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Questo è la prima volta che ho l'opportunità di presentare il mio lavoro in Italia e sono molto felice di questo.
Quello che ho pensato potesse avere più senso, è presentare il materiale documentativo di una serie di differenti progetti che ho realizzato negli ultimi cinque anni. Progetti che ho realizzato specificatamente sulla linea che divide facts and fiction. Penso che lavorare nella performance art mi ha dato la possibilità di manipolare questi concetti su una sottilissima linea in alcuni modi molto interessanti, questa è la ragione più grande che mi ha fatto continuare a lavorare con questo medium. Parte del processo di creazione del lavoro per me è qualche cosa che chiamo "reverse ethnography" (capovolgimento etnografico), nel quale studio la risposta del pubblico. Così due degli estratti che presenterò provengono da studi che ho realizzato sulla risposta del pubblico al mio lavoro. L'altra parte del processo, prima o durante la performance, è creare un campo di intervento o una ricerca d'archivio per sviluppare un pezzo. Un altro importate elemento proviene dal campo di lavoro dove metto i "facts" prima di trasformarli in "fiction".
Ho esplorato l'identità nel mio lavoro come una performance artist, scrittrice e curatrice per più di un decennio. Dal 1990 il mio interesse formale si è riferito alle dinamiche performative di un'azione interculturale, che è come dire quanto il nostro senso di se stessi è prodotto attraverso scambi interpersonali e quanto il discorso di consumismo, turismo, mezzi di comunicazione di massa e la tecnologia colpiscono la nostra percezione degli altri. Mi sono rivolta alla performance dopo che era cresciuta la mia frustrazione nei confronti dell'inadeguatezza del cosiddetto "discorso razionale" che aveva a che fare con un problema così irrazionale come il razzismo. Ho iniziato a sviluppare un progetto d'arte interdisciplinare sulle dinamiche della relazione Nord-Sud nel 1989.
Norte: Sur del 1990 è stata una collaborazione con Guillermo Gómez-Peña. Era un esame della "americanizzazione" dell'America Latina e della "latinizzazione" degli Stati Uniti. Esploravamo la cultura popolare e il turismo. Nel 1991 abbiamo cominciato una serie di progetti sul cinquecentesimo anniversario della cosiddetta "scoperta" dell'America. Uno dei progetti erano un lavoro che ho fatto da sola e che ho chiamato La Chavela Realty Company nella quale apparivo nell'atrio della Brooklyn Academy of Music come il fantasma della Regina Isabella la Cattolica, vendendo la terra americana a chiunque avesse un dollaro. Come parte di un progetto in corso, Guillermo Gómez-Peña ed io abbiamo sviluppato una serie di personaggi e uno dei miei era chiamato La Cabrona Anacaona. Era l'ultimo governatore indigeno di quella che ora è chiamata la Repubblica Domenicana, e probabilmente ha reso molto difficile il soggiorno di Cristoforo Colombo. La maschera che indossavo non è veramente della Repubblica Domenicana ma viene dal Messico. È una maschera usata per la danza "El Baile de la Conquista" che combina i temi della conquista politica e sessuale.
Dal 1992 al 1994 abbiamo eseguito Two Undiscovered Amerindians Visit the West (Due indiani d'America non scoperti visitano l'ovest), abbiamo usato il Cinquecentenario come un trampolino per esplorare come la nozione di primitivo derivi dall'etnografia e si è diffusa dentro la nozione popolare occidentale di "altro". E per questa performance abbiamo fatto un'enorme mole di ricerca nelle mostre etnografiche, nelle quali persone dall'Africa, Asia e indigeni americani erano messi in mostra nei saloni aristocratici, nei musei, nei laboratori e anche, come stranezze esotiche, in luoghi pubblici, in parchi e piazze. Ho scritto un saggio dal titolo: The Other History of Intercultural Performance (L'altra storia della performance interculturale) da cui vi leggerò alcune righe:
"Nei primi anni del 1900, Franz Kafka ha scritto una storia che iniziava: 'Onorevoli membri dell'Accademia! Mi avete fatto l'onore di invitarmi per dare alla vostra Accademia un resoconto della vita che precedentemente ho condotto come una scimmia". Intitolato A Report to an Academy, che è stato presentato come la testimonianza di un uomo dalla Costa d'Oro d'Africa che aveva vissuto per molti anni in mostra in Germania come un primate. Quel resoconto era fittizio e creato da uno scrittore europeo che ha accentuato l'ironia di avere da dimostrare l'umanità di quella persona; questa è una delle molte allusioni letterarie alla reale storia delle esposizione etnografiche di esseri umani che sono state fatte in Occidente negli ultimi cinque secoli. Mentre l'esperienza di molti di questi veniva esibita come una cosa leggendaria, ci sono i resoconti degli osservatori ed impresari che costituiscono i documenti storici e letterari di questa pratica nell'Occidente. Il mio collaboratore, Guillermo Gómez-Peña, e io siamo stati intrigati da questo retaggio di interpretare l'identità di un "Altro" per un pubblico bianco, intuendo le sue implicazioni per noi come performance artists che lavorano oggi sull'identità culturale. Sono cambiate le cose, ci siamo chiesti? Come possiamo sapere, che non lo facciamo per sguinzagliare quei fantasmi provenienti da una storia che potrebbero essere detta la nostra storia? Immaginate che io stia in piedi di fronte a voi allora, come faceva il personaggio di Kafka, a parlare di un'esperienza che arriva da qualche parte tra verità e finzione. Come le mie riflessioni che seguono su rappresentare il ruolo di un nobile selvaggio dietro alle sbarre di una gabbia d'oro.
La nostra intenzione originale era realizzare un commento satirico sui concetti occidentali di esotico, primitivo, altro; ancora, abbiamo dovuto confrontare due realtà inaspettate nel corso dello sviluppo di questo pezzo: 1) una notevole porzione del pubblico ha creduto che le nostre identità romanzesche fossero vere; e 2) un numero notevole di intellettuali, artisti, e addetti culturali hanno cercato di deviare l'attenzione dalla sostanza del nostro esperimento alle 'implicazioni morali' della nostra dissimulazione, o con le loro parole, il nostro 'informare erroneamente il pubblico' su chi fossimo. La pedanteria implicita nell'interpretazione del nostro lavoro da individui rappresentanti del 'pubblico interesse' sono il segno del loro investimento nella positiva nozione di 'verità' e depoliticizzazione, di una astorica nozione di 'civilizzazione'. Questa 'etnografia rovesciata' delle nostre interazioni con il pubblico, spero che suggeriscano la natura specificatamente culturale della loro tendenza verso un'interpretazione letterale e moralistica.
Come parte del progetto abbiamo realizzato un documentario video sulla risposta del pubblico così lasciatemi soltanto mostrarvi un paio di altre immagini del pezzo e poi possiamo vedere il video. Abbiamo rappresentato questo progetto nove volte in Europa (in Spagna e Inghilterra), negli Stati Uniti (in molti musei di storia naturale), in Australia (in un museo di storia naturale) e a Buenos Aires, in Argentina. Abbiamo scelto luoghi che avessero un collegamento storico specifico con questa pratica, oppure dei musei di storia naturale che erano anche stati implicati nelle procedure.
Abbiamo creato una finta identità; non abbiamo cercato di rappresentare un vero gruppo indigeno. Dicevamo che provenivamo da un'isola del Golfo del Messico che non era stata mai scoperta e che venivamo in Occidente per essere scoperti come parte delle celebrazioni del cinquecentenario, e affermavamo che non capivamo nessuna lingua occidentale, così dovevamo avere insegnanti che avrebbero spiegato le nostre identità e attività al pubblico. Avrebbero spiegato al pubblico chi eravamo e anche come alimentarci e farci usare il bagno. In ciascuno luogo facevamo lo spettacolo per due o tre giorni; quando eravamo in esterno, tutto il giorno fino a che non diventava scuro, e quando eravamo in interno, seguivamo gli orari del museo. Ogni volta avevamo due segnali vicini alla gabbia, uno con le informazioni riguardo il nostro gruppo etnico che era come una parodia di quello che si sarebbe potuto trovare in un'enciclopedia vecchio-stile, con una falsa mappa, e l'altro segnale era un elenco delle storia di tutte le mostre etnografiche che siamo riusciti a trovare, e questo era firmato coi nostri nomi di artisti. Ma veramente poche persone hanno fatto il collegamento tra chi aveva firmato questo elenco e le persone nella gabbia.
Ora, dovrei fare qualche chiarimento. Quando dico che le persone lo credevano o che qualche persona lo credeva, non voglio dire che l'hanno creduto per sempre. Voglio dire che credevano fosse una messa in scena di ricevimento. Un po' di persone stavano lì intorno per un bel po' di tempo e parlavano con gli altri, e arrivavano a certe conclusioni, anche in alcune città dove comparivamo in televisione, c'erano notizie a riguardo nel quale era rivelato che eravamo degli artisti che realizzavamo questa performance, e che non era la realtà. Ma era importante per noi mantenere l'integrità della finzione, così che il pubblico possa capire da solo quello che stava succedendo.

Nel 1994 e nel '95, abbiamo creato un altro pezzo chiamato Mexarcane Internazionale: Ethnic Talent for Export. Eravamo interessati a continuare lavorare con un pubblico che non si aspettasse di vedere dell'arte o una performance, e anche andare in spazi dove le persone avessero aspettative di un certo tipo di spettacolo che potesse non essere artistico. Negli Stati Uniti nei primi anni Novanta c'era un esteso dibattito sui centri commerciali come il nuovo, privatizzato, spazio pubblico. Così abbiamo progettato questo pezzo per essere presentato nei centri commerciali e l'abbiamo realizzato a Toronto, in Canada, e a Londra, all'International Festival of Theatre, e a Glasgow, in Scozia. Ci presentavamo come rappresentanti di una corporation multinazionale che andava a presentare e promuovere esotismi per eventi speciali, e arrivavamo nei centri commerciali per fare una ricerca di mercato per determinare il gusto per l'esotico dal consumatore locale.
Così apparentemente ero la segretaria di questa corporation, e qui sto intervistando un consumatore potenziale. Gli avrei fatto delle domande sul suo gusto per i viaggi all'estero, gli amori con degli stranieri, il cibo e il consumo di beni stranieri di tutti i tipi. Ma le possibilità di risposta erano limitate dalla forma di un questionario a risposta multipla, per rispecchiare la logica del centro commerciale come un spettacolo che procura l'illusione della soddisfazione ma in realtà limita i desideri. E, apparentemente sulla base delle loro risposte, li dirigevo a Guillermo, in una scatola di vetro, che avrebbe fatto quello che gli sarebbe piaciuto di più vedere, quello che io avevo determinato che gli sarebbe piaciuto di più vedere. In realtà non c'era proprio nessuna relazione, ma molta persone restavano lì intorno per un paio di ore cercando di capire quale delle cose che avevano detto aveva indotto alla performance a cui avevano assistito.
Dopo questi progetti, ho deciso di concentrarmi più specificamente sul ruolo delle donne latine nell'economia globale. Attualmente sto studiando la situazione delle donne latine che lavorano nelle fabbriche dove si fanno prodotti di bellezza al confine Stati Uniti-Messico e nei Caraibi. Prima di questo ho sviluppato un altro lavoro sulle donne latine e il turismo. Guardavo lo sviluppo di stereotipi sulle donne latine che da un lato sono "supersessuate", e dall'altro vengono idealizzate per un residuo di saggezza pre-coloniale, la matriarca, entrambe queste costruzioni sono state sviluppate dall'industria turistica in America Latina. Esternamente dalla ricerca che ho condotto sul turismo del sesso in Cuba e sul turismo culturale in Messico, ho creato la mia performance Stuff che è una collaborazione con l'artista messicano-americano Nao Bustamante. Come parte del nostro processo di sviluppo del lavoro abbiamo fatto alcune ricerche di archivio sulla storia della rappresentazione delle prostitute latinoamericane dall'inizio del secolo in avanti: queste immagini appaiono appena il turismo in America Latina ha assunto una dimensione di massa. Nao ed io abbiamo organizzato il nostro testo su banchetti, rituali, lezioni di danza e lezioni di lingua cariche di erotismo, perché abbiamo voluto fare una satira della servidora, allo stesso tempo servidora di sesso e spiritualità.
Così in questa performance, abbiamo portato le persone del pubblico con noi sul palcoscenico a lavorare con noi. In una scena gli insegno come pregare durante il banchetto, e Nao fa una danza rituale con un coltello da cucina. In un altro insegniamo a un turista del sesso come rimorchiarci in spagnolo.
La famiglia di mia madre è cubana, e ho lavorato a Cuba con altri artisti cubani negli scorsi dodici o tredici anni. Nel 1996, sono andata a fare una ricerca sulla crescita dell'industria del turismo del sesso sull'isola; il ritorno del turismo del sesso nell'isola, perché era famosa per questo negli anni Cinquanta e ora lo è di nuovo. Ho scritto una storia della mia interazione con le persone dedite alla prostituzione che è stata pubblicata negli Stati Uniti e in Spagna, e ho usato alcune delle interviste per delle sezioni della performance. Nao e io abbiamo combinato parti di queste informazioni con frasi di una guida per turisti del sesso. Tutte le attrazioni sul palcoscenico coi turisti del sesso sono basate su frasi trovate su libri reali che le persone reali usano per rimorchiare le donne a Cuba.
Leggerò un po' della storia che ho scritto, che è un'intervista che ho fatto con due donne. Ho intervistato donne che considero essere in categorie diverse della pratica - le prostitute di alto bordo, quelle di strada, e i bambini. Questa brano proviene dalla sezione donne sulla strada:
"Il solo modo per confermare il mio sospetto che la prostituzione familiare che racconta di vittimizzazione e abuso non dice l'intera verità sulle jineteras cubane è per me trovare alcune veterane del mestiere che considerano il sesso come un lavoro:
Ho deciso anch'io di battere le strade nella città vecchia dell'Avana per appropriarmi della prospettiva delle prostitute che erano in quest'affare molto prima della recente esplosione. Annidata intorno all'area portuale, La Habana Vieja, è il quartiere più fortemente turistico della città, ed è anche uno dei più poveri, famoso per le attività illegali.
In Piazza della Cattedrale, Paco, un malizioso guardiano di prostitute, bisbiglia nel mio orecchio. 'Di dove sei, linda?' 'La Juma', rispondo, usando lo slang cubano per gli Stati Uniti. Ride, 'Lasciati mostrare qualche grande discoteca questa notte'. Afferra il mio braccio. 'Scusa - gli dico - sono occupata stasera, ma mi puoi dire dove posso trovare la migliore pizza qua intorno?'. Lui mi porta in un paradar. Lui è un mulato, 24 anni, e ha vissuto in questo quartiere tutta la sua vita. 'Cosa fai stasera?' lui continua a dirmi.
'Guarda, Paco, non sono una stravagante canadese che è venuta quaggiù per andare a dormire con un prieto', gli dico. Lui crollò. 'Io non mi vendo' bisbiglia timidamente. 'Bene', dico, 'Vuoi lavorare? Trovami due jineteras che sono brave a parlare'. Lui sembra completamente sfasato. 'Questa è la mia specialità', mi dice con un sorriso.
Siamo andati a passeggiare passando per la cattedrale in direzione del Malecon, il viale che costeggia il lungomare dell'Avana che circonda metà della città. Gli chiedo di parlarmi dei suoi clienti. Ottiene più richieste per le ragazze più giovani - dice -; recentemente un uomo della Repubblica domenicana offriva 2.000 dollari per una ragazza sotto i 14 'ancora intatta'. Qualche pervertito viene qui a cercare ragazzini per farsi fare un pompino per un paio di dollari. 'Loro pagano con dei lecca lecca', lui dice, scuotendo la testa.
'Ti stai divertendo a prendermi in giro? - dissi -. Mi Amiga! Giuro è tutto vero!' lui dice, mettendo la sua mano sopra il cuore per dimostrarlo. 'So che cominci a non credere a ciò che ti dico, ma stai sicura ci sono tutti i generi di persone che arrivano qui. Non sono soltanto i vecchi che lo vogliono. E ragazzi handicappati, nani, ragazzi con arti mancanti, puoi scegliere. Ho visto una delegazione di uomini in sedie a rotelle nell'atrio dell'Albergo Nacional circondati da una delegazione di mulatas adolescenti'. 'Dove spedisci le tue jineteras con i clienti?' ho domandato. 'Affitto delle stanze nel quartiere'. 'E la polizia?' '? la polizia? A loro piacciono i fula - che nello slang cubano vuol dire dollaro - Gli piacciono i fula, come a ogni altro'.
Un'ora più tardi sto in piedi davanti all'angolo convenuto quando vedo la testa di Paco uscire fuori da un portone. Scivolo dentro un solar e mi presenta Elena e Margarita, entrambe di 25-30 anni, ed entrambe che hanno lavorato per le strade dell'Habana Vieja per più di dieci anni. Margarita aveva un figlio piccolo che mantiene, mentre Elena viveva da sola.
Quando Margherita ha cominciato per prima ha spiegato che i loro clienti principali erano commercianti marittimi e tecnici stranieri. A quel tempo, possedere dollari era illegale, così nascondevano i loro soldi nelle loro vagine e andavano a fare visita agli studenti africani che potevano comprargli dei beni di consumo nei negozi dove si pagava in dollari. Erano attente a non risultare troppo appariscenti così come a non suscitare invidie che potevano portare qualcuno a dare delle informazioni su di loro. Erano fortunate a non essere state mai arrestate, ma avevano delle amiche in prigione.
Loro dicevano che almeno due terzi delle donne giovani nel barrio erano jineteras. Quando ho domandato cosa pensassero di loro gli uomini del quartiere, entrambe si sono messe a ridere.
Loro vedono il gallego (lo spagnolo) entrare con una ragazza, e non lo vedono - dice Elena -. Loro vedono un pollo, fagioli, riso ? un frigorifero pieno.
Quello che chiaramente usciva fuori dalla nostra conversazione è il senso di ciò che costituiva l'onestà nei rapporti con i clienti per queste donne - e la loro voglia di difendere a tutti i costi il loro senso del proprio diritto come donne che forniscono un servizio.
'A volte questi tipi compaiono con borse di reggiseni e biancheria intima, pensando che quello è abbastanza per portarci a letto - dice Elena con un sorriso furbo -. Adesso ci sono molti più ragazzi giovani che arrivano, e cercano di dirti che è per amore, per amore (N.d.T. in italiano nel testo)'.
Sentivo che stavo trattando con delle sofisticate trafficanti in fantasia tanto quanto di sesso. Le ho chiesto di classificare la loro clientela a secondo dei gusti.
Elena e Margarita si sono piegate verso me, come se fossimo delle liceali impegnate in qualche succoso pettegolezzo.
'Guarda, quelli che arrivano di più adesso sono gli italiani, e a loro piacciono cose come la tortilleria (scene di sesso lesbico) - loro cominciarono -. I messicani erano dei grandi frequentatori, ma con la svalutazione dei pesos non ne arrivano più molti. Erano soliti chiederti delle maratone di sesso orale. Era terribile!' ha esclamato Margarita. 'Gli spagnoli generalmente sono più vecchi - Elena ha aggiunto -. Alcuni di loro volevano soltanto parlare. Altri vogliono venire a vivere con noi per un po'. Di solito me li portavo a casa questi tipi per una settimana alla volta. Amavano questo, e non gli importava delle interruzioni di corrente e della scarsità d'acqua. Mi mostravano le foto delle loro mogli. Anche se la maggior parte di loro vogliono una ragazza diversa ogni notte'.
Ho parlato loro dell'immagine che si ha, fuori dall'isola, della jineteras, che spesso sono descritte come delle prostitute sfacciate con i capelli biondo scolorito e pantaloni attillati. Elena portava una maglia bianca, abbondanti pantaloni bianchi e una giacchetta di pelle, con un piccolo cappellino bianco. Margarita aveva su jeans, un pullover blu chiaro e orecchini di plastica. Nessuna di loro aveva i capelli colorati. 'Se non fai nulla - ha spiegato Margarita - il look naturale ritorna. Perfino le ragazze bianche fanno la permanente ai capelli per sembrare più mulatas'. Entrambe riconoscevano che lo stile andava incontro al gusto dei clienti. 'Agli spagnoli piacciono molto le ragazze nere con le trecce, così tutte le negritas portano così i loro capelli. Agli italiani piacciono le mulatas con i capelli arruffati.
Ci sono dei pericoli? Il solo caso di violenza che loro si ricordavano era nel 1993, il caso di una jinetera che è stata impalata con una scopa da un turista europeo che ha gettato poi il suo corpo dal balcone di uno degli alberghi di Vedado. Naturalmente l'assassino era già fuori dal Paese quando il corpo della jinetera è stato trovato. Rischi per la salute? Elena e Margarita immediatamente hanno risposto che hanno insistito sui preservativi, e che la salute era una cosa che il governo ancora aveva sotto controllo. Conoscendo le declinanti condizioni degli ospedali di Cuba, e la cronica scarsità di medicina, mi chiedevo se non stavano soltanto cercando di autoconvincersi che le vecchie promesse rivoluzionarie ancora funzionavano per difendersi dalle paure. In tutto il mio viaggio nessuno a cui ho parlato ha voluto accettare l'idea che un STD epidemico, incluso ma non limitato all'AIDS era in azione, il che mi è sembrato quasi una trascuratezza criminale.
Quando le ho chiesto se a loro avevano mai pensato di smettere con quel lavoro, Elena mi ha raccontato una storia che illustra perfettamente il dilemma di fronte al quale si trovano le donne cubane che sono state socialmente indotte a credere nella loro uguaglianza ma che ora si trovano a fronteggiare una estrema polarizzazione del mondo che lascia piccoli spazi di manovra.
'Mi sono sposata una volta -ha confessato con un sorriso ironico - ma non ha funzionato. Ho pensato andrò in Spagna e comincerò una vita nuova. Pensavo che avrei lavorato, e che avremmo vissuto insieme. Ma era matto, completamente matto - lei ha continuato -. Lui voleva tenermi a casa tutto giorno. Non mi voleva lasciare andare a lavorare né uscire di casa. Ho resistito due mesi, e poi ho capito che me ne sarei dovuta andare. L'ho fatto sedere insieme a sua madre e gliel'ho spiegato. Non avevo soldi né un luogo dove andare, così sono dovuta ritornare qui. Lui è così furioso che ora non mi darà neanche il divorzio perché dice che è troppo costoso'".
Continuerò con un altro progetto che ho realizzato in Sud Africa alla Biennale di Johannesburg del 1997. Nel 1995 sono stata invitata alla prima biennale internazionale d'arte a Johannesburg per tenere una conferenza. Soltanto un anno dopo le prime elezioni democratiche delle Paese, è stato un tentativo di caratterizzare la nuova presenza del Sud Africa nell'arena culturale internazionale, dopo decenni di isolamento causato dal boicottaggio in protesta alla segregazione razziale. Ho fatto un salto per l'opportunità di visitare un luogo che aveva esercitato un tremendo potere simbolico su di me fin dai miei anni del college.
Da giovane ero terrorizzata dalla segregazione razziale; era più che un ricordo di quello che era stata una volta l'America. Nella mia mente ha voluto dire l'annientamento simbolico di quello che ho capito di essere, la figlia di un misto di razze in una società dalla cultura ibrida che stava solo iniziando ad accettare la sua eterogeneità. La mia prima visita era eccitante perché potevo sentire l'euforia che caratterizza le società che hanno appena subito una trasformazione integrale. Allo stesso tempo era anche estremamente deprimente, un incontro con un mondo radicalmente polarizzato dove le fenditure psicologiche ed economiche che erano iniziate sotto l'apartheid erano ancora palpabili in ogni aspetto della vita. Ero proprio triste di essere la testimone del grado in cui la paura razziale prende forma dalle interazioni giornaliere e il protrarsi del modo estremamente delicato con cui i neri hanno trattato la colpevolezza bianca per proteggere il futuro economico dell'intero Paese. Così ho cominciato a pensare il modo di intervenire creativamente nella situazione per proporre un progetto per la seconda biennale.
Il tema della seconda biennale era "Trade Routes: History and Geography" (Rotte commerciali: storia e geografia). Per il mio progetto ho deciso di trattare della migrazione interna piuttosto che di quella esterna. Ho lavorato con i lasciapassare che i neri e le persone di sangue misto erano obbligati a portare durante l'apartheid per circolare nelle aree riservate ai bianchi. Il lasciapassare era il documento che più chiaramente comunicava la filosofia dell'apartheid di una inferiorità legale e razziale dei neri. Con questi le persone erano identificati da nome, numero, terra natale e gruppo razziale. C'era anche la dimostrazione di un legame a un datore di lavoro bianco che giustificava i movimenti della gente nera fuori dalla loro homeland. Questa carta d'identità doveva essere mostrata ad ogni richiesta della polizia, doveva essere usata per richiedere beni e servizi dal governo sudafricano e anche verificare il pagamento delle tasse. Non portarla poteva portare all'arresto.
Quello che segue è una poesia Zulu sui lasciapassare. Una volta qualcuno con una cultura orale, mi è stato dato dal direttore di una scuola d'arte drammatica che stava dirigendo un laboratorio per bambini a Soweto e stava insegnando loro la poesia:

Fai una visita a Johannesburg
Vedrai grandi folle di persone in prigione per un pass speciale
Avanti, in avanti fino a Marshall Square
Esibisci il tuo speciale lasciapassare.
Era una triste visione vedere la nostra gente in questo modo, catturata per uno speciale lasciapassare Là arriva il grande furgone
In giro per tutto il Paese loro lo chiamano il furgone che prende
C'è il furgone che prende,
c'è il grande furgone
Dove è il tuo lasciapassare?
Dove sono le tue tasse? Levati il cappello!
Qual è il nome della tua famiglia?
Chi è tuo padre?
Chi è il tuo capo?
Dove hai pagato le tue tasse?
Quale fiume bevi?
Noi siamo in lutto per il nostro Paese
Ora, sebbene mi stavo concentrando sulla storia del Sud Africa, l'idea di un documento che mostrasse la differenza razziale, di uno particolare gruppo razziale rispetto al resto della popolazione e che automaticamente lo facesse diventare un portatore di estraneità perfino all'interno del suo paese nativo, non era così sconosciuta. Negli Stati Uniti i membri riconosciuti nella federazione delle tribù degli indiani d'America devono mostrare i loro documenti alle autorità per dimostrare la loro condizione sociale e ottenere i loro diritti, e gli stranieri residenti sono esposti alla minaccia di automatica espulsione se non sono in grado di mostrare la green card su richiesta delle autorità. Più in generale, parlando nell'era della globalizzazione, sono le persone del Terzo Mondo i cui documenti sono attentamente esaminati quando entrano nelle privilegiate zone dell'Europa e del Nord America. La mia performance, intitolata Rites of Passage (Riti di passaggio) era un tentativo di occuparsi di questo meccanismo sociale richiedendo che ai visitatori della Biennale fossero dato loro un lasciapassare e che fossero vistati per permettere loro la libera circolazione all'interno della mostra.
Ho allestito un tavolo per il controllo all'ingresso principale, ci siamo vestiti come dei poliziotti sudafricani e ho indirizzato i visitatori a farsi fare una fototessera nella cabina dietro di noi. Dopodiché sarebbero stati chiamati a colloquio con uno di noi per la compilazione del loro lasciapassare. Le domande che abbiamo posto erano state fatte sul modello di quelle usate nel passato: chiedevamo nome, gruppo razziale di appartenenza, residenza, professione e il loro legame con l'evento, e ogni volta, all'ingresso delle mostre, venivano vistati da una delle guardie, che erano effettivamente degli studenti di teatro sudafricani.
Ora, fin dalle esperienze dei miei primi lavori, ho capito che sottoporre il pubblico a un interrogatorio poteva far concentrare la riflessione sul loro intimo senso di piacere e pericolo, piacere e pericolo in rapporto alla razza, così avrebbero potuto capire come le loro preferenze determinino i loro percorsi in uno spazio pubblico. Questa sorta di performance si sviluppa sopra la scultura minimalista, mettendo in scena la ricezione del pubblico. Ma spostando il centro dell'indagine dall'incontro fisico con l'oggetto scultoreo alle strutture ideologiche di spazio e luogo. Ho scelto di ricreare lo scenario del lasciapassare perché sapevo che una performance che mette in scena il processo di costruzione di identità razziale avrebbe generato quello che alcuni chiamano "binary terror". Che è, la spaventosa sensazione di non sapere quello che sono le cose, di perdere il senso di dove finisce la realtà e di dove inizia l'immaginazione. Questa per me è una delle forze maggiori di una performance dal vivo ed è anche il luogo dove si incastra con la fenomenologia di spazi simulati e virtuali che domina il nostro attuale paesaggio culturale. È il luogo dove sperimenti qualcosa che è verissimo e irreale allo stesso tempo. Devi veramente rispondere alle domande, ma non è veramente apartheid.
Così in questa società ancora divisa, le singole reazioni al lasciapassare rendono proprio palesi di quanto fossero assurde la convinzione generale che il razzismo fosse stato superato o eliminato. La reazione del pubblico alla performance era direttamente in relazione con chi le persone pensavano di essere. Come vedevano loro stessi e come sarebbero dovuti esseri visti avendo una identità completamente visibile. E sebbene alcune persone si fossero arrabbiate per la performance e mi avessero accusato di perpetrare l'inganno che avere un lasciapassare fosse obbligatorio e che fosse un modo per punirli, molti altri visitatori, bianchi e neri, l'hanno vissuta come un'opportunità per ridisegnare le loro identità. Per immaginarsi in un modo diverso.
Il primo indizio del fatto che la performance avrebbe funzionato lo ebbi all'inizio, quando il responsabile della sicurezza, che in un primo momento si era lamentato che le mie guardie erano una seccatura, ha cambiato idea e ha deciso che i miei lasciapassare erano un buon sistema per tenere sotto controllo i furti. E in modo maggiore fece infastidire la stampa, quando decisi di riutilizzare il vecchio registro dei lasciapassare in cui porto d'armi e patenti vennero scambiati con i permessi per l'accesso di macchine fotografiche e video.
Non molto prima della serata inaugurale c'era un'immensa folla impaziente in attesa di ottenere il lasciapassare, irritata, che gesticolava e protestava a viva voce davanti alle telecamere che riprendevano il vernissages. Il rumore e la concentrazione di gente, e l'espressione stupefatta di molti visi, mi fecero pensare a Ellis Island a inizio secolo. (Ellis Island è l'isola in cui venivano ricevuti gli immigranti europei prima di entrare negli Stati Uniti). E mentre freneticamente lavoravo con due aiutanti nella registrazione dei libri, ho osservato che effettivamente abbiamo commesso gli stessi errori fatti dagli ufficiali di Ellis Island che cancellarono i legami con il passato di quelle persone. Cambiavamo i nomi. Inventavamo domande per chi rispondeva troppo lentamente e assegnavamo loro identità razziali se avevano delle resistenze a rispondere a questa domanda così delicata.
Ero preparata ad affrontare la loro irritazione, ma non potevo certo essere preparata alle facce dei bianchi quando chiedevo la loro identità etnica.
Ho visto lo shock e la vergogna e ho dovuto aspettare con una faccia impassibile il tempo necessario affinché si riprendessero e bisbigliassero "bianca". Ho visto gli sguardi sdegnati di chi piuttosto che dirmelo si indicava la faccia. E ho sentito l'indignazione di quelli che si sono rifiutati rispondere o che avrebbero ringhiato che non era una domanda pertinente. Ho dovuto spiegare a molte persone che sembravano non cogliere la differenza tra nazionalità ed etnicità in una società multiculturale, che Sud Africa non era la risposta giusta quando gli chiedevo la loro identità etnica.
Molti giovani in Sud Africa erano chiaramente in difficoltà con questo problema. Ho sentito qualcuno di loro bisbigliare: "Non si era deciso che non avremmo mai più dovuto dirlo?" Altri invece, rifacendosi al vocabolario post-razziale del nuovo Sudafrica, si definivano "Rainbow People" (persone arcobaleno). Molti neri rimanevano in piedi e guardavano tutto ciò, ridacchiando quando un bianco esitava sulla domanda.
Dopo che molte persone richiedevano lasciapassare per Gesù Cristo e Babbo Natale, ho compreso che il miglior modo per governare la tensione è incoraggiare le persone a reinventare loro stessi come una scappatoia. Li invitavo a "passare" che è quello che molte persone nere negli Stati Uniti faceva per evitare di essere classificati come neri. Ho cominciato a compilare un elenco di identità romanzesche che hanno scelto incluso: straniero, marziano, gioviano, venusiano, verde, arancione, Zulu, Cristiano, altro; poi in francese: blanc (bianco) o blanche (imbiancato), scolorito, bianco omosessuale, ebreo e nero onorario. Una reporter televisiva girò il suo iter per ottenere un lasciapassare come Amish e la gente, al posto di darmi le loro foto delle loro facce, mi dava foto di orecchie, del loro pene, adesivi e disegnavano il loro autoritratto. Solo gli Afrikaners, che per decenni hanno fatto della conservazione della loro differente cultura e tradizione linguistica il loro progetto politico, era costantemente pronti a fornire la loro vera identità e alcuni collezionavano un lasciapassare al giorno per celebrare la loro mutevole identità.
Molti artisti latinoamericani si sono divertiti a uscirsene con nuovi termini per mestizo o meticcio. Un'artista messicana, Theresa Serrano, ha chiesto se potesse essere identificata come raza dudosa o di dubbia razza. Un momento particolarmente critico fu quando una sudafricana bianca di mezza età portò un gruppo di amici al mio tavolo e nel giro di pochi secondi l'aspetto del suo viso si trasformò da curioso e confuso in cattivo e divertito.
"Un pass, un pass" continuava a dire, finché si decise, "Sì, un pass, ma mi chiamerò Tikky". Tikky è un nome dispregiativo per una persona nera o una donna di servizio. E poi disse, "e scrivi che sono una donna delle pulizie". Poi è andata a istruire tutti i suoi amici a non usare i loro veri nomi ma a costruire identità basate sui loro ricordi delle persone di colore nel vecchio Sud Africa.
Significativamente, nessun sudafricano nero sembrava infastidito per dover aspettare a lungo o per dover essere identificato. La notizia si sparse fra i neri della sorveglianza e i custodi e tutto vennero a guardare, e a realizzare il loro proprio lasciapassare. Molti di loro mi dissero che si facevano i loro pass per potersi portare a casa uno storico souvenir. Una persona mi disse che lo avrebbe mostrato ai suoi nipoti in modo che loro potessero ricordare, e altre reazioni erano più ironiche. Il direttore dell'Institute for Contemporary Art, una donna nera, ha preso in prestito la mia uniforme da poliziotta per farsi fotografare con quella indosso a distribuire i lasciapassare, e molti artisti neri, qualcuno sudafricano, altri da altri Paesi africani, chiesero di essere identificati come Casos, Negroes, e perfino Niggers. Altri si fecero chiamare post-nazionali, figli della diaspora, o cittadini del mondo. Ognuno di loro voleva raccontarmi le proprie storie, di essere stati denudati e perquisiti e sottoposti a un esame rettale soltanto per essere colombiani, o essere trattenuti per ore in aeroporti senza spiegazioni, e di essere accusati di possedere documenti falsi nel caso in cui erano naturalizzati americani, canadesi o australiani o britannici.
Forse la più inaspettata e grande risposta mi fu data dai sudafricani neri che mi aiutavano come guardie. All'inizio ho spiegato loro quali fossero le mie idee su questo lavoro, poi diedi loro le uniformi e li lasciai liberi di interpretare il loro ruolo come lo sentivano. E una volta che la folla era diventata più gestibile, hanno cominciato a imporre la loro presenza in modo più energico. Hanno cominciato a salutare i visitatori in Afrikaans, adottando la cadenza e i toni aggressivi della polizia che una volta li avevano maltrattati. "Fuori c'è il nuovo Sud Africa - dicevano - ma qui dentro c'è quello vecchio. Quindi fammi vedere il tuo pass!" Nel giro di qualche ora mi chiamarono dall'ufficio delle relazioni con il pubblico e mi rimproverarono, si rifiutarono di vedere il mio lavoro come ogni altro, ma soltanto come un grattacapo per le relazioni con ilpubblico, accusando le guardie di essere un gruppo di rastafariani fatti.
Ma quando ho intervistato le guardie alla fine del lavoro per avere la loro versione dei fatti uno di loro mi ha spiegato: "Sister Coco, lasciami dire quello che mi è piaciuto. Soltanto i bianchi si lamentano non i neri. Non hanno mai dovuto aspettare per qualche cosa. Ma noi abbiamo dovuto aspettare per molto tempo. Così questo non è che la nostra dolce vendetta".
Mille grazie.

Domanda: In che modo cambia il suo lavoro a seconda della risposta del pubblico?
Coco Fusco: Con la performance della gabbia siamo partiti con un'idea molto più vaga di ciò che avremmo dovuto fare col lavoro. È diventato molto più raffinato appena abbiamo verificato il diverso comportamento del pubblico e abbiamo visto come funzionava. Così abbiamo cambiato il nostro comportamento cercando un certo tipo di risposte, ma anche, per esempio, abbiamo imparato che il cibo era un elemento molto potente per le persone, che lo spettacolo di noi che eravamo nutriti era molto più potente di quello che noi avessimo mai immaginato. Così abbiamo cominciato a incorporarlo molto più nello spettacolo. E nel lavoro al centro commerciale c'è stata veramente un'esperienza istruttiva, come ho posto loro delle domande. Ho imparato molto di quello che piace e non piace alla gente e volevo saperlo. Mi ha aiutato a progettare la successiva performance che trattava di turismo, e il tipo di domande su cui veramente concentrarsi.
Ma in ciascuno esempio noi abbiamo lavorato sempre con le risposte che già esistevano nella cultura, ma cercando di ottenere dalle persone di capire come loro fornissero le risposte alle altre culture. Questo è lo scenario delle ricerche di mercato, lo scenario dello show etnografico. In America abbiamo molti programmi alla TV brutti dove le persone sono forzate ad andare sul palcoscenico e partecipare per fare un test come pubblico per ogni tipo di merce, così c'erano già degli scenari esistenti. In un certo senso, se lo facevano in una struttura che era già riconoscibile e conosciuto il modo di agire, era renderlo più agevole per il pubblico. Quelle dinamica sono i nostri rituali. Sono le dinamiche interculturali che esistono ancora, molte persone pretendono di non conoscere nulla delle altre culture perché non riconoscono quelle strutture come rituali. Ma sto cercando di esplorare i rituali già esistenti.

Il suo lavoro è quindi una specie di rituale?
Certo è un rituale. Posso dirlo perché ero interessata a farlo. Un modo di imparare su una particolare area è curare un evento o un'esposizione. E un altro era creare il contesto per capire il lavoro che è stato uno dei problemi che abbiamo avuto negli Stati Uniti in questi dibattiti sul multiculturalismo. Una persona deve di solito prendere posizione per una cultura intera. Quando ti allontani dalla feticizzazione dell'individuo per andare a un gruppo e allora puoi imparare davvero delle complessità interna a una cultura.

Come ha detto, spesso abbiamo bisogno di focalizzare su degli individui, ma anche in arte, artisti, curatori e critici. Lei ha rotto delle barriere professionali; questo le ha creato problemi in termini di riconoscimento personale?
Sì e no. Da una parte è un problema perché si corre il rischio di essere accusati di dilettantismo. Dall'altra penso che le donne spesso sono accusate di dilettantismo e gli uomini riescono a farla franca. André Breton ha curato e anche scritto di arte. Così faceva Marcel Duchamp ed Allan Kaprow, e tutti loro hanno fatto arte ma nessuno ha mai pensato che questo fosse sbagliato.
Faccio sempre questi esempi quando le persone mi pongono questa domanda perché non capisco perché la gente pensa che sia così insolito. Anche Damien Hirst, che è molto popolare adesso, ha cominciato come curatore. C'è anche un'idea che proviene dai dibattiti culturali degli anni Settanta e Ottanta, da molta teoria postmoderna che la distinzione tra teoria e pratica era una distinzione artificiale, era un prodotto di un tipo di teoria formalista che proveniva dagli anni Cinquanta che considerava l'artista un tecnico ed il teorico lo specialista che analizzava la tecnica, e c'erano persone di quel periodo come Craig Owens, Mary Kelly e Barbara Kruger che insistevano sulla necessità per gli artisti di dover anche teorizzare la loro pratica. E credo che sia così, si comincia con delle idee e non con una tecnica, e si usa il mezzo che è più efficace per realizzare le proprie idee. Così per me i problemi che tratto con la performance sono quelli che penso che siano i migliori argomenti per la performance.