La Generazione delle Immagini


7 - 2000/01 - Racconti d'Identita'


Kendell geers



Affluenza ed effluenza

Sono passati due anni da quando ho smesso di considerare il Sudafrica come casa, due anni nei quali sono stato "homeless", senza tetto, visto che considero lo stato di esilio itinerante molto più autentico e desiderabile del malessere del nazionalismo.

Oggi vivo a Londra, domani a Berlino, la settimana dopo a Helsinki. Ogni giorno mi aspetta il comfort della banalità di una camera d'albergo a tre stelle con i suoi insulsi quadri plastificati, la solita scelta televisiva tra MTV, CNN, RTL e RaiUno, una scrivania, una sedia, un letto e una doccia. Nell'angolo, la valigia che ho scelto per riuscire a salire anche sugli aerei più minuscoli con il solo bagaglio a mano, in cui infilo il computer portatile, il cellulare, qualche vestito e il necessario per lavarmi. Da quando mi sono imbarcato in questo viaggio, ho imparato a conoscere i vantaggi del non portarsi dietro troppi bagagli: se non mi multavano al banco del check-in, finivo col rompermi la schiena cercando di trascinare in giro quintali di libri, riviste e cataloghi, su e giù per scale d'albergo e strade acciottolate. È stato solo quando ho capito i fastidi dell'eccesso di bagaglio che sono finalmente riuscito a lasciarmi alle spalle Johannesburg.
I network di comunicazione internazionali e Internet adesso ti permettono di trovare qualsiasi cosa in qualsiasi angolo del mondo e fartela spedire a casa, anche in Africa. Non è più necessario portare con sé intere biblioteche per paura di dover dare una rinfrescata alla memoria sui dettagli di una citazione oscura o di un'ipotesi. È più semplice ed efficace cercarle in rete o farsele recapitare in albergo il giorno dopo da Amazon.com. Non è più necessario caricarsi di block notes e album di schizzi ingombranti: basta comprimere tutto in un CD-Rom o zipparlo direttamente sul proprio hard drive.
Ovviamente, non potrei avere pensieri del genere o vivere in questo modo se fossi ancora in Africa. Sarei divorato dal senso di colpa perché consapevole del mio privilegio nell'accedere immediatamente alle autostrade dell'informazione. Per di più, gli accademici e i commissari culturali autoeletti non la finirebbero più di spiegare perché quello che sono e quello che faccio non sono abbastanza africani, senza però definire esattamente cosa lo sia. In quanto non nero e non europeo, è facile non avere un paese, scivolare tra le crepe degli stereotipi e muoversi senza farsi notare tra cliché e generalizzazioni. L'unica costante è il presente, un luogo all'interno di un luogo dove tutto è possibile, dove ogni "dappertutto" diventa un "tutto subito, qui e ora". Vivo nel momento, rubando la mia identità mentre vado avanti, tenendo un piede oltre la mia storia e un piede fuori dalla realtà.

Il facile accesso all'informazione e alla tecnologia che definisce l'esperienza contemporanea, ha anche un lato oscuro, un narcisismo barocco che minaccia di schiacciarci tutti sotto la sua siliconica assenza di peso. La realtà viene assimilata dentro un'immagine, uno stile, l'ultima moda di una stagione, un certo design. Anche l'uniforme degli ufficiali o la mimetica dei guerriglieri sono state trasformate in un altro significante vacuo: tutti, da Gucci e Benetton, hanno flirtato con il camouflage, sciacquando via il sangue dalla sua funzione primaria e ripresentandolo come segno di chi vuol essere un po' meno ordinario degli altri. Persino per le gallerie d'arte è diventato di rigore sbandierare un nome e un motivo, dichiarando la propria posizione radicale con le parole, anziché coi fatti. Non è rimasto più niente di sacro al mondo, visto che il significato non viene agito, ma solo prescritto e proclamato. Le rivoluzioni si combattono con la Playstation o a colpi di battute e slogan, non le si interpreta. L'Anarchiste e Manifesto sono profumi e la "real thing", la verità è la Coca-Cola. Che Guevara è diventato il ragazzo-immagine per le angosce adolescenziali planetarie. Nell'età della "rivoluzione degli stilisti", la verità è il risultato delle ricerche di mercato e del mantenimento degli equilibri di mercato.
Ogni immagine può essere, ed è, manipolata dai media, riviste patinate o CNN che siano. Il montaggio e la voce fuori campo creano l'emozione che dà all'immagine il suo contenuto. È curioso, per esempio, che le file di albanesi in fuga dal Kosovo riprese dalla CNN fossero composte soprattutto da vecchi contadini, avvolti in stracci sporchi, mentre le immagini delle (stesse?) persone al loro rientro avessero per protagonisti dei ventenni vestiti alla moda, che ballavano al ritmo della techno per festeggiare la libertà che gli americani, guarda caso, avevano donato loro.
L'immagine che abbiamo di noi stessi è costruita dai linguaggi della moda e dai codici della condotta ammissibile. È dalla televisione che ormai impariamo i sistemi di valori e le lezioni morali, da un mondo fatto di classifiche e gratificazioni istantanee, dove le soap opera, le sitcom e i talkshow presentano i modelli di ruolo più significativi. Siamo a un passo dal dissolverci completamente in un'immagine, eppure gli stessi strumenti che sono stati usati per costruire questa finzione di realtà sono a nostra disposizione per invertire il processo. A Berlino, su un tabellone, la CNN ci invita a essere "I primi a saperlo", dato che la realtà non offre più conoscenza o esperienza paragonabili all'esperienza dello stesso fatto trasmessa dalla tv.

La colonizzazione del mondo, da Roma all'Avana, ha sempre usato il linguaggio come la propria arma più potente. Quando rubi le parole di bocca a qualcuno e le sostituisci con le tue, allora puoi controllarne i pensieri e persino manipolarne la realtà, perché ciò che non si può dire alla fine cessa di esistere. I primi cristiani ribattezzarono le divinità romane, allo stesso modo in cui gli spagnoli costruirono una cattedrale sopra a uno dei più sacri luoghi indigeni di Città del Messico. Essere nominati significa anche essere controllati, perché solo ciò che può essere nominato, può esistere.
È da questo processo, del nominare per controllare, che dipende ampiamente il nuovo mondo. Questo processo di consumo passivo e di conseguente ricodificazione della realtà si traduce in efflusso culturale, nello stesso modo in cui gli scarti del processo produttivo finiscono con l'inquinare le nostre risorse naturali. Così come la sopravvivenza del pianeta oggi dipende dal taglio delle emissioni nocive e dal riciclaggio dei rifiuti, dobbiamo riciclare e distillare anche tutta la spazzatura culturale con cui ci sommergono. Con un laptop, un modem, un cellulare e delle minime capacità tecniche, chiunque può hackerare, riciclare e ridistribuire la verità in tanti modi quante sono le verità stesse. L'implacabile battaglia legale senza precedenti condotta contro Napster negli Stati Uniti andrebbe letta come tentativo di impedire al consumatore di mutare la propria concezione e il proprio processo di consumo dalla passività più incosciente alla responsabilità attiva nei confronti di quello che ingurgita. Apple sta già cercando di depotenziare questa rivoluzione trasformandola in moda con la sua ultima campagna pubblicitaria, che invita a "rip, mix and burn". Gli stessi strumenti per remixare la realtà che servono da arsenali ai media, sono anche a disposizione del consumatore, che deve semplicemente forzare (crack) i codici che li proteggono, o scaricare da Internet quei codici già crackati da altri. I contenuti di un video in DVD, per esempio, sono protetti dalla duplicazione e dall'editing da un algoritmo molto complesso che si può facilmente "scassinare" con dei piccoli programmi illegali distribuiti gratuitamente in rete (DeCss).

Il progetto più radicale del secolo scorso è stata l'ascesa del DJ, che trasforma lo spazio pubblico in parco giochi privato. Anche quando la moda ha cercato di annullarne l'impulso sovversivo con la creazione d'innumerevoli cloni, ha generato solo generazioni successive di remixer militanti. Quando è al culmine dell'ispirazione, il DJ non è diverso dall'hacker, perché entrambi trasformano il loro modo di consumare, misurandosi direttamente con gli oggetti del proprio desiderio, per ridefinirli in base ai bisogni individuali e allo spazio culturale di ognuno. Lo spazio pubblico non è dominio esclusivo delle grandi corporation, che determinano a priori quello che consumeremo e come lo faremo. Il DJ e l'hacker radicalizzano il processo di consumo producendo da sé la propria merce, attraverso lo scanning, il sampling, il furto, il taglia-e-incolla e il phreaking per rieditare, remixare, ricodificare e ricaricare i prodotti nello spazio pubblico. La trasformazione procede dall'omogeneo all'eterogeneo, la sovversione dal generale allo specifico. L'enfasi si sposta dagli interessi globali al significato locale. Gli stessi strumenti che sostengono i media globali servono a creare un dialetto locale.
Il linguaggio scritto differisce dalla sua espressione verbale perché solo in quest'ultima si riconoscono accenti e dialetti. Il processo coloniale ha messo le parole in bocca ai suoi lontani sudditi usando il testo scritto, controllando quello che potevano dire, vedere e rivendicare. Le loro inflessioni e intonazioni imperfette li avrebbero resi per sempre schiavi delle regioni natie. Anche oggi, mentre cerco di dissolvermi tra le pieghe dell'identità, la mia lingua mi tradisce. Però, quando li si comprende per ciò che sono, accenti e dialetti possono diventare le armi di una resistenza che trasforma il consumatore passivo in uno consapevole. La lingua parlata non potrà mai essere assorbita nel mainstream, perché denoterà sempre il suo punto d'origine, ricorrerà sempre al banale, al luogo comune e alle politiche locali come misura di base per comprendere e giudicare tutto il resto: questa sua vulnerabilità non è comunque diversa da quella dei sistemi di valori dei network mediatici globali e degli imperi coloniali, che si sono basati sui propri assunti colloquiali per misurare la realtà e prescrivere la moralità. L'unica differenza sta nel fatto che il loro punto di riferimento è diventato sempre più ampio, a mano a mano che la loro immagine veniva teletrasmessa in tutto il globo.
Il linguaggio è un virus auto-replicante che può essere distrutto solo da un virus più forte. Passando attraverso il filtro del linguaggio parlato, la lingua viene stravolta e dimentica il suo ruolo nel raccogliere i nostri pensieri. La replica omogenea di ciò che viene dal "centro" in quanto norma e metro di giudizio, diventa possibile solo in virtù di un consumo passivo, della convinzione che "i locali" siano vittime o imbecilli incapaci di prendersi cura di sé. Per la dominazione inglese la crescita del nazionalismo celtico e la riscoperta delle lingue celtiche è altrettanto pericolosa di un'auto al tritolo o di un assassinio politico. Lo sanno tutti che, per la credibilità di un politico, un pettegolezzo diffuso negli ambienti giusti può essere fatale come un attentato: le parole sono pietre.

Il linguaggio parlato non dovrebbe riportare a un luogo geografico ma essere inteso come sensibilità, come margine, un'esperienza "grezza" non ancora mediata dai bisogni e dalle insicurezze delle classi dominanti. Si manifesta in forma di film dell'orrore, pornografia, battutacce e propaganda di serie b e, ovviamente, nei tanti bar Sport. Per tradizione, i margini della società erano occupati da magnaccia, ladri, prostitute, ubriaconi, mendicanti, bugiardi, gangster e artisti - pericolosi perché consapevoli di, e simpatizzanti con entrambi i lati della scala economica e sociale. Da quando gli artisti hanno abbandonato i margini per puntare verso il centro, hanno perso il proprio potere e la propria capacità di sovvertire sistemi e codici sociali. In arte c'è la tentazione di considerare l'uso del quotidiano e le citazioni massmediatiche da parte degli artisti pop come equivalente visivo di questo processo. L'innalzamento del quotidiano allo statuto di arte. La differenza sta nel fatto che ai DJ non importa lo status dei suoni che campionano, né il loro innalzamento: vogliono solo trasformarli in qualcosa di personale. Rubano ai ricchi e riciclano per i poveri senza alcun incentivo morale. Trascinano le industrie musicali per strada, costringono l'impero ad ascoltare la voce dei suoi schiavi. La loro non è la rivoluzione imbellettata dei video karaoke o l'offerta di cibi e massaggi esotici in nome dell'arte; sarebbe come distribuire agli homeless dei cartoncini con la scritta "solo su invito" per un'inaugurazione al MoMA, dove - sempre in nome dell'arte - si offrirebbero loro tartine al salmone e calici di champagne. L'equivalente potrebbe essere, invece dell'ennesima partita di calcio in galleria, far giocare il Liverpool e il Manchester United senza loghi e pubblicità sulle maglie. La lingua parlata è un virus che non si traduce bene nella "cultura alta", che resiste alla sua strategia di assimilare ogni minaccia banalizzandone le teorie e commercializzandone il dissenso. Armato di un arsenale di contraddizioni, eccessi, oscenità, sacrilegi ed egoismo, il parlato sarà sempre lo specchio delle torri d'avorio della cultura e dell'arte più sublimi. Ho lasciato il Sudafrica alla ricerca della libertà d'espressione, tentando di passare attraverso le sbarre della vittimizzazione sentimentale. Da allora cammino sul filo del rasoio, troppo "leggero" per l'Africa e troppo cupo per qualsiasi altro luogo. Mi porto appresso il mio modo di parlare e setaccio i canali televisivi alla ricerca dei suoi sintomi. L'unico posto al mondo in cui ho trovato la libertà è su Internet o all'interno del videodrome, un universo di bit e byte analogici e digitali pronti a lasciarci abusare di loro, almeno quanto a loro piace abusare di noi. La violenza con cui attacco l'immagine è una violenza che ho imparato nelle strade di Johannesburg, che è stata insegnata ai miei antenati dai missionari e dalle loro cacce alle streghe, una violenza che perseguita e definisce ogni immagine sanguinosa di un Cristo inchiodato alla croce. Sono universale perché sono cresciuto all'ombra di questa immagine e dell'ombra azzurrina della tv accesa su un canale morto. Adoriamo il crocefisso nello stesso modo in cui ci fermiamo a guardare la scena del crimine o un incidente mortale lungo la strada. Oggi Gesù non può salvarci perché ogni sera, guardando il telegiornale, vediamo più scene raccapriccianti e massacri di quelli descritti in tutto l'Antico Testamento. La religione, lo sport, la pornografia e i film dell'orrore hanno sempre colto quel dato momento in cui le parole non sono più sufficienti, quando tutto ciò che ci hanno insegnato o programmato per essere fallisce, e noi veniamo ridotti a suoni di disperazione, grida di estasi, fremiti di un orgasmo multiplo, l'ultimo soffio di vita. Cosa siamo quando le nostre voci si fanno mute come quelle di ogni altro animale, quando diventiamo l'ubriaco nel bar del paese, che canta a squarciagola con una voce che capisce solo lui, ma non si ricorda mai? Io mi sono nascosto in questi suoni, le grida di un paese emerso da una rivoluzione seguita dalla disperazione e dal caos. Come artista che vive nella saturazione post-apartheid, post-comunista e post-teorica del postmoderno, preferisco non vivere da nessuna parte ed essere nazionalista solo per ciò che non può essere descritto, pronunciato e controllato dalla mia lingua: il momento in cui il digitale si dissolve in feedback analogico, la scossa colloquiale dell'imperfezione. La mia lingua può mentire e quindi non mi fiderò mai di lei come mi fido del mio cuore, delle sue emozioni di amore, odio, rabbia, paura, desiderio, dolore e colpa.