I n t e r v e n t i   i t a l i a n i

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Pierluigi Nicolin

Nato a Bareggio nel 1941 è direttore della rivista di architettura Lotus e insegna al Politecnico di Milano. Tra i libri da lui pubblicati recentemente segnaliamo: Metamorfosi del progetto urbano e Notizie sullo stato dell’architettura in Italia.

Arte e (in) città
L’abbellimento dello spazio pubblico

Inizierei con una premessa accademica, se permettete. Prima di parlare dell’arte nella città, vorrei accennare alla eventuale artisticità della città stessa. Riferiamoci pure alla grande città. Ne stiamo parlando nel mezzo di un decisivo processo di trasformazione e non mi sembra inopportuno, mentre le cose stanno rapidamente cambiando, ricordare alcuni aspetti della città del passato: anche se sono alle nostre spalle, sono pur sempre presenti dal momento che le città sono strutture sedimentarie e le cose non spariscono mai del tutto. Ciò che viene meno è la nostra capacità di vedere e non è difficile immaginare che molti, pur vivendo, come spesso accade, nel mezzo della sostanza edilizia della città tradizionale (come può capitare ad esempio a Milano) non riescano a percepire che in maniera debole e distratta la realtà dello spazio in cui agiscono. Anche per questo vorrei ricordare per sommi capi alcuni presupposti della costituzione di questo spazio urbano tradizionale, quello spazio che costituisce la sostanza edilizia della città sette-ottocentesca e che è ancora la parte più consistente della città in cui viviamo. Per introdurci nella questione dobbiamo risalire a quel fenomeno di estetizzazione della città messo a punto nelle trasformazioni sei-settecentesche e proseguito con una relativa continuità nell’ottocento (fintantoché nei primi decenni del nostro secolo tutto il sistema dell’urbanistica tradizionale non viene sovvertito), che va sotto il nome di embellissement, e cioè di “abbellimento” della città.

Possiamo iniziare con le opere della Roma barocca (precedute dal famoso piano cinquecentesco di Sisto V) per osservare come, per la prima volta, la città in quanto tale viene considerata come oggetto di intervento. Nel quadro di questa presa di possesso dello spazio della città — in quanto tale, ricordate — viene messo a punto un programma di abbellimento. Non mi voglio dilungare sulle ragioni che hanno dato luogo a tale programma. Voglio ricordare soltanto che l’attore di tali azioni è un potere assoluto come quello dell’ “ancien régime”. Per la prima volta vediamo all’opera un proposito di trasformazione urbana che agisce direttamente sullo spazio pubblico, trasformandolo in uno spazio dotato di forma. Tale processo investirà nel secolo successivo le città europee (ma anche le città coloniali dell’America latina) dando luogo alla cosiddetta città barocca. Ma è in Francia che viene elaborata una vera e propria teoria dell’abbellimento nel quadro dell’intervento “statale” nelle città di quel paese. Stiamo descrivendo il passaggio dalle forme della città mercantile, di origine comunale, alla forma della Città di Stato nella quale prende forma quella occupazione dello spazio pubblico da parte della monarchia di Francia o della Chiesa di Roma. Nella costituzione di tale nuovo spazio pubblico le nuove sedi del potere centralizzato sono un elemento decisivo per la formalizzazione dei nuovi rituali estetici e di potere. Per immaginare la portata del cambiamento dobbiamo pensare che nel Rinascimento lo spazio pubblico è ottenuto, per lo più, come risultante: è un effetto della disposizione di palazzi o monumenti. Solitamente è uno spazio irregolare, essendo la regolarità riservata alla architettura dei singoli edifici. Per comprendere la differenza nella concezione dello spazio pubblico tra rinascimento e barocco riflettiamo sul fatto che, con il barocco, avviene un rovesciamento della nozione di regolarità dall’edifico allo spazio pubblico (pensate alla Piazza S. Pietro di Bernini), con la conseguenza che si produce un trasferimento di spazi irregolari, di risulta, dallo spazio pubblico all’interno del tessuto edilizio. Potremmo ravvisare un aspetto simbolico in tale presa di possesso del dominio del “regolare” da parte di un potere che occupa lo spazio pubblico, lo normalizza, lo controlla e lo trasforma da quello spazio largamente determinato dalla mediazione di singoli interessi conflittuali — quelle particolarità che danno origine al pittoresco nella città precedente — in luogo rappresentativo di un ordine superiore. In questo luogo l’arte civica, l’arte nello spazio pubblico, trova la sua collocazione e il suo senso. Di conseguenza possiamo osservare l’architettura delle Piazze reali di Parigi, di Nantes, di Lione, e finalmente gli spazi pubblici di gran parte delle città europee nel sette- ottocento come effetto di tali processi di trasformazione che si fanno largo, sovente, attraverso gli “sventramenti” della città medievale e che simbolicamente potremmo concludere, ancora a Roma, con l’apertura, in occasione del giubileo del 1950 (!), della via della Conciliazione a seguito dell’abbattimento della Spina dei Borghi. Veniamo perciò da una tradizione in cui lo spazio pubblico, così altamente istituzionalizzato, viene estetizzato e formalizzato attraverso l’apporto delle arti plastiche, oltre che dell’architettura.

Che ci si trovi ad agire nelle morfologie della città tradizionale, o negli spazi più informali della città moderna, la nostra considerazione dello spazio pubblico è radicalmente cambiata. È possibile che lo spazio pubblico sia mediatizzato e che la fisicità degli spazi urbani non sia più il luogo in cui si celebra il rito collettivo. Lo spazio pubblico è una nozione messa in discussione, forse si tratta di un non-luogo, le strutture commerciali, il traffico automobilistico usano tali spazi come residui ecc. Perciò cercherò di individuare alcune strategie attuali che mostrano la ricerca di una relazione tra arte e città invitandovi a considerare come tali strategie siano da interpretare come azioni in uno spazio messo in discussione e sicuramente in un luogo il cui statuto non è certamente più quello dell’embellissement.

Strategie attuali

Come reagire a questa caduta di rappresentatività dello spazio pubblico prodotto dall’estetica dell’embellissement; cosa fare al momento in cui la tradizione dell’arte civica viene meno? Una soluzione è quella di interferire con questo stesso spazio, distorcerlo, produrre una sorta di disturbo occupandolo con un messaggio privato. Porre in punti cruciali della città un’arte che, sviluppatasi nella “galleria privata”, cerchi non solo un luogo di esposizione all’aperto ma una interferenza significativa nei confronti dei rituali di rappresentazione da contestare è l’ipotesi delle sculture, delle installazioni di Richard Serra. Poste sovente in spazi pubblici rilevanti, le opere di Serra si prefiggono lo scopo di ridefinire la specificità di tali luoghi entrando in conflitto con aspettative, pregiudizi estetici, comportamenti. Che siano poste di traverso ad una strada o nel mezzo della Federal Plaza di New York (Tilted Arc, 1981), tali installazioni rappresentano il trasferimento di una sensibilità privata negli spazi pubblici; sollevano un problema politico, interferiscono con gli standard di sicurezza, impediscono la trasparenza, deviano percorsi. Proprio perché siamo di fronte ad una intrusione bisogna evitare quelle letture mimetiche che avrebbero un effetto invalidante. Nel caso di Barbara Kruger i procedimenti di presa di distanza possono essere determinati dal contenuto del messaggio, la parte scritta — critica, antagonista, poetica, e in ogni caso fuori contesto. O perché si opera uno scarto attraverso una particolare strategia della dislocazione o della restituzione grafica del messaggio, o ancora perché si operano cambiamenti di scala o altro. O perché, al contrario, occupa per così dire abusivamente un luogo deputato come un tabellone elettronico a Time Square. In questo caso, come anche in quello dei lavori di Jenny Holzer, che scorrono su schermi elettronici, l’opera si confronta con l’apparato della comunicazione urbana e territoriale, interferisce con il sistema dell’informazione grafica introducendovi correttivi sia visivi che testuali. Assumendo il sistema della comunicazione urbana come sua propria referenzialità, anziché opporvisi, questo lavoro tende a mettere in luce le possibilità di un uso alternativo di questo stesso apparato, lavora all’interno di un processo spingendolo in avanti, forza il sistema comunicativo della metropoli contemporanea alla ricerca di momenti emancipativi. Un luogo antagonistico allo spazio concitato della comunicazione metropolitana è indubbiamente il parco. Soprattutto negli Stati Uniti e nel nord Europa, si è diffuso un gusto per gli spazi residuali, i luoghi abbandonati o desertici di cui vale la pena di discutere. In effetti ciò che si usa denominare col termine terrain vague è stato per anni oggetto di preoccupazioni da parte di una cultura che, affrontando il fenomeno esclusivamente da un punto di vista sociale ed economico, ne ha restituito un’immagine di puro degrado. È attraverso lo sguardo di alcuni artisti come Mary Miss che questi luoghi abbandonati sono stati presi in considerazione da un punto di vista estetico, non più come ambiti da cui rifuggire, ma al contrario con una attitudine romantica tesa alla ricerca del sublime nelle pieghe della civiltà contemporanea. Questi spazi ambigui sono diventati simbolo tanto dell’estraneità che dell’attesa dell’altro; indicano un’apertura, per quanto vaga, al futuro e all’utopia. Esattamente come di fronte alla “natura”, di nuovo di fronte al manifestarsi dell’altro, l’arte risponde con una attitudine volta a preservare questi spazi alternativi rispetto all’efficienza produttiva della città. Gli artisti vivono il deserto e gli spazi del terrain vague come riserve sottratte allo sfruttamento capitalistico: essi vi trovano le condizioni per evadere dalla libertà condizionata delle città. Infine si potrebbe fare menzione degli innumerevoli esempi in cui lo spazio pubblico viene pedonalizzato e per così dire “arredato” dall’arte. È una attitudine diffusa e quasi sempre deprimente poiché rivela una incomprensione delle tensioni che hanno coinvolto lo statuto dello spazio pubblico della città contemporanea, con il suo degrado, la sua violenza, ma anche con la vitalità della contraddizione e le tracce residuali del suo antico statuto. Interpretato come museo all’aria aperta, deposito o allestimento provvisorio che sia, lo spazio pubblico vive la fase del suo declino confidando all’arte un improbabile compito terapeutico. Il caso di Gibellina, la piccola città siciliana ricostruita negli anni ottanta dopo il terremoto della valle del Belice (1968), Corso Vittorio Emanuele a Milano, possono essere indicati come esempi di questo costume.

Salvatore Falci

Nato a Portoferraio, nel 1980 ha fondato (insieme a Pino Modica e Stefano Fontana) il gruppo dei Piombinesi. Tra le sue mostre principali ricordiamo le personali allo Studio Casoli e in Viafarini a Milano e la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1991.

Non vi parlerò soltanto del mio lavoro ma di quello del gruppo di Piombino nato nel 1980 e formato da Stefano Fontana Pino Modica e me. Nei primi quattro anni di sperimentazioni ci siamo chiesti se nel nella vita quotidiana, le persone con le loro azioni compissero dei “microatti” di creatività. A differenza di tanti esperimenti degli anni Settanta con i nostri volevamo registrare delle azioni e non delle reazioni, e perciò abbiamo pensato di ridurre ai minimi termini l’oggetto di stimolo facendo leva più che altro su stimoli normalmente già esistenti. Nell’82 abbiamo progettato Sosta 15 minuti che è stato realizzato prima nella Rocca Medievale di Populonia, e poi fuori dei Giardini della Biennale di Venezia (1984). Generalmente le persone che vanno alla Biennale sono predisposte a considerare e a fruire tutto ciò che incontrano in modo estetico, ma, dopo qualche ora, la gente è affaticata e si accorge che mancano i posti per sedere. Con queste premesse abbiamo portato delle sedie colorate, degli oggetti ambigui, perché ambivalenti, ibridi, che potevano funzionare come utensili o come oggetti da contemplare. Alcuni le usavano come semplici sedie, ma altri che le hanno notate, si sono soffermati cercando di capire di cosa si trattasse. C’era un continuo alternarsi tra l’utilizzo delle sedie come utensile e come oggetto di riflessione estetica. Da notare che queste seggioline erano colorate con i tre colori fondamentali — giallo, blu e rosso — più il bianco e il nero (i due non-colori), che nel loro insieme davano una variazione cromatica che aveva funzione di attrazione. Un altro elemento era la scritta “sosta quindici minuti”, un invito a gestire l’utensile con parsimonia, avviso che nessuno rispettava, ma che poneva un problema. Abbiamo scattato 400 fotografie e abbiamo stilato dei grafici che facevano vedere quanto fosse stato rispettato l’invito a sostare per 15 minuti, quanti uomini o donne si erano seduti e che colore avessero scelto. L’esperimento era nato per capire quale fosse il rapporto tra l’oggetto e il fruitore nella sua naturalezza (evito di parlare di spontaneità per l’ambiguità della parola). La consapevolezza è già nella vita quotidiana è inutile quindi mettere di fronte alla persona un diktat del tipo: “Guarda!” o “Agisci!”. Nei nostri lavori la persona agiva nei suoi modi quotidiani. Questo lavoro è servito a ognuno di noi per capire le proprie direzioni di ricerca. Tutti e tre partivamo dal presupposto di andare nell’ambiente esterno per far nascere l’opera, non per presentarla. Niente usciva dal nostro studio che non fosse funzionale al progetto, non abbiamo mai avuto l’intenzione di affermare: “questo oggetto è un’opera d’arte”. I nostri oggetti avevano la funzione specifica di creare un’interazione diretta con il pubblico operante. Interazione che doveva comunque avere un ritorno. Fontana concepisce delle scatole gialle (di un colore che richiama l’attenzione) con la scritta “contenitore ideologico”. Queste vengono poi sistemate in diversi luoghi urbani, davanti a un liceo o a un crocievia stradale… Le risposte sono state tutte catalogate come reperti e sono risultate molto varie: si va da degli scarabocchi a degli oggetti, oltre che a delle intere pagine scritte. Pino Modica dopo il lavoro delle seggioline cerca di capire il rapporto che le persone instaurano con un oggetto ambiguo. Costruisce un oggetto simile a un cannocchiale e lo mette in Piazza dei Miracoli a Pisa. All’interno c’era una linea che poteva sembrare un misuratore di pendenza (anche perché stavamo davanti alla Torre Pendente). Tutti quelli che si sono fermati hanno tirato fuori delle interpretazioni. Era interessante vedere che arrivavano delle persone sicurissime che ne spiegavano il funzionamento.

In realtà dentro c’era una cinepresa che ha filmato l’uso improprio, e ne è stato ricavato un film fatto con le inquadrature scelte dai singoli fruitori. Era un modo di sostituirsi all’occhio degli altri. Personalmente ho cercato di non porre degli oggetti, ma dei piani inerti, cercando di ridurre a zero la sollecitazione creata dell’oggetto. Non mi interessava vedere delle reazioni ma cercavo quelle azioni che generalmente non sono visualizzate. Tra il 1984 e l’85 ho disposto su dei tavoli, in ambienti diversi, delle superfici di vetro, verniciate con una pellicola nera che poteva essere facilmente graffiata e questo mi permetteva di evidenziare atteggiamenti tanto frequenti quanto inconsapevoli. Comparando i risultati si nota una forte aderenza tra il tipo di grafia, i contenuti, e il luogo dove questi avvengono, infatti in un bar, in una pizzeria o in una acciaieria succedono cose diverse. Ho fatto solo sette di questi vetri e voglio ripetere questa operazione ogni dieci, quindici anni per vedere se, a ogni cambio di generazione, avvengono dei mutamenti. La stessa cosa è avvenuta con dei pavimenti, dove l’aspetto “concettuale-culturale” non c’è più, su questi infatti si registrano delle azioni naturali: il camminare, lo strusciare dei piedi o i movimenti di una sedia. È interessante mettere a confronto i pavimenti di una cabina telefonica e di un ascensore che hanno le stesse dimensioni: nel primo si possono vedere dei segni più ondulati, più morbidi perché spesso quando si è in comunicazione ci si appoggia su una gamba e con il piede folle si comincia ad ondeggiare, e tutto questo non accade in ascensore, perciò i segni dell’altro pavimento sono decisamente più aspri e nervosi.

Nell’85/86 Fontana ha realizzato le Prove materiali, che sono delle scatole con dentro del pongo che si poteva toccare. Queste erano sistemate in supermercati in un posto plausibile, cioè vicino allo scaffale che lo avrebbe potuto logicamente comprendere. La gente toccando cominciava a manipolarlo e a comporre delle forme con un atteggiamento molto naturale, all’inizio con cautela, poi sempre più accanitamente. Si ebbero delle risposte molto incisive e naturali, proprio perché prive dell’atteggiamento artistico. Modica nello stesso periodo, continuando a lavorare sull’ambiguità dell’oggetto, crea un videogame impossibile da usare, un labirinto di cui bisognava seguire il percorso, con un laser, ma dopo un po’ la gente si stancava e cominciava a fare altro andando fuori dallo schema. Per quanto riguarda il mio lavoro in questo periodo comicio a predisporre dei materassi fatti con la spugna dei fiorai. Un materiale sensibilissimo che registra persino le impronte digitali, poi sistemo questi letti in diversi luoghi: bar, palestra, spiaggia, ecc., cercando anche di scegliere i colori più adatti al luogo. Tutti i dislivelli presenti su queste superfici non sono altro che la sommatoria di tutte le impronte lasciate con i corpi dalle persone che sono passate. Nell’89/90 ho fatto degli esperimenti con l’erba: ho predisposto davanti a dei negozi, una pedana bianca di forex, su cui spargevo della segatura dove avevo aggiunto dei semi di prato inglese e aspettavo che le persone, passando, sparpagliassero il miscuglio. Raccogliendo queste pedane e innaffiandole si trovava che là dove più semi si incontravano, si creavano delle aggregazioni e nasceva l’erba. Il marciapiede veniva ridescritto per frattali che erano in relazione al momento dell’azione.

Ho ripetuto la stessa cosa in un piccolo ponte a Venezia. A questo punto parlo soltanto del mio lavoro perché in realtà il gruppo si è sciolto. In un nuovo lavoro ho predisposto in un bar una moquette, e dei tavoli di colore nero lucido. Alla fine della giornata raccoglievo la situazione finale che raccontava quello che era avvenuto. Quindi aspettavo che cadesse la polvere, e solo dopo toglievo gli oggetti. In questo modo veniva ridescritta una situazione anche se soggetto e oggetto non erano più presenti. Per un altro lavoro, nato nel 1994, ho messo sulla strada delle pedane sotto le quali c’era un telo nero con della spugna imbevuta di colore bianco. Quindi aspettavo che intervenisse l’azione dei passanti o delle macchine che, con un principio analogo a quello della stampa, visualizzava quello che si trovava sotto. Poi ho appeso questi striscioni sopra i luoghi dove sono nati: il risultato questa volta non è andato dentro la galleria, ma è rimasto nell’ambiente urbano che lo aveva prodotto. Il manto stradale racconta la sua usura o i simboli che mano a mano si succedono (per esempio le scritte sui tombini della società dei telefoni che da TETI diventa SIP e poi Telecom). Anche dalla riparazione delle buche si può capire dove ci si trova, a Basilea sono prefettamente regolari, mentre a Tirana sono riempite con materiale qualsiasi.

Vorrei finire con questi ultimi lavori che non sottendono più solo ad azioni rivelatrici di un qualcosa, ma piuttosto inducono ad atteggiamenti e abitudini culturali talvolta dimenticati. In questi lavori c’è dunque il recupero e lo stimolo, attraverso la funzionalità e fruibilità degli oggetti — siano essi le gabbiette, i santuari o altro —, di alcune attitudini antropologicamente normali, che l’uomo della strada può comunque decidere di rifiutare. Nelle gabbiette l’azione che viene indotta è quella di dare da mangiare agli uccellini, un gesto piuttosto comune, ma spesso inibito dalla cultura moderna. Per esempio a Mercato Saraceno, in una scuola elementare dove ho installato una di queste stazioni di gabbiette, gli studenti, con cui ho collaborato, si sono sorpresi perché da quel momento in poi potevano dare da mangiare ai passerotti, cosa che fino ad allora le maestre avevano impedito. Ormai si tratta di innescare un gesto, un’azione, creando il presupposto e riconducendo all’oggetto artistico la funzione didattica che durante la storia ha spesso avuto.

Emanuela De Cecco

Nata a Roma nel 1965 è un critica d’arte e caporedattore di Flash Art Italia. Ha curato alcune mostre tra cui Mappe alla galleria Care of, Cusano Milanino (MI), Aperto ’95 (co-curatrice) al Trevi Flash Art Museum.

Mappa, esperienza, simbolo.
Riflessioni dopo una mostra e oltre.

Nel gennaio ’96 ho curato una mostra intitolata Mappe ’96, nello spazio Care Of a Cusano Milanino (nell’ambito di una serie di Laboratori organizzati dal Progetto Giovani del Comune di Milano). La mia primissima ipotesi di partenza era quella di verificare se il territorio, il rapporto con la città e la considerazione del contesto nel quale si opera fossero tematiche che effettivamente interessano ancora gli artisti dell’ultima generazione o se, dalle nostre parti, un interessamento attivo in questa direzione fosse solo ascrivibile alla storia, quella degli anni Settanta, anni in cui il motore trainante era l’ideologia e dunque l’uscire dalle gallerie ed andare nelle strade era una sorta di imperativo categorico a partire dal quale giudicare il mondo e chi non vi si atteneva era guardato con sospetto. Dalla documentazione assai vasta presente nell’archivio in questione, mi sembra prevalere piuttosto un atteggiamento “indoor”, ovvero per la maggior parte gli artisti giovanissimi (non solo) di oggi lavorano al chiuso, spesso in una dimensione domestica e prevalentemente individuale, atteggiamento che a mio avviso conferma lo stato di difficoltà in cui oggi versa la condizione pubblica di cui tutti abbiamo un’esperienza, tutto sommato, precisa. La strada raramente costituisce un’attrattiva per gli esordienti. Se a volte entra nel lavoro, si tratta di un'incursione a carattere episodico, affidata comunque alla buona volontà del singolo. Incursione che non prevede una forma accettabile di stanziamento di fondi pubblici e raramente stimola la sensibilità pubblica intesa nel senso più ampio del termine. D’altra parte non stento a credere che uno degli atteggiamenti prevalenti a questo proposito sia la mancanza di fiducia e la sensazione (o meglio la certezza) di ritrovarsi soli a combattere contro il silenzio delle istituzioni e i mulini a vento del pubblico.

La difficoltà di pensare in termini pubblici, tenendo presente una comunità per la quale o con la quale si lavora, sembra essere una caratteristica tipica dell’arte italiana, eccezioni a parte (Alighiero Boetti, Maria Lai, Franco Vaccari, Michelangelo Pistoletto e Piero Gilardi ma in altri tempi). Sono rarissimi infatti gli artisti che del rapporto con il pubblico — e relative ricadute ed elaborazioni sul privato — ne hanno fatto non un manifesto ma una linea di ricerca continuativa. Ma tornando a Mappe, (a cui hanno partecipato Luca Vitone, Laura Ruggeri, Franco Stanghellini, il gruppo Stalker, il gruppo Archivio umano e Davide Marchionni), nel giro di pensieri che l’hanno preceduta, vorrei ricordare una mostra che pochi mesi prima mi aveva colpito e fatto molto riflettere. Mi riferisco a Il Centro Altrove, mostra allestita all’inizio autunno ’95 negli spazi della Triennale, che si proponeva di offrire una riflessione sui rapporti tra Centro e Periferia (della città, Milano compresa). In una vasta rosa di proposte a carattere prevalentemente architettonico, c’era anche una piccola sezione dedicata all’arte che, inspiegabilmente per l’ambito, era incentrata sì sui rapporti tra centro e periferia ma della pittura, non della vita, e per essere precisi di una pittura prevalentemente astratta. In quell’occasione mi ero molto arrabbiata e desideravo rispondere a questa ennesima dichiarazione masochista di appartenenza ad un mondo altro e di impotenza, con una proposta che esprimesse nel suo DNA la possibilità di aprirsi, esporsi alle intemperie, senza per questo rinunciare ad un ambito linguistico (quello dell’arte, naturalmente).

Dunque Mappe. La mostra si è rivelata una curiosa occasione per mettere a confronto modalità operative diversificate. Tralasciando di entrare troppo nello specifico, a conti fatti il dato ricorrente della mostra è senza dubbio la presenza di Mappe a vario titolo, e con questo termine mi collego a un notissimo testo di Ernst Gombrich, lo storico dell’arte inglese, ovvero Lo specchio e la mappa, per una teoria della rappresentazione, in cui la funzione della mappa è contrapposta a quella dello specchio e serve a tradurre, previa decodifica, i termini di un’esperienza vissuta che comunque neanche le foto (lo specchio, appunto), riescono a restituire nella sua intensità. Per “mappe” intendo quelle effettivamente utilizzate da Luca Vitone nel suo allestimento/dichiarazione di intenti in cui ha reso visibili gli strumenti a partire dai quali mette in piedi un lavoro; dall’elenco di rifiuti di Davide Marchionni che è la base per immaginare una storia a partire dalle scorie, alla geometrizzazione dello spazio della città di Laura Ruggeri dedotta dai video girati sul percorso dei tram milanesi lungo i 4 punti cardinali che restituiscono visivamente la progressiva omologazione del territorio urbano, all’universo-mondo/carta geografica degli Stalker in cui sono evidenziati i loro percorsi attraverso le zone non costruite — operazione non semplice a Milano — e differenziati spazi vuoti e spazi pieni che diventano un po’ isole e mari, poi costellazioni… e ancora la mappa di Archivio Umano che accompagna le foto di ragazzi scattate nel centro città e spiega le loro provenienze prevalentemente periferiche in un sabato pomeriggio prima di Natale, a Franco Stanghellini che più che di macchia ha costruito uno specchio fotografando in scala uno a uno un particolare dell’esterno. A conclusione del lavoro ripensando alla mostra e allo scarto inevitabile che spesso si crea tra presupposti e risultati, mi è sembrato chiaro come alcune componenti proprie del rapporto col territorio, fossero rimaste al di fuori del percorso tracciato, mancanze (anche se bisognerebbe parlare di altre direzioni)sulle quali mi interessa ragionare in quanto indicatrici di un’attitudine diffusa. E mi riferisco da un lato al coinvolgimento del pubblico, mai desiderato o preso esplicitamente in considerazione nella fase di elaborazione dei progetti. Il pubblico/persona era stato fotografato (Archivio umano, Marchionni), attraversato (Stalker, Ruggeri) ma in nessun caso il destinatario aveva preso corpo in una forma specifica ed era diventato soggetto, parte attiva nella costruzione dell’opera, membro di una comunità per la quale era stato effettivamente pensato il lavoro (comunità in qualche modo degli addetti ai lavori esclusa). Dall’altro lato il rapporto con la memoria simbolica del luogo, forte o debole che sia, carica di eventi degni di essere ricordati ma più probabimente teatro di una vita assolutamente normale. Gli artisti coinvolti nella mostra hanno lavorato in altre occasioni in questa direzione (Vitone a Colonia con la comunità Rom, Laura Ruggeri con gli abitanti di Viale Bligny 42 per una mostra alla galleria Emi Fontana, Davide Marchionni con i bambini di una scuola elementare per Aperto ’95 a Trevi), ma in Mappe è accaduto, come ho già detto, che Luca Vitone registrasse le architetture dell'area industriale in cui si trova il Care Of; Davide Marchionni le abitudini dei cittadini di Cusano nella disamina dei rifiuti). Non è emerso un interesse specifico tale da dare corpo ad una forma simbolica in cui gli abitanti del paese potessero riconoscersi ed elaborarla come memoria collettiva. La questione della comunità di riferimento e della disponibilità di essa a entrare in relazione con l’arte, così come la riflessione sulle modalità di elaborazione della memoria collettiva, restano pertanto questioni aperte e destinate a rimanere tali, entrambi sono elementi che mi interessa approfondire in un prossimo progetto.

Stefano Arienti

Nato a Asola (Mantova) nel 1961. Tra le principali mostre segnaliamo la Biennale di Venezia nel 1991, Cocido y crudo al Centro Reina Sofia di Madrid, e le personali alla Studio Guenzani, Milano; Jay Gorney, New York; e Minini, Brescia.

Nell’estate 1996 ho avuto la possibilità di sviluppare un particolare progetto per una zona particolare della città di Torino. Nel primo sopralluogo non riuscivo a riconoscere la possibilità di intervenire in modo usuale o esplicito rispetto a quel luogo, il lungofiume fra il ponte che porta alla chiesa della Gran Madre e il Parco del Valentino, in pieno centro, ma lo stesso ho accettato la sfida. L’Associazione per la Valorizzazione dei Murazzi del Po, assieme alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per l’Arte Contemporanea, mi chiedevano, quindi, un intervento artistico all’aperto, in un luogo con una storia e un significato molto importanti per la città. Si tratta di un ambiente caratterizzato dall’acqua, quindi molto naturale e, allo stesso tempo, in contraddizione con il resto del centro storico. La frequentazione, soprattutto notturna, dei Murazzi li rende un luogo camaleontico, desolato di giorno, ma gremito di notte. La vita notturna trova lì il principale luogo di concentrazione, fra l’altro con non semplici problemi di ordine pubblico. Mi dovevo confrontare, inoltre, con un intervento artistico preesistente e molto ingombrante: una scultura-portale di legno e polistirolo alta 26 metri, opera di uno scultore torinese, di cui si discuteva lo smantellamento. Nella necessità di decidere mi sono trovato di fronte ad un bivio: realizzare un’opera visibilmente presente, se non monumentale, oppure, lavorando in negativo e per sottrazione, togliere in qualche modo arte da lì, evitare di aggiungere cose superflue, cercando invece di fornire solo spunti, desideri e servizi in più, purché fossero contestuali al posto.

L’architettura vagamente piranesiana del lungofiume mi ha dato una mano. Lo spazio architettonico assieme alla presenza vivacissima e interetnica di molti circoli e locali notturni che si sono concentrati lì, caratterizzano già a sufficienza i Murazzi. Come artista ho cercato di mettere a disposizione il mio sapere non per modellare nuove sculture, ma per togliere quella già presente sostituendola con qualcosa di più mimetico. Ho cominciato così a pensare una lista di possibili cose e ho continuato a progettare solo per liste, così ho finito per evitare il più possibile ogni indicazione grafica di progetto. Il risultato finale è stata una lista definitiva di 17 “suggerimenti”, desideri e servizi supplementari per un luogo a cui non me la sentivo di aggiungere estranee presenze artistiche. Forse il risultato non è necessariamente artistico, forse è qualcos’altro, ma non importa.

I Murazzi dalla cima:
Colonna per uno stilista
Area nudista galleggiante
Lastre di rame in ossidazione
Rettilario in gomma
Bacheca animali smarriti e trovati
Ossario
Gabbia della fame
Zona colloqui
Discarica di materiali specchianti
Cassonetti per la raccolta differenziata per colore
Insettario e arnie
Docce e nebulizzatori di acqua fredda
Zona sonno galleggiante
Presepio multireligioso
Orologio politeista
Area linguaggio dei segni
Scivolo diretto strada fiume

È stato necessario coinvolgere il Comune di Torino per l’autorizzazione e l’aiuto a realizzare il mio progetto, che avrei considerato compiuto anche con la realizzazione di uno solo dei suggerimenti in lista. Fortunatamente buona parte della lista è stato realizzata anche se non è stato per niente agile né rapido ottenere questo apporto “ufficiale”. Il progetto si presentava come la realizzazione di prototipi, o studi in scala uno a uno, più che di sculture. È stato oltretutto molto interessante scoprire il modo in cui le mie vaghe indicazioni si traducevano in oggetti in opera. Forma, dimensione e scelta dei materiali è stata largamente decisa da persone abituate a frequentare i Murazzi e che in questo modo si sono presi la briga di interpretare il contenuto della lista, facendo sempre delle scelte commisurate al luogo. Delle opere d’arte molto visibili sarebbero probabilmente state vissute come degli elementi estranei, per questo, invece, ho pensato di inserire delle cose che potessero essere usate dalla gente, o riconosciute come elementi contestuali all’ambiente. È molto più importante spesso inventarsi dei sistemi in cui l’arte viene tolta. A questo proposito mi fa piacere ricordare un’opera al computer di Umberto Cavenago che smantellava alcuni nuovi monumenti nella città di Milano, oppure molte opere subdolamente coinvolgenti il pubblico, realizzate dal gruppo degli artisti di Piombino.

Oppure, sempre per rimanere vicino a casa, il progetto di Giacinto Di Pietrantonio intitolato Territorio Italiano. L’aver demandato ad altri molte decisioni determinanti sulla realizzazione della lista è stato molto stimolante, ad esempio il momento della selezione all’interno della lista ha dato come risultato sintomatico l’eliminazione dei suggerimenti che più da vicino coinvolgevano il nudo, il sesso e la partecipazione multietnica, come nel caso di Area nudista galleggiante, di Zona colloqui, o di Presepe multireligioso. Mentre paradossalmente sono stati facilmente realizzati i suggerimenti più macabri e drammatici come Gabbia della fame e Ossario. L’unico elemento che ha alla fine richiesto un mio intervento più diretto è stato quello che in tutta la lista maggiormente si riferisce al titolo: Colonna per uno stilista. Mi sembra molto indicativo che l’intervento dove mi sono maggiormente sentito di adoperare il mio sapere è stato quello che implicava lo smantellamento dell’opera di un altro artista. Forse perché togliere o riconvertire arte già esistente esige competenze più squisitamente artistiche.

Ho riutilizzato una piccola parte strutturale della “sculturona” già in opera, un pilastro di dodici metri, aggiungendo un capitello di polistirolo che ho dovuto disegnare personalmente. Tutto questo progetto riprende il ricordo di un famoso film di Buñuel: Simon del deserto. L’arte contemporanea non ha la stessa comunicazione e comunicabilità della cultura di massa che noi viviamo tutti i giorni. Secondo me rimane comunque incomprensibile ma soprattutto non godibile dalla maggior parte delle persone. Forse si tratta solo di un naturale volano culturale e temporale che ha bisogno dei suoi tempi per girare, in attesa che anche questa cultura sia patrimonio di un pubblico più allargato. Questa premessa è molto imbarazzante quando si tratta di lavorare al di fuori di un ambito per addetti ai lavori. Solo l’esperienza diretta di cosa sia un’opera contemporanea permette di goderla in qualche modo, ma perché questo succeda serve che il pubblico possa godere dei pregi di opere contemporanee scoprendoli personalmente.

Per l’arte non vale nulla la solita comunicazione mediatica. Nessuna spiegazione serve a qualcosa. Come per il jazz, il teatro o la musica lirica, lo stupore e le sensazioni personali “dal vivo” sono l’unica chiave d’accesso a qualcosa fondamentalmente inadatto ad essere raccontato malamente per radio televisione o giornali. Ogni media racconta fondamentalmente se stesso; lo stesso fa l’arte quando rimane nel suo contesto specialistico, al di là dell’ottimo giornalismo, televisione o radio che qualcuno riesce lo stesso a fare con l’arte. L’arte contemporanea fuori dal suo contesto protettivo, se non vuole rischiare di diventare deiezione artistica che qualcuno incautamente lascia sul territorio, deve avere delle proprie e inafferrabili caratteristiche mimetico-spettacolari, proprio per essere in grado di raccontarsi da sé.

Giacinto Di Pietrantonio

Nato a Lettomanoppello nel 1954, è stato caporedattore della rivista Flash Art Italia (e Associate Editor di Flash Art International) e insegna Storia dell’arte all’Accademia di Brera di Milano. Critico d’arte ha curato varie edizioni delle rassegne annuali al Castello di Volpaia (Siena) e Fuori Uso a Pescara. È il curatore e coordinatore del progetto d’arte Territorio italiano.

Se c’è una cosa che l’arte può insegnarci è a credere ai nostri sogni, ma non nel senso freudiano o surrealista, piuttosto nel dar corpo ai propri desideri, le proprie utopie. Difatti, si parla sempre di regole e leggi che pongono limiti all’intervento dell’arte nella realtà, una realtà che viene costruita sempre più da ingegneri o architettetti-ingegneri che trovano sempre posto per le leggi e mai per l’arte. Forse questa considerazione iniziale è un po’ retorica, ma credo che in fondo sia vera. Ci lamentiamo sempre della mancanza di musei in Italia, dell’assenza di spazi per l’arte contemporanea, che siamo i soliti sfigati italiani… beh io non credo a questo atteggiamento vittimista. Credo che l’Italia sia un bel paese e per quanto riguarda l’arte non se la passi poi tanto male. Non parlo di arte contemporanea, ma di arte in generale così come non parlo di strutture e non parlo di istituzioni, ma parlo di artisti e di opere. La verità è che la forza e la presenza di un sistema strutturato non sempre incide e coincide con la qualità del lavoro dell’arte. Partendo da queste considerazioni e valutando le mie possibilità, le deficienze di struttura e i miei sogni, considerando che abito in questo bellissimo paese, sono un cittadino italiano, pago le tasse, ho pensato: c’è un territorio che è quello dell’Italia — che è l’unico paese al mondo ad avere una forma figurativa: uno stivale! e che quindi ha un destino legato all’arte che è intrinseco a se stessa — allora voglio farmi il mio museo e lo chiamo Territorio Italiano. Oggi è visitabile anche su Internet: www.undo.net/Global Vision. Questo progetto è nato all’inizio degli anni 90. Ad un certo punto sono arrivati degli amici artisti, Marco Cingolani e Massimo Kaufmann, che facevano una rivista che si chiamava Documentario e mi hanno offerto dei finanziamenti per fare una mostra. Allora ho pensato che era il momento di realizzare il mio sogno e di chiedere a mia volta i sogni degli artisti.

Ho chiesto ad una quarantina di artisti di tutte le parti del mondo di scegliere un luogo in Italia e di farmi un progetto per questo posto. Con tali progetti ho costruito la mostra con l’intenzione di realizzarli tutti. L’unica condizione che ho posto agli artisti è che questo luogo non fosse un museo o uno spazio d’arte. Partivo dall’idea che l’Italia ha un territorio artisticamente sedimentato, cioè tutto il suo paesaggio è costruito ad arte. Ogni città italiana, grande o piccola è una città dell’arte; anche un piccolo paese, nel suo centro storico, nel suo borgo antico, lavorando per imitazione e per differenza, ha costruito questa unità architettonica, paesaggistica, visiva. In più il museo nato più o meno nello stesso periodo della rivoluzione industriale per attuare le esigenze della nuova borghesia capitalista, forse è entrato in crisi e deve recuperare un diverso rapporto con la realtà. Difatti, se siamo in una fase postindustriale e in una economia postcapitalista, sarà da considerare anche la possibilità di un periodo postmuseale, come è stato messo in evidenza da Jan Hoet con la mostra Chambres d’amis. Tuttavia, la prima cosa che vorrei dire è che nel fare Territorio Italiano mi sono e mi diverto moltissimo, perché quando si fa qualcosa credo che sia importantissimo farla con piacere, Marx avrebbe parlato di un lavoro non alienato. Infatti, ho preso a visitare tutti i luoghi che gli artisti mi indicavano con una fotografa, Laura Muraglia, per “prendere visivamente ed esistenzialmente possesso del territorio” e per avere materiali per costruire mostra e catalogo. È un progetto che ha anche un sottotitolo: Progetto di eternità per l’arte contemporanea sia perché sono opere permanenti e sia perché, non avendo istituzioni alle spalle, e partendo in un momento di crisi economica, pensavo di avere tantissime difficoltà per realizzare tutti questi progetti, e certamente non credevo di avere davanti tempi brevi.

Poi ho cominciato la fase “Cantiere Italia”, successiva alla mostra, che consiste nella realizzazione dei progetti stessi. Ne ho, finora, realizzati otto. Si sono tutti concretizzati con l’aiuto di amici, denaro privato, senza interventi pubblici. In questo tentativo di costruire i singoli progetti ho trovato una grande disponibilità ad aiutare l’arte e a realizzare i lavori. Il primo dei progetti realizzati è stato un lavoro di Shozo Shimamoto, un artista che faceva parte del gruppo Gutai. Shimamoto ha fatto un progetto di stendardi per la torre Salvicci di San Gimignano che è stato realizzato nel settembre del ‘93 grazie al contributo della galleria Continua (che è composta da un gruppo di ragazzi, Maurizio, Lorenzo e Mario, che amano veramente l’arte e hanno sponsorizzato tutta l’operazione). Ovviamente gli stendardi non sono esposti in modo permanente ma sono messi e tolti a seconda di ricorrenze; una funzione che è poi quella di tutti gli stendardi. Shimamoto ha voluto ripetere l’operazione anche in Giappone, a Osaka nella notte di capodanno del 1993/94 come rito augurale. Mi ha scritto, dicendo che le torri erano simili a quelle di San Gimignano, ma a me sembravano più vicine a un edificio di Aldo Rossi (e questo la dice lunga su come i giapponesi interpretano e metabolizzano l’occidente). Il secondo progetto realizzato è degli Irwin, un gruppo sloveno. Loro fanno parte di uno Stato simbolico di loro invenzione che si chiama Neue Sloveniske Kunst (Nuova Arte Slovena) e all’interno di questo Stato hanno creato dei veri e propri dipartimenti con ambasciate, consolati, ecc. Il loro progetto era di creare un consolato a Firenze che è stato realizzato in un albergo che si chiama (guarda caso) Ambasciatori in via Alamanni proprio a fianco alla stazione di Santa Maria Novella. Anche qui avevamo l’appoggio della proprietaria Maria Silvia Papais (che è diventata loro Console) che è anche una collezionista. Ogni tanto all’interno di questo consolato avvengono delle cose, la prima sera il gruppo Irwin rilasciava il passaporto di questo nuovo Stato. Naturalmente, i riferimenti politici sono chiari pensando anche al fatto che hanno fondato questo stato quando la Jugoslavia era ancora “intera”. Loro cercavano di simulare uno stato simbolico così come era ritenuto simbolico lo stato comunista che teneva insieme le varie regioni della ex- Jugoslavia. I passaporti hanno tutte le caratteristiche di quelli veri, sono anche stati stampati dalla zecca di Stato slovena, anche se ovviamente non c’è scritto Stato Sloveno, ma Neue Sloveniske Kunst. Alla Neue Sloveniske Kunst partecipano gruppi di grafici (Neue Collectivism), musicisti (Laibach), gruppi che si occupano di video e cinema (come i Retrovision), teatro (Noordung).

Il terzo progetto è stato realizzato a Bologna ed è di Alberto Garutti. Alcuni progetti dalla loro ideazione alla loro attuazione si sono evoluti: il disegno originale doveva essere intarsiato sul pavimento della camera d’albergo dove Garutti sostava sempre quando andava a Bologna ad insegnare. In seguito ha pensato di realizzarlo nel soffitto, ma alla fine ha optato per un lavoro di cristallo sulla parete dipinto con vernice gialla fosforescente. Le persone che si trovano ad abitare quella stanza non sono avvisate in nessun modo che quella è un’opera, ma pensano sia una sorta di specchio, ma quando spengono la luce appare un quadrato di luce di circa due metri per due, una sorta di visione che apre come un varco sulla parete verso l’infinito. Immaginate lo stupore di chi si trova di fronte a questa sorta di miracolo della luce. Dimitri Kozaris ha invece fatto un progetto per la RAI, una serie di brevissimi video chiamati Fast food da inserire nell’ambito della trasmissione Fuori orario. Il video di Kozaris è stato mandato in onda nel 1994. Questo è ovviamente un lavoro non permanente anche se è presente nell’archivio della RAI. John Armleder ha voluto porre una scultura sul fiume Po a Piacenza che è stata realizzata con l’aiuto di Baldini della galleria Placentia e di Tullio Leggeri. La cosa più difficile per questo lavoro è stato avere il permesso, perché bisogna sapere che il Po è considerato un Bene Ambientale e, come gli Uffizi, ha un sovrintendente che viene chiamato Magistrato delle acque che difficilmente dà permessi per intervenire sul bacino del Po, ma grazie ad un articolo che era uscito sul settimanale L’Espresso su Territorio Italiano si è convinto e ci ha dato tutti i permessi. Armleder ha previsto che la scultura stessa venga trasformata dall’acqua che la sommerge completamente durante le piene e che la muove ogni volta. Successivamente abbiamo realizzato il lavoro di Carla Accardi a casa Ratti a Santa Maria Novella, un borgo medievale del Comune di Radda in Chianti in provincia di Siena. Sono due sculture in ceramica di forma stellare, una sorta di croce runica ad otto punte. Spalletti aveva fatto un progetto per Bergamo: una stanza tutta blu dove entravi dentro e trovavi una atmosfera molto particolare, intensa. Ad un certo punto però, nonostante che avevamo avuto la disponibilità delle autorità e trovato il luogo adatto, Spalletti ci ha ripensato e ha voluto realizzare questo progetto nella sua abitazione di Cappelle sul Tavo in provincia di Pescara, nella stanza che abitava da bambino. Infine, Alfredo Pirri aveva fatto un progetto di un ponte da realizzarsi a Cosenza in onore dei fratelli Bandiera che lì furono uccisi con l’intento di far sollevare la gente del posto. Il ponte doveva avere con i colori della carboneria (nero, turchino e rosso rispettivamente simboli di fede, speranza e carità), ma questo progetto non è stato ancora realizzato, ma nel frattempo Alfredo ha avuto un’altra idea su un lavoro che poteva rientrare nello spirito di Territorio Italiano. Il suo nuovo progetto consiste in una scritta per un edificio in cui lui ha lo studio. Si tratta di un ex edificio industriale a Roma sede nazionale dell’ARCI NOVA e degli uffici internazionali dell’ARCI, della redazione di Nero non Solo, della rivista Ora d’Aria, Centro di prima accoglienza per ex carcerati, una scuola di danza, un teatro per la cui facciata gli è stato chiesto di realizzare un’opera. Ha pensato ad una scritta luminosa, “Malafronte”, che riprende il vecchio nome dell’industria di mobili che occupava quello stabile, ma nello stesso tempo la scritta si trasforma nella firma di Malatesta (l’anarchico napoletano). La scritta è lunga dieci metri e mezzo e alta ottanta centimetri e si alternano il bianco luminoso di Malatesta e il blu di Malafronte.

Così, accettando l’invito a Territorio Italiano, artisti come: Carla Accardi, Ad Hoc, Getulio Alviani, John Armleder, Guillaume Bijl, Alighiero Boetti, Henry Bond, Angela Bulloch, Stefano Casciani, Sandro Chia, Enzo Cucchi, Wim Delvoye, Alberto Garutti, Liam Gillick, Irwin, Dimitris Kozaris, Maurizio Mochetti, Gian Marco Montesano, Maurizio Nannucci, Marcel Odenbach, Luigi Ontani, Julian Opie, Anatolj Osmolowskj, Mimmo Paladino, Alfredo Pirri, Vettor Pisani, Michelangelo Pistoletto, Dimitrij Prigov, Emilio Prini, Mimmo Rotella, Bernhard Rüdiger, Thomas Schütte, Shozo Shimamoto, Ettore Spalletti, Haim Steinbach, Rosemarie Trockel, Ben Vautier, Konstantin Zvezdotchotov tentano di portare l’arte fuori dal contesto dell’arte, quindi al di là del ready made, perché oggi il problema è quello di riportare l’urinatoio di Duchamp nella realtà facendolo restare un’opera d’arte. Quindi, Territorio Italiano è il sogno di riportare l’arte nella vita come reale caratteristica italiana non solo del passato, ma anche del contemporaneo come ha sostenuto il Futurismo, come ha scritto Raphael Rubinstein in Art in America: “Un vero progetto italiano che si muove tra arte, estetica, turismo e vita.”

Piero Gilardi

Nato a Torino nel 1942, artista e teorico, ha esposto in numerose gallerie e musei di tutto il mondo. Attento al rapporto tra arte e vita ha lavorato in atelier di libera espressione in ospedali psichiatrici, in movimenti politici e ha organizzato esperienze di creatività collettiva in culture marginali in Nicaragua, in Kenia o nelle riserve Irochesi. Dal 1985 si occupa di tecnologie avanzate e partecipa a numerosi gruppi di lavoro. Tra i progetti recenti ricordiamo Ixiana, Inverosimile, Survival.

Vorrei iniziare con la presentazione di un “videodemo” dell’installazione interattiva Survival per poi passare ad esporvi alcune riflessioni sulle esperienze artistiche che sono state presentate nel corso di questo incontro e che mi hanno dato delle forti emozioni. Survival è un’installazione che potrebbe essere proposta in spazi pubblici aperti, ad esempio in una stazione di metropolitana; infatti l’ho già montata una volta in un contesto non artistico — la fiera dell’elettronica di Bologna — nel quale un pubblico urbano normale l’ha fruita disinvoltamente. L’installazione è costituita da uno spazio archetipale con un pavimento a sensori e uno schermo per le immagini virtuali in computergrafica. I partecipanti entrano e agiscono in questo spazio facendo una sorta di “gioco” di progettazione urbanistica; disponendo delle stalagmiti in un certo modo sul pavimento di questa grotta speleologica simulata si compone la struttura di una metropoli sullo schermo. Ogni stalagmite da origine nello spazio digitale dello schermo a un “edificio-guida” che induce intorno a sé alla nascita di altri edifici e di infrastrutture urbane; queste strutture si evolvono fino al raggiungimento di un certo equilibrio urbanistico. Si può dire che questo “gioco” potrebbe servire agli abitanti di una metropoli o di un suo quartiere a riprogettare il proprio habitat, vagliando una molteplicità di soluzioni possibili.

Il software che sviluppa la crescita e l’assestamento delle strutture urbane è basato su un tipo particolare di algoritmo genetico che è quello dell’automa cellulare; si tratta di un sistema che adatta e numerizza i parametri evolutivi della teoria darwiniana, applicati agli elementi urbanistici e, a seconda degli input forniti dai partecipanti, sviluppa una grande quantità di possibili conformazioni. In un certo senso, questo lavoro è anche una risposta alla odierna crisi dell’architettura in quanto prefigura un metodo di autoprogettazione della metropoli da parte dei suoi cittadini. Survival può avere l’apparenza di una metafora ludica ma il suo significato artistico e concettuale si ricollega a due idee fondamentali dell’arte dagli anni Sessanta in poi: la processualità e l’interattività dell’opera. Queste idee stanno tornando a galla oggi e vedendo poco fa le immagini delle esperienze del gruppo dei Piombinesi, di Arienti, e del gruppo Stalker, mi sono chiesto se l’omologazione operata da Germano Celant sugli artisti dell’Arte Povera che queste idee avevano creato, non abbia tarpato per due decenni la loro potenzialità e il loro sviluppo.

Processualità e partecipazione erano connotazioni forti dell’operare non solo degli artisti dell’Arte Povera ma di tutto il movimento artistico che alla fine degli anni Sessanta prorompeva un po’ dappertutto nel mondo occidentale con l’intento di portare l’arte dentro la vita. Oggi dopo che per vent’anni il “poverismo” si è imposto come una raggelata accademia, riemergono i segni di quella tendenza a sperimentare un rapporto simbiotico tra arte e vita. L’attenzione con cui, nell’incontro di oggi, abbiamo seguito le presentazioni di Falci, Arienti, Cavenago, ecc. mi sembra che testimoni un bisogno di azzeramento dopo l’inflazione estetica degli anni Ottanta, un bisogno di risalire alle tensioni e ai bisogni umani che stanno a monte dei segni, dei simboli e delle icone. Non si tratta solo della necessità di una ecologia della mente, motivata dalla nausea per la moltiplicazione degli oggetti che ci assediano, ma del presentimento di una nuova possibilità di vita e quindi del modo di fare arte. Si tratta dell’apertura di un nuovo, rivoluzionario, orizzonte epistemologico che sta cambiando la nostra vita individuale e collettiva. Se, ad esempio, analizziamo il lavoro del gruppo dei Piombinesi, troviamo una corrispondenza con le teorie scientifiche di Francisco Varela che in sostanza ci spiegano che non esiste più un mondo oggettivo ma che con il nostro agire rimodelliamo continuamente sia il mondo che la nostra mente. Questo concetto mette sullo stesso piano ciò che è reale e ciò che è virtuale e ci dà l’attitudine a manipolare non le forme ma i loro codici generativi, come facciamo appunto con il computer. Appare allora chiaro che se siamo in grado di rimodellare continuamente la nostra vita, allora la nostra esistenza può essere una “opera d’arte” continua e ininterrotta. A questo punto non abbiamo più bisogno della dimensione simbolica che ci ha saturato con le sue icone mediatiche pervasive: possiamo risalire alle fonti della vita, liberare il nostro immaginario e giocarlo nella relazione, anzi nella rete delle relazioni divenuta trasparente grazie all’espansione del cyberspazio. Nel mio lavoro propongo la virtualità tecnologica proprio perché offre uno spazio alle potenzialità dell’essere e quindi libera i simboli e le icone della loro tradizionale funzione linguistica normativa. Credo che siamo tutti avvertiti dei rischi impliciti nella virtualizzazione del mondo, ad esempio di quelli connessi alla manipolazione delle informazioni, ma attraverso il cyberspazio — inteso nel suo senso più ampio — penso che stia nascendo una dimensione dell’intelligenza creatività collettive che danno corpo a quel bisogno di “vivere artisticamente”, di esprimere la nostra singolarità in modo aperto, senza che la “differenza” e il “possesso” ne impediscano la connessione con gli altri. Questo significa a mio avviso, che possiamo interfacciarci alle tecnologie immateriali e vivere la mutazione culturale e antropologica che esse ci inducono, a condizione che si sia consapevoli della nuova dimensione epistemologica indeterministica e che si assuma una posizione attiva contro le strategie di controllo e uso egoico del virtuale da parte dei poteri economico-politici.