiede tre, un vero Snack Bar sarebbe stato davvero grande, mi ritrovo quindi a provare nostalgia per qualcosa che non è mai esistito.
Non ho bisogno di dirvi che siamo chiaramente immersi in questo artificio e che nessuna città ne è immune. La disneyficazione procede ad una velocità da togliere il respiro. Costruiamo delle città che semplicemente ci mentono, delle città che hanno dimenticato di dirci la verità, che mancano del collegamento del loro significato con le vere esperienze dei cittadini. Una città in cui il significato viene fatto scivolare come un volantino alla fermata dell’autobus in cui il tempo viene semplicemente dipinto sulla superfice dello spazio. La città che è diventata virtuale e che è cresciuta oltre la nostra possibilità di afferrarla; la nostra e quella di chiunque.

Walter Hudson è l’incubo fatto carne. All’epoca della sua morte, la vigilia di Natale del ‘91 pesava 1.125 Libre,(circa 300 Kg) era sotto le 1.400 libre che furono il suo primato. Era così grosso che quando morì dovettero demolire un muro di casa per trascinarlo fuori con un carrello elevatore. Lo portarono al cimitero con una bara che sembrava un pianoforte e venne sepolto in una tomba doppia.
Walter Hudson è il cittadino paradigmatico della città simulata, della paranoia post-elettronica nella quale siamo tutti sempre un po’ più cittadini. Ciò che lo rende esemplare non è però la sua mole ma piuttosto la sua immobilità. Tranne per un breve tragico periodo Hudson non lasciò mai casa sua, è stato incapace per anni di alzarsi dal suo letto costruito appositamente. In questa sua stasi veniva sostenuto da un kit di sopravvivenza personale ad alta tecnologia costituito da computer e televisori, da una toilette e da un frigorifero. Con un hamburger in una mano e il telecomando dall’altra Hudson portava avanti la sua vita.
Tuttavia la dimensione di Hudson e fondamentale per il suo status di proletario post-elettronico. La sua enorme mole fu causa sia della sua immobilità dentro casa quindi della sua stessa invisibilità, ma anche e ironicamente della sua celebrità. Così come le nostre città Hudson e chiaramente transizionale ed evoca vecchie e nuove strategie di visibilità, essere e essere visti nello spazio. Da una parte la sua corpulenza barocca parla di una routine storica relativa ad un’idea di spazialità. Ciò che distingue Hudson è precisamente il fatto di aver occupato più spazio di chiunque altro, ma se questo eccesso celebra una spazialità antica e volumetrica il valore della sua celebrità è decisamente post-spaziale è pura mediazione incorniciata nello spazio televisivo.
C’è qualcosa di decisamente pungente in questo spettacolo, perché la mediazione di Hudson non è semplicemente nostalgia, ma anche una specie di resistenza. Nonostante gli incitamenti continui della cultura ad occupare meno spazio, Hudson né occupava sempre di più.
In un sistema che si sta disincarnando essere enormi diventa quasi rivoluzionario. La città virtuale costituisce una minaccia al carattere della nostra soggettività, mettendola in pericolo, e contribuisce anche ad una ricollocazione radicale del corpo. Se la città diviene neuralizzata, se sia i piaceri rituali che quelli accidentali della vicinanza vengono eliminati, il concetto di democrazia per cui a lungo si è lottato viene messo in dubbio. Qualsiasi mediazione, avvenga questa con un’apparecchiatura avente delle regole o semplicemente a causa della distanza, nasconde la possibilità di compromettere la libera associazione.
Una delle situazioni che colpiscono di più di questa situazione fondamentalmente paranoide è che i membri almeno nominalmente più liberi di questo pubblico elettronico sono quelli che volontariamente si sottomettono alle forme di sorveglianza più rigide. Per partecipare pienamente alla città elettronica bisogna cedere quasi completamente la propria privacy permettendo di farsi registrare tutte le attività, correlarle e renderle accessibili ad un enorme governo invisibile di agenzie di credito che stanno nell’ombra, di uffici delle banche computerizzati, di società per le ricerche di mercato, di società per la sicurezza privata, di database vari e tutta una serie di collegamenti di reti. Tirate fuori la vostra American Express e noi sapremo dove siete. Accendete l’antifurto in casa e sapremo che siete usciti. Ordinate un pasto speciale e sapremo che c’è un musulmano non fumatore nel posto 3 K.
La conseguenza ultima di tutto ciò è che il corpo non esiste più semplicemente nello spazio pubblico ma diviene lo spazio pubblico. Nella città virtuale Walter Hudson è Piazza Navona.
Lo spazio elettronico è un grande distruttore della differenza che produce un forte vento di bit così come lo spazio cartesiano della TV è una macchina di giustapposizione infinita e ricombinatoria. In questo sistema non ci sono due immagini incompatibili tra loro; i problemi della Bosnia vi vengono sottoposti insieme al cibo per gatti, al Wiskas. Non c’è niente di male nel mettere le cose l’una accanto all’altra solo che il sistema è interessato esclusivamente ai numeri. Il modello urbano che viene prodotto da questa situazione è il parco tematico, la televisione resa concreta.
Walt Disney, ultimo vero visionario dello spazio fisico, è stato una specie di Tito surrealista che combinava un’appartenenza nazionale da cartoni animati ad un’aggregazione geografica creativa. Ed è difficile capire se è il caso di resistere a questo "divertimento" perché guardando l’ex Jugoslavia degenerare in un’oscura Disneyland di stupide differenze, penso che le anime sensibili vengano attratte volentieri dalle dolci repressioni della droga da consumo, qualsiasi cosa pur di distrarre questi nuovi barbari dal loro sangue, gelarli immobilizzandoli in una immobilità piatta fermi davanti ai loro televisori.
Tale condizione riflette una crisi della città e della democrazia stessa. Spostandoci in un mondo pluralista in cui i modelli di immobilità e simultaneità diventano sempre più liberi e una condizione di immutabilità deve caratterizzare la vita urbana, il modello modernista monadico, la formula della griglia infinita che significa semplicemente diritto democratico di tutti i cittadini a cedere qualcosa che li distingua a favore di una piatta identità del soggetto universale, nuovi modelli di relazioni democratiche, modelli di una complessità profonda e di nuove relazioni devono emergere. Lo spazio elettronico ha il potere o di aiutare questo processo o di frustrarlo e siamo probabilmente l’ultima generazione che godrà di una soggettività reale e non virtuale, quelle tipologie di misurazioni del corpo così familiari che permettono la città così come l’abbiamo conosciuta... Non ho certo intenzione di rinunciare al potere e al piacere di questi spazi finché non sarà chiaro che l’alternativa è più divertente sicura e stimolante oppure che sarà semplicemente un supplemento, un’allargamento delle possibilità della situazione precedente.
La rete ha il potere di riunire le persone, di migliorare le strutture di controllo e di rendere possibili dei collegamenti mai immaginati prima.
Le città sono anche l’accostamento di motori, strumenti per produrre e determinare delle adiacenze. Il carattere delle città emerge dai modi caratteristici con cui si risolvono i problemi, nel modo in cui si uniscono le cose o le si separano sia dal punto di vista sociale che formale, così la segregazione raziale o di classe, l’utilizzo di una zonizzazione che allontana il lavoro dal luogo in cui si vive, delle restrizioni sull’accesso, la materialità, la dislocazione delle autostrade, la preferenza verso i giardini. Tutti questi elementi insieme danno la particolarità delle città. D’altra parte tutto questo è in sé qualcosa di incredibilmente promettente. Così come le vecchie limitazioni sull’adiacenza vengono allentate nello stesso momento in cui il tempo e lo spazio sono afferrabili in modi diversi, in un momento in cui qualsiasi posto può essere davvero qualsiasi posto il nostro ruolo di designer viene copletamente liberato. Se l’accostamento può essere realmente libero allora siamo realmente liberi di reimmaginare le strutture fondamentali dell’urbanesimo secondo nuove verifiche che rispondono alle nostre migliori intenzioni: cioè la democrazia, lo sviluppo sostenibile e il piacere. Siamo in una posizione di riconsiderazione radicale delle città.

--------Supplemento--------

Una delle cose più difficili nel pensare ad un progetto è certamente quello di immaginare di realmente abitare lo spazio del futuro e di dar corpo a questa immaginazione.
Quindi per costruire con la fantasia queste città del futuro, il modo che trovo più appropriato è quello di scrivermi delle piccole storie di fantascienza di cui adesso vorrei leggermi due esempi.

1) Caroline guarda il pezzo di mogano che gira sul tornio. L’ordine è per un migliaio di gambe e il termine ultimo è per domani, dato che Margalit che ha progettato le tavole e che sta costruendo le coperture è ossessionata dalle variature e quindi ogni gamba deve essere diversa e Caroline sta facendo le variazioni a mano anche se il tornio lo si può programmare per produrre i propri algoritmi di variazioni.
Comunque Caroline vuol mettere il suo marchio su ciascun pezzo, la stessa Margalit è certa della impossibilità di sbagliarsi della "curvatura di Carolyn" come la chiama lei. Sapendo che Abot e Ramon arriveranno tra un paio d’ore con Fred e il vagone per trasportare le gambe al quartiere di Nimbus, si rimette la maschera e raddoppia i suoi sforzi. Il mogano per le gambe è giunto dalle foreste di Weed ed è stato alterato geneticamente per crescere nel clima e nel terreno del deserto. Negli ultimi anni l’area che è stata impiegata alla coltivazione del mogano è cresciuta di molto, così come è cresciuta la domanda di legna integra come materia prima, così anche la buona reputazione dei prodotti lignei di Weed. Tuttavia le scorte sono limitate benché gli ingegneri genetici siano riusciti a far crescere gli alberi li vicino non sono riusciti a farli crescere più velocemente.
La maggior parte dei tavoli sono stati venduti grazie alla reputazione di Margalit e la loro distribuzione sarà globale. L’officina di Margalit è relativamente piccola e i tavoli dovranno essere montati a parte. Ogni mattina un grosso container C o un misto di container A e B più piccoli arriveranno attraverso la "rete delle merci" fino all’officina pronti per essere caricati di tavoli. Il contenitore di plastica che con il suo codice olografico si alzerà lentamente dalla sotterranea e i suoi lati si alzeranno per permettere il caricamento. Venti o trenta tavoli avvolti in paglia verranno caricati e verrà programmato questo lotto e il container scivolerà via di nuovo in un viaggio veloce verso il Goods Intermode "l’interscambio dei beni". Con l’eccezione dei controllori di carico il Goods Intermode è completamente automatizzato. I controllori si assicurano che nessun gatto o cane che si sia addormentato nei container vi rimanga ma anche che non vi si trovino dei bambini o dei viaggiatori che cercano un passaggio.
Quando il sistema era agli inizi questo problema non era stato previsto benché i computer avessero rilevato delle anomalie di peso nei container carichi si pensò ad un problema dovuto ad un’errore di calcolo dei programmi, finché non è stato trovato un bambino quasi congelato in un volo transoceanico in un container pieno di vasi.

2) Anni dopo che c’eravamo trasferiti avevemo incontrato l’architetto che aveva progettato l’edificio in cui avevamo vissuto negli anni dell’infanzia. Era piuttosto vecchia ma ancora lucida e si ricordava le enormi difficoltà tecniche che aveva avuto nell’elaborare i complessi requisiti di accesso dei raggi solari in un luogo che era soffocato dalle strutture del vicinato e ci ha parlato della ricerca della pietra esattamente grigia che doveva rispondere alla scuola Montessori fatta di marmo dall’altro lato della strada. Abbiamo saputo che l’idea di incidere i nomi di chi vi abitava sui muri era stata la sua. Lei a sua volta era compiaciuta del fatto che quando era venuto a mancare lo spazio avessero continuato ad incidere questi nomi fino alle scale.