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Critica istituzionale come memoria alternativa: alcuni approcci attuali al museo
Brian Wallis
I musei sono dei luoghi culturali chiave dove oggi costruiamo i nostri comuni racconti, dove narriamo "storie" sulla storia e la nazione, dove ordinatamente separiamo i materialistici facts di oggetti dalle estetiche fictions di arte. Ma ogni esposizione in un museo solleva la questione di quale storia sia stata raccontata e a quali interessi sia asservita. Persino L'ultima cena di Leonardo, che incarna la nozione convenzionale di opera d'arte come capolavoro, è un'immagine ideologicamente codificata, posta in una certa architettura spaziale- adesso il museo - per presentare certi persuasivi argomenti riguardanti religione, genere sessuale, storia, classe e persino usi rituali del cibo.
Le complicate strategie di identificazione culturale e di discorso digressivo che si verifica nei musei sono centrali per dare forma all'attuale nozione di "pubblico". Agendo in nome della comunità, o della gente, o della nazione, tali esposizioni pubbliche - di opere d'arte, manufatti storici, o trofei culturali - sono sia mezzi vocali per l'espressione di valori comuni, che importanti forze nel confermare e favorire quei giudizi. Come risultato, una gran parte degli artisti e teorici contemporanei, negli ultimi dieci anni, hanno cercato anche di intervenire in queste strutture museali contestando le loro sottostanti presunzioni socioeconomiche e producendo un tipo di slittamento che punta all'ambiguità del tipo di verità "scientifica" alla quale aspirano i musei. Trattando con materiali storici, i musei spesso cercano di normalizzare certe idee, costruendo punti di vista che sono molto discutibili, ma sembrano veri. Un modo in cui lo realizzano è costruendo un modo di ordinare (stile, cronologia, selettività) basato sulla classe e non danno credito a certe narrazioni o iconografie che mettono in dubbio lo stesso ordine.
Alle scuole superiori un mio professore raccontava sempre una storia, che giurava fosse vera, a proposito dello storico d'arte Erwin Panofsky e dell'iconografia, "quel ramo della storia dell'arte che si rivolge a se stessa come oggetto o significato dell'opera d'arte, come opposto alla forma"1. Sembra che Panofsky fosse stato invitato a fare una conferenza nel più grande museo del nord est (credo il Wadsworth Athenaeum) e il curatore, parlando con l'iconografo, disse: "Penso che sarà contento di vedere il nostro capolavoro di Piero di Cosimo, su cui ha scritto in modo molto acuto". E Panofsky rispose, con una faccia impassibile secondo il mio professore, "Perché dovrei vedere il dipinto, ho ricevuto proprio qui una sua fotografia".
In classe questa era diventata una specie di parabola dei pericoli del metodo iconografico, e della follia di ignorare il reale lavoro dell'arte in favore di metodologie scritte che cercano di separare l'immagine dall'oggetto. Ma l'aneddoto mi sembrava gettare sempre una luce negativa sull'arcaico oggetto su cui si base il lavoro del museo. Nella mia lettura era il curatore che era realmente il centro del gioco, dal momento che era troppo legato all'oggetto d'arte per vedere il suo reale significato ed era, apparentemente, insufficientemente coinvolto nella teoria contemporanea. Perciò, questa era un'allegoria della mancanza della museo - una mancanza di iconografia.
Così succede che, al tempo di Panofsky, molti curatori di museo fossero orgogliosi di nascondere proprio il tipo di argomentazione e interpretazione che l'iconografia cerca di analizzare. Fino a poco tempo fa, infatti, la maggior parte dei musei insistevano su un approccio, indubbiamente neutrale, persino "scientifico", allo studio, conoscenza, classificazione e conservazione di manufatti, non importa quanto potessero essere arbitrarie le loro tecniche per collezionare. Per esempio Alfredo H. Barr, Jr., direttore del Museum of Modern Art negli anni Trenta e Quaranta, affermava orgogliosamente che i lavori nel suo museo dimostravano "una eliminazione di una larga serie di valori come le connotazioni di argomento sentimentale, documentario, politico, sessuale, religioso"2. Malgrado il fatto che Barr parlasse principalmente di arte astratta, l'asserzione che qualsiasi arte o qualsiasi museo potessero sopprimere l'argomentazione e le connotazioni politiche o sessuali dimostra la posizione fondamentalmente ideologica - mascherando una ricca e complicata iconografia di potere sessuale e politico - adottata dalla maggior parte dei musei.
I nuovi storici dell'arte hanno dimostrato come, nel caso del Museum of Modern Art di Barr, questa deformazione di contenuto non solo oscura ogni possibile lettura iconografica dell'arte astratta, ma serve a inculcare nell'osservatore una più vasta falsa apparenza di cultura non ideologica (quella che gli storici dell'arte Carol Duncan ed Alan Wallach hanno chiamato un "rituale tardo capitalista"3). Questa è la posizione che un artista come Hans Haacke mira a decostruire. Nel suo lavoro Seurat's Les Poseuses (Small Version), 1888-1975 Fig. 1-2, per esempio, Haacke mostra semplicemente la storia dei passaggi di proprietà del piccolo dipinto. Esporre le affiliazioni socioeconomiche dei suoi proprietari e notando come il valore attuale è stato aggiunto al lavoro (quello che una volta era un dono acquisiva, nell'ultima vendita, un valore al di sopra del milione di dollari), Haacke mostra che sia l'estetica che la storia dell'arte sono costruite da particolari prospettive di classe, e, a turno, queste dissertazioni ricompensano e rinforzano gli interessi di quelle classi.
Storicamente, i musei sono spesso serviti a promuovere la culturale dominante nello sviluppo della sfera pubblica o come un modo per replicare i meccanismi di quella dominazione nelle comunità locali. I musei non soltanto collezionano o riflettono forme culturali, essi le producono e le riproducono attivamente. È nell'interesse generale dei musei, quindi, negare iconografie o differenze e subordinazioni sociali-basate su classe, genere sessuale, "razza", religione o nazionalità - al fine di mantenere la fiction di condividere opinioni, che è soltanto un altro modo di definire l'ideologia stessa. Come ha affermato l'antropologo Clifford Geertz: "Le ideologie sono importanti nel definire (o oscurare) categorie sociali; stabilizzare (o sconvolgere) aspettative sociali; mantenere (o minare) norme sociali; fortificare (o indebolire) il consenso sociale; e mitigare (o inasprire) tensioni sociali"4.
Questo è proprio il modo in cui i Musei funzionano come testi culturali, collezioni specializzate di oggetti assemblati dentro resoconti romanzeschi che offrono determinate letture interpretative. Le storie che i musei raccontano non sono generalmente espresse attraverso il linguaggio aperto dei cataloghi e dei testi scritti sulle pareti, ma attraverso l'elaborato processo di selezione e giustapposizione di oggetti, in particolare con le cose che non sono dette, né mostrate, o che non sono ricordate. Malgrado la missione fortemente propagandistica, i musei generalmente cercano di presentare le loro narrazioni come prive di fratture, come naturali ed elevate. Negli ultimi anni, comunque, molti storici e curatori di museo hanno cambiato questa situazione. Improvvisamente, le mostre narrative stanno diventando più soggettive e le domande che i curatori pongono stanno diventando più esplicite. Questo cambiamento evidente nel modo in cui funzionano i musei ed è codificata la conoscenza storica- quello che potrebbe essere chiamato il ritorno all'iconografia - riflette un più ampio approccio critico alla cultura provocato dal femminismo, dal multiculturalismo e dagli studi postcoloniali.
Usando queste prospettive e metodologie nuove, i vecchi oggetti sono stati interpretati in modi nuovi. E alle storie che prima erano seppellite o ignorate viene ora data una attenzione particolare in musei specializzati, come l'Holocaust Museum a Washington, D.C., il Museum of American Indian a New York, e il Museum of African American History a Detroit. Ma in più, spesso questi musei, deliberatamente, presentano delle letture polemiche di oggetti dirette a specifici settore del pubblico, spesso gruppi culturali distinti, come i neri o i nativi americani. Come faceva notare un recente articolo del New York Times: "Le mostre attuali hanno un marchio di partenza distante dalle presentazioni distaccate dei musei negli scorsi due secoli. Il museo è diventato un forum, non un tempio. E ci si aspetta delle comunicazioni politiche"5.
E ci si aspetta anche le obiezioni, provenienti principalmente da politici e giornalisti conservatori. Nella Republican National Convention del 1992, il candidato presidenziale dell'estrema destra Patrick Buchanan ha chiaramente spiegato ciò che già allora era evidente di per sé: che l'America era nel mezzo di quella che egli chiamava: "Una guerra religiosa e culturale per l'anima americana". Le cosiddette guerre culturali, che da allora hanno corroso le politiche culturali americane, si sono concentrate in larga parte sugli sforzi di limitare la capacità dei musei di aggirare le catene dell'estetico, presentando lavori critici che potessero cambiare i prevalenti valori sociali o reinterpretare il mitico passato americano. Entrambi i notissimi casi che hanno dettato l'attuale dibattito culturale- quelli dei fotografi Robert Mapplethorpe e Andres Serrano -riguardavano mostre proposte da musei. E i loro critici hanno cercato di accusare i musei di aver esposto "bambini coinvolti in scene pornografiche" o "immagini blasfeme". Ultimamente un museo ha cancellato dal suo programma un'esposizione di Mapplethorpe e un altro è stato portato in tribunale per non averlo fatto.
Più recentemente, nel 1995, alcuni politici conservatori, insieme a un gruppo di veterani della Seconda Guerra Mondiale, hanno protestato contro una mostra dello Smithsonian Institution sul bombardamento di Hiroshima. Protestavano perché la mostra metteva troppa enfasi nel proporre la prospettiva giapponese degli eventi, e che nel fare ciò i curatori sottostimassero le vittime che ci sarebbero state tra gli Alleati nel caso che la bomba non fosse stata usata. Nel 1996, la rispettata curatrice della mostra Gaelic New York, realizzata dal Museum of the City of New York, è stata licenziata perché non ha accettato l'imposizione di esporre stereotipati dipinti di irlandesi americani. E più tardi, quell'anno, come parte della strategia per le elezioni, Newt Gingrich, portavoce della Casa Bianca, ha protestato contro una mostra del Phoenix Art chiamata Old Glory perché esponeva opere che usavano - o, con le sue parole, "profanavano" - la bandiera americana.
Questa nuova fase della guerra culturale dimostra che veramente c'è una battaglia politica sulla strada che sanziona nazionalmente gli obiettivi controllati dalle istituzioni pubbliche. Rispecchiando i precedenti attacchi sulle esposizioni d'arte "indecenti", sui curriculum universitari e la correttezza politica, i provvedimenti repressivi che colpiscono i musei sono un tentativo di stabilire quale sia ritenuto un giusto discorso pubblico, o almeno limitare le possibili divisioni che creano storie separate. Nel caso dei musei - d'arte, scienza, storia - il dibattito non riguarda le basi di lavoro o gli aspetti economici ma primariamente il modo in cui queste istituzioni perpetuano o ridimensionano certe iconografie moderniste. E, come altri dibattiti accademici, il conflitto intorno ai musei espone, più che le pratiche istituzionali, ansie politiche nascoste e profonde che riguardano come la cultura americana è o dovrebbe essere rappresentata, vale a dire, come la cultura è esposta, da chi, per chi, ed in quale modo?
Nei due decenni passati, gli artisti contemporanei hanno direttamente influenzato il cambiamento di atteggiamento verso come queste "realtà" sono costruite, attraverso lo sviluppo di un modello teorico per una critica delle pratiche del museo e un disegno di attenzione ai modelli simbolici e alle lacuna nelle narrazioni museali. La genealogia di quella che è stata chiamata "critica istituzionale" può essere tracciato attraverso tre momenti. Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, artisti concettuali come Hans Haacke, Marcel Broodthaers, Michael Asher e Daniel Buren hanno cercato di mostrare la finzione delle narrazioni del museo e degli investimenti ideologici dei loro mecenati. Una seconda generazione di artisti postmoderni (tra cui Barbara Kruger, Louise Lawler, Sherrie Levine, Barbara Bloom e il collettivo Group Material) ha esaminato il linguaggio della rappresentazione - il valore dato all'originalità, il valore di verità della fotografia, l'autorità del discorso assertivo, la persuasività dell'ostentazione spettacolare - come opera per strutturare stereotipi di sesso e classe, all'interno del mondo dell'arte come nella vita quotidiana.
Infine, c'è un terzo gruppo di artisti contemporanei (fra loro, Renée Green, Mark Dion, Fred Wilson, Andrea Fraser, e altri) che spesso hanno lavorato in istituzioni culturali, servendo o imitando curatori, docenti o educatori. Attraverso questi interventi hanno cercato di esaminare le ramificazioni culturali di pratiche espositive e come si estendono a campi (come la storia naturale, l'ecologia, gli studi della diaspora) al di fuori del mondo dell'arte. I loro approcci critici alla storia e alle pratiche degli stessi musei hanno anche certificato una crescente sensibilità ai travisamenti o alla mancanza di rappresentatività delle culture non dominanti nella maggior parte dei musei; un'attenzione più grande al contesto storico e culturale; e una ridiscussione del significato di una larga serie di manufatti della material culture.
Tali interrogazioni, spesso nella forma di installazioni site-specific, costituiscono una sorta di memoria alternativa, una pratica che pone insistentemente domande ai modi dominanti di costruire il passato, mentre, allo stesso tempo, cerca di recuperare le storie e i significati sommersi. E oggi voglio discutere questo approccio. Primo, affronterò due esempi piuttosto diversi ma centrali di artisti contemporanei che hanno usato questa forma di critica istituzionale: Fred Wilson ed Andrea Fraser. Il loro lavoro è partito da questo discorso altamente politicizzato sul museo, da un contesto dell'arte molto provinciale a un campo culturale più largo nel quale possiamo osservare modelli storici di patronato, spettatori, antropologia, colonialismo. Quindi, voglio brevemente dare un'occhiata a due esposizioni museali - una di pubblicazioni underground, l'altro di beni della classe operaia - che propongono delle strategie parallele di recupero del materiale e di provocazione teorica.
Forse l'esempio più eloquente di un artista che lavora all'interno di un contesto museale è la mostra del 1992 di Fred Wilson alla Maryland Historical Society chiamata "Mining the Museum"6 Fig. 3. A Wilson, le cui origini sono afroamericane e Native American, è stata commissionata da Contemporary, uno spazio alternativo di Baltimora, di investigare e interpretare le collezioni della Historical Society. L'artista ha trovato che il museo aveva quasi completamente cancellato la storia culturale dei suoi antenati in Maryland. Il museo non aveva perso le rappresentazioni di afroamericani o Native American, o gli oggetti realizzati o di loro proprietà, ma li aveva soltanto relegati nei depositi ed erano assenti nei racconti fatti dal museo della storia che tendeva a focalizzare la sua attenzione sulle proprietà terriere del paese, sulla caccia all'anatra e sui contributi del Maryland alla Guerra Civile. Cercando dentro i magazzini del museo, Wilson ha trovato oggetti che non solo rendevano chiaro il suo passato ma che suggerivano perché e come era stato occultato.
Portando questi oggetti (spesso non eccezionali) alla luce e semplicemente alterandone il loro contesto - portandoli letteralmente dai magazzini allo spazio espositivo - Wilson è stato capace di costruire letture fresche e nuove iconografie. Una mostra di ritratti focalizzata nella presenza di servitori neri nascosti nello sfondo, busti classici di eroi americani bianchi sono stati giustapposti con piedistalli vuoti per l'assenza di una controparte nera, un vestito di un bambino del Ku Klux Klan era messo all'interno di una ricca carrozzina. In una mostra intitolata semplicemente "Metalwork, 1793-1880" Fig. 4, Wilson ha messo insieme un ricco servizio d'argento per la tavola del tardo diciannovesimo secolo con delle antiche catene da schiavo. Tali unioni inaspettate all'interno dei confini delle categorie generiche proprie del museo ha generato contrasti ed opposizioni e in cambio ha offerto dei significati ideologicamente ricchi sul trascurare oggetti e seppellire intenzionalmente storie. Ignorando la storia grande ed eroica e concentrandosi sul multiforme e il banale, il dimenticato e il quotidiano, Wilson ha potuto aiutare gli altri a pensare criticamente sulla costruzione della storia e sulla relazione che essa ha con i significati collettivi quotidiani.
La seconda artista di cui voglio parlare è Andrea Fraser Fig. 5-6, che è forse più conosciuta per le sue performance come guida di museo o turistica al Metropolitan Museum, al Philadelphia Museum e al New Museum of Contemporary Art. In questi tour la Fraser replica perfettamente lo stile e il modo delle guide, ma invece di concentrarsi sulle opere d'arte, dirige l'attenzione sulle cornici istituzionali. Lei guarda a cose che sono trascurate, come indicazioni, luci, impianti tecnici, bagni e altri servizi di supporto che si suppone siano invisibili. Come Wilson, la Fraser focalizza la propria attenzione su storie che non sono state raccontate nei musei e nei modi in cui questi silenzi supportano l'iconografia che il museo sviluppa.
Nel 1992, la Fraser ha organizzato un'esposizione all'University Art Museum a Berkeley, California. In una situazione piuttosto simile a quella di Wilson a Baltimora, era stata invitata dal museo a vedere le collezioni e gli archivi per sviluppare un progetto basato su quelle risorse. Quello che l'ha interessata di più nella collezione era la storia di un singolo donatore, una donna chiamata Thérèse Bonney, laureatasi a Berkeley nel 1916, e che, nel 1984, ha fatto una grande donazione al museo. La donazione Bonney comprendeva dei dipinti francesi "minori" della Scuola di Parigi (incluso molti lavori della sua intima amica Jean Dufy), tappeti, mobili Art Deco, beni familiari, e un Renoir.
Come la Fraser ha dimostrato accuratamente in lettere e documenti dissotterrati dall'archivio, Bonney ha lasciato in eredità l'intero contenuto del suo appartamento di Parigi, sperando che la collezione potesse essere conservata intatta ed esposta come era nella sua casa. Ma, dopo aver accettato la donazione, il museo ha stabilito una gerarchia di valore: oltre ai cinquantacinque oggetti che il museo ha scelto di aggiungere alla sua raccolta, c'erano cento oggetti che il museo ha relegato nella sua collezione da studio. Le cose relegate nella collezione da studio erano monete e medaglie, ricordi turistici, occhiali, oggetti di vetro e piatti, fotografie della Bonney e dei suoi amici, e anonimi mobili della famiglia. Attraverso questa operazione di selezione, i curatori del museo hanno scelto di non seguire la logica di salvaguardia dell'ambiente domestico della Bonney, mettendo l'arte nel museo e relegando gli altri oggetti nei magazzini.
Come la Fraser ha notato: "Una delle operazioni principali del museo d'arte è la trasformazione di ciò che è essenzialmente una cultura borghese domestica in una legittimata cultura pubblica. Quella trasformazione è realizzata fondamentalmente attraverso l'astrazione degli oggetti d'arte dalla loro ubicazione sociale, primariamente attraverso il loro spostamento da una casa in un museo e, in secondo luogo, dall'introduzione di criteri e sistemi di classificazione per mezzo dei quali certi oggetti di un determinato interesse sono separati dagli altri che costituiscono il loro intero contesto culturale7. Il progetto della Fraser - di riunire le due metà di questo ambiente una volta coerente- fa sorgere delle domande chiave su ciò che costituisce una collezione, personale o pubblica, e, in un senso più largo, ciò che è "cultura" e come la definisce il museo.
Una delle principali lezioni di questo tipo di esposizioni riguarda la falsa divisione tra arte alta e material culture. Per combinare una metodologia curatoriale critica con una pratica di intervento artistico, Wilson era capace di fare una sofisticata discussione politica attraverso un giudizioso allestimento di alcuni semplici oggetti simbolici. Parte del motivo per cui le esposizioni recenti nei musei sono diventate così capaci di infiammare il dibattito è perché proprio tale redefinizione di material culture ha permesso la riconsiderazione di comunità subalterne, molte delle quali ignorate o consapevolmente rifiutate dalle tradizionali forme europee di arte. Concetti nuovi di material culture hanno anche eliminato le vecchie distinzioni tra cultura alta e arte folk o tra arte alta e cultura popolare, in parte attraverso specifici tracciati iconografici che attraversano una larga serie di mezzi e forme.
La material culture può essere definita come un'investigazione che usa oggetti (insieme con documenti attinenti, statistiche e informazioni orali) per esplorare problemi culturali sia in certe discipline (come la storia dell'arte), sia in certi campi di ricerca (come la storia della visione). Ma penso che possiamo definire la material culture persino in modo più largo, includendo ogni tipo di oggetti che organizzano le credenze e le pratiche condivise da una particolare comunità. Essa coinvolge oggetti dall'aspetto originale (dipinti, fotografie, abiti, sedie), così come campioni di oggetti fatti, mostrati e interpretati. Questa nozione allargata- influenzata da teoria e da pratiche artistiche critiche - abbraccia concetti locali e idee di massa; forme culturali d'élite che sono state popolarizzate, prodotti di massa che sono stati adattati e forme popolari che sono state elevate al museo.
Rispondere alle nuove metodologie di artisti e storici sociali non è stato un processo semplice. Spesso i professionisti che lavorano nei musei trovano che le loro raccolte non contengano gli oggetti per raccontare storie alternative. Molti oggetti provengono da famiglie alto borghesi perché erano quelle che avevano il tempo, lo spazio, i soldi e lo stimolo sociale per collezionare. In più, i precedenti curatori - come quelli alla Maryland Historical Society o al Berkeley Museum - sostenevano delle convenzioni indiscutibilmente non obiettive che escludevano oggetti "bassi" o "non-estetici". Questa mancanza di oggetti pertinenti ha forzato i curatori a riconsiderare i loro criteri di accettazione e rifiuto di oggetti e cercare una prospettiva più larga di material culture proveniente da una più larga gamma di comunità.
L'idea di riconoscere la storia e la cultura delle varie comunità di "minoranza" suggerisce anche il recupero di un relativamente non riconosciuto ordine di oggetti. Nell'esposizione "Counterculture" Fig. 7-8, che ho organizzato a New York nel 1996 nello spazio alternativo Exit Art, lo scopo era tracciare la storia completa e mostrare, dal 1968 in poi, la varietà delle pratiche dei media underground negli Stati Uniti. Alimentato dallo scetticismo, questo movimento culturale americano critico - che si estende dalla stampa underground dagli anni Sessanta fino alle odierne battaglie nel territorio del cyberspace - ha cercato di perpetuare la speranza di un canale di informazione basato sul cittadino. E nel processo, attivisti culturali - quello che Umberto Eco chiama "la guerriglia semiologica" - hanno forzato l'intera serie di stili visivi radicali così come le strategie per produrre un sistema alternativo d'informazione rompendo, parodiando, interferendo, fendendo, tagliando, impossessandosi, e ricreando i tradizionali media.
Seguendo le orme delle manifestazioni e pubblicazioni politiche anarchiche di Berlin Dada e l'incisiva critica culturale del Situazionismo francese, queste pratiche americane di controcultura hanno continuato una pratica di intervento underground del ventesimo secolo. "Counterculture" ha isolato i contributi di nove differenti gruppi: la stampa radicale underground degli anni Sessanta (dalla satira politica di The Realist allo psichedelico San Francisco Oracle fino alle militanti White Panthers); l'ufficio informazioni delle Black Panthers (compreso il loro sovversivo FBI's COINTELPRO); il teatro di strada Yippie; l'utopia ecologica (Whole Earth) e monkeywrenching (Earth First!); le politiche sessuali spinte dal Women's Movement (comprese le prime pubblicazioni gay e lesbiche); il montaggio fai da te delle fanzine punk (da King Mob a Processed World); i gruppi di collaborazione artistica impegnati in problemi politici (come Art Workers Coalition, Fluxus, PADD); i gruppi attivisti legati ai problemi dell'AIDS (come Act Up e Gran Fury); e i lavori in rete di informazione e disturbo degli hacker. In realtà "Counterculture" cercava di recuperare una storia culturale della sinistra americana largamente ignorata.
In termini di un discorso museologico, uno degli scopi di questa esposizione era di mettere in primo piano un tipo di material culture che i musei raramente raccolgono, che le biblioteche raramente mostrano e di cui perfino gli individui si stancano presto. Generalmente classificata come cultura popolare o effimera, questo materiale è apparentemente troppo onnipresente e troppo legato a problemi temporanei per garantirsi la conservazione. Tali immediate gratificazioni sembrano violare l'aura di atemporalità ed universalità che la maggior parte dei musei cercano di creare.
Ad un livello iconografico un altro degli scopi dell'esposizione era mostrare l'efficacia dei disegni del design estetico nel forgiare uno stile grafico politico. In molti casi il desiderio di diffondere informazioni alternative a un largo pubblico popolare ha richiesto nuove soluzioni, variando di medium (stampe offset a basso costo, fotocopie, website) e di stile (stampa a cinque colori, vignette ben marcate, caratteri stilizzati). In ciascun evento, la forma grafica di "cultura bassa", ora spesso messa via in soffitte o sotto i letti di anziani attivisti, costituisce un capitolo sconosciuto nella cronaca ufficiale della cultura americana.
L'esempio finale che mi piacerebbe citare è una mostra chiamata "Goin' North" Fig. 9-10 che è stata presentata al Rochester Museum and Science Center nel luglio 1991. Questa consisteva nell'esposizione delle cose possedute da una persona, Alice Mathis, una mezzadra afroamericana, nel corso di tutta la vita. Appena prima della sua morte nel 1990, la signora Mathis è stata intervistata per la collezione di storia orale del museo. Quando il museo stava cominciando una raccolta che si sarebbe incentrata sulla material culture e la vita quotidiana a Rochester, lei intestò a loro tutto ciò che possedeva, un insieme di cose che riempiva due vecchi bauli. La mostra del contenuto di quei due bauli - vestiti, piumoni, attrezzi, parrucche, mollette per capelli, ecc. - fornivano una finestra sulla vita dei lavoratori agrari migranti attraverso gli oggetti che possedeva una di loro e attraverso il riposizionamento all'interno del museo di oggetti che non vengono mostrati spesso in quegli spazi.
Un museo d'arte avrebbe potuto separare, per ragioni estetiche, i numerosi piumoni della signora Mathis, che sono esempi straordinari delle astratte qualità di sarta afroamericana. Ma è significativo che il Rochester Museum ha scelto di mostrare quei piumoni nel contesto della vita della signora Mathis perché i piumoni potessero far parte di un più grande modello di attenta cura, intenzionale confronto, e prudente riciclaggio. Le riparazioni di un comune secchio mostrano gli stessi sforzi di un'accurata conservazione; un collage di tessuto di flanella con toppe cucite nella parte interna di una giacca mostrano una orgogliosa combinazione di pezzi; e un piumone fatto interamente di pezzi di jeans consumati mostra un saggio riuso di materiali trovati. Questi oggetti, quindi, incarnano certi atteggiamenti culturali specifici di stile, parsimonia, cucito e di un lavoro che spesso è stato oscurato dalle tendenze di universalizzazione della maggior parte dei racconti del museo.
Riassumendo questa mostra, il curatore, Victoria Schmitt, mi ha scritto: "Abbiamo due obiettivi: il primo era mettere a fuoco le recenti influenze culturali che provengono dalla migrazione dal sud di un considerevole numero di contadini afroamericani a partire dal 1950. L'altro era sottolineare l'importanza di oggetti che documentino e presentino la vita nella nostra comunità - anche la vita quotidiana - e registrare la testimonianza dello spirito umano che quegli oggetti possono dare, senza curarsi se il proprietario sia un componente importante o meno della comunità8.
Un tale riassunto sembrerebbe essere, in apparenza, inattaccabile. Ma parte del motivo per cui le storiche esposizioni che ho menzionato all'inizio sono diventate così importanti in anni recenti è a proprio per tale redefinizione di material culture e del ruolo proprio dei musei. Questo revisionismo ha permesso la riconsiderazione di comunità subalterne, molte delle quali non hanno usato o hanno rifiutato le tradizionali forme europee di arte, che è la principale forma di cultura celebrata nei musei americani. In secondo luogo, concetti di material culture hanno tagliato le vecchie distinzioni tra arte alta ed arte folk o tra arte alta e cultura popolare.
E anche se trattare con il comune e il quotidiano non è necessariamente più democratico, spesso offre significati risonanti a una serie più larga di visitatori. Finalmente, questo "ritorno al reale" non solo riconosce il potere dell'ordinario e del banale ma respinge anche le distinzioni, spesso arbitrarie ed ideologiche, tra tipi di manufatti. Invece, questo approccio pone domande critiche sul ruolo di tali oggetti nel nostro sociale, politico e nelle nostre interazioni personali quotidiane9. In tali contesti l'iconografia non è un problema di bisogno di una critica, ma è "un luogo dove ideologia e la sua resistenza sono vissuti apertamente in tutta la loro caotica contingenza"10.
Avvicinandosi alla fine di un secolo, che i musei come il Whitney Museum of American Art stanno chiamando "il secolo americano", è importante che i musei esaminino non soltanto i loro soggetti putativi ma anche le loro proprie deviazioni ideologiche. Questo vuole dire che curatori e artisti devono ripensare metodologie e iconografie per ciò che esse definiscono le costruzioni di "razza", sesso, classe e nazione. E per far questo, non sono sufficienti la teoria critica o l'astratta teorizzazione; dobbiamo riesaminare gli oggetti culturali e le pratiche sociali o collezionarli e organizzarle per capire i modelli di vita quotidiana che formano il passato e modellano il futuro.
1 Erwin Panofsky, "Iconography ed Iconology: An Introduction to the Study of Renaissance Art", in Meaning in the Visual Arts (Garden City, N.Y.: Doubleday& Co., 1955), p. 26.
2 Alfred H. Barr, Jr., "Cubism and Abstract Painting: An Introduction"[ 1936], in Defining Modern Art: Selected Writings of Alfred H. Barr, Jr., a cura di Irving Sandler and Amy Newman (New York: Harry N. Abrams, 1986), p. 86.
3 Vedi Carol Duncan ed Alan Wallach, "The Museum of Modern Art as Late Capitalist Ritual", in Marxist Perspectives 1, n. 4 (1978): pp. 28-51. Come loro e altri critici hanno mostrato, il museo d'arte americano del Dopoguerra è strutturato ed aiuta a costruire versioni specifiche di storia culturale che è complicato da una schiera di motivi ed effetti: la promozione della cultura alta negli Stati Uniti, l'appropriazione degli standard estetici dei bianchi europei, la costruzione di un'equivalenza tra libertà artistica e democrazia politica e la soppressione di un contenuto specificatamente politico.
4 Clifford Geertz, "Ideology as a Cultural System", in The Interpretation of Culture (New York: Basic Books, 1973), p. 203.
5 Edward Rothstein, "Museums That Tell What to Think", New York Times, 20 aprile 1997, sezione 4, p. 3. Un altro recente articolo, un editoriale non firmato del New York Post, affermava: "L'iconografia contemporanea, se ne può essere certi, è abbastanza complicata; gli americani hanno acquisito una moltitudine di sensibilità in ritardo, e sono pieni di gente ansiosa di rifare la storia in modo che rifletta il loro proprio particolare punto di vista del mondo - non importa quanto la verità deve essere duramente lacerata per raggiungere l'effetto desiderato". Vedi: "Politically Incorrect FDR" New York Post, 25 aprile 1997, p. 26.
6 Su questa esposizione vedi Lisa Corrin, "Mining the Museum" (New York: New Press, 1993).
7 Andrea Fraser, "Aren't They Lovely", depliant dell'esposizione (Berkeley: University Art Museum, 1992), s.e.
8 Victoria Schmitt, lettera all'autore, 26 novembre 1991.
9 Lo storico dell'arte Hal Foster ha recentemente assegnato a queste investigazioni artistiche di oggetti culturali e pratiche sociali come parte di più vasto "ritorno al reale". Attraverso il "reale" che vuole dire corpi attuali e luoghi sociali come contrari ai modelli testuali o simulazioni di teoria postmoderna. Generalmente, l'iconografia può essere considerata come una metodologia testuale e, perciò, antiquata. Ma, per ritornare agli oggetti storici e prendendo ciò che Forster chiama un "approccio etnografico" alla cultura, recenti artisti critici hanno dato un nuovo significato e un potere politico alla pratica.
10 John Roberts, "Mad For It! " Third Text, n. 35 (estate 96), p. 30.