Appunti di lavoro


T h i e r r y   d e   D u v e
Bernd e Hilla Becher o la fotografia monumentaria

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Primo: una serie di immagini. Secondo: un celebre proverbio cinese. Terzo: una frase altrettanto celebre tratta da Shakespeare. Quarto: una citazione da Valéry, nota, ma meno famosa delle due precedenti.

Il mio primo punto di partenza, dunque, è la serie di immagini che vedrete. Si tratta delle opere di Bernd e Hilla Becher. Da più di trenta anni questa coppia di artisti tedeschi attraversa il mondo industrializzato e procede all’inventario fotografico dell’oggetto industriale: depositi minerari, altiforni, torri di raffreddamento, silos d’acqua, gasometri, ecc., raggruppati per serie funzionali specifiche. Le foto sono prese con un apparecchio professionale, di mattino presto, con un cielo grigio, in modo da sopprimere le ombre e rendere omogenee le luci. Il soggetto è centrato e inquadrato frontalmente, il suo parallelismo è salvato, tanto vicino quanto lo permette l’elevazione dell’architettura. Non un essere umano, non una nuvola, non un uccello nel cielo parassitano questa purezza.
Non un umore si esprime nell’immagine, non una fantasia ne perturba l’ascetica neutralità. Raramente il rifiuto della subjektive Fotografie era stato spinto più lontano, raramente la Schlichkeit dell’oggetto fotografico era stata perseguita nel modo più sistematico. Se fosse possibile una fotografia del tutto spoglia da ogni stile, quella dei Becher lo sarebbe in modo assoluto. Essa appartiene alla tradizione dell’archivio in cui si inscrivono Atger e Sander, questi grandi artisti che si fanno un punto d’onore del non essere fotografi "d’arte". Si qualificherebbero volentieri le immagini dei Becher come puri documenti, se tuttavia qualcosa non impedisse di applicare loro, senza altra riflessione, la categoria di foto documentaria. È proprio intorno a questo "qualcosa" che si svolgerà la nostra riflessione.
Il mio secondo assunto è il celebre proverbio cinese: "Quando il saggio mostra la luna col dito, lo stolto guarda il dito". Trattandosi delle foto di Bernd e Hilla Becher, lo stolto, all’occorrenza, guarda la foto, il saggio ciò che la foto mostra. Lo stolto vorrebbe sapere perché queste immagini sono "arte", il saggio vede in esse la testimonianza incontestabile del reale. Tuttavia il più saggio dei saggi è sulle prime uno stolto, dato che alla fotografia capita la stessa cosa del proverbio cinese: per sapere che il dito indica la luna bisogna guardare il dito. Fa parte dei paradossi della fotografia che una spirale faccia precipitare senza posa il guardante da un uso transitivo ad un uso estetico dell’immagine e viceversa. Ma è anche caratteristico della fotografia dei Becher che essa arresti questo circolo sulla luna, e non sul dito. Anche di questo, occorre farne un problema.
Il mio terzo spunto è tratto da Shakespeare: "What’s in a name? That which we call a rose/By any other word, would smell as sweet". "Che cos’è una parola? Poiché ciò che chiamiamo rosa/avrebbe un dolce profumo ugualmente anche se con nomi diversi". Ma è proprio vero? Trattandosi delle foto di Bernd e Hilla Becher nulla è meno certo dell’indifferenza delle cose e degli esseri ai nomi loro attribuiti. Benché i due artisti possiedano il mestiere di fotografi sulla punta delle dita, è difficile chiamarli fotografi e basta. Nell’ambiente dell’arte in cui circolano, si vedono e si vendono le loro opere, li si definisce artisti, e, se è il caso si aggiunge: "...che si servono del mezzo fotografico!". Alla penultima Biennale di Venezia, che ha voluto ricompensare il loro lavoro, ha loro attribuito non il premio per la fotografia (che comunque non c’è), né quello dell’arte "in genere" (non c’è nemmeno quello), ma quello della scultura, appellandosi senza dubbio ad uno dei loro primi repertori di immagini, intitolato Anonyme Skulpturen. I Becher sono allora scultori? Altro problema da affrontare.
Quarto punto di partenza, da Paul Valéry:

Pittura e Scultura, mi dice il demone della Spiegazione, sono delle figlie abbandonate. La loro madre è morta, la loro madre Architettura.

Le poverine sono state messe in istituto, e Valéry non era meno al corrente di Barnett Newman (che definiva la scultura come "quella cosa sulla quale si cade allontanandosi da un quadro per vederlo meglio"), che se il museo è un orfanotrofio relativamente ospitale per la pittura, per la scultura è degno della contessa Ségur. Ora, grazie ai Becher, un silos per l’acqua si è metamorfizzato in scultura. Vi è un senso nel dire che questo silos è orfano di sua madre, l’Architettura? Ecco introdotti i temi e poste le questioni. Proviamo a farle giocare.

Andiamo all’essenziale. Stimo moltissimo il lavoro di Bernd e Hilla Becher. Esso porta con sé, immagine dopo immagine, una tal quantità di emozione contenuta, di melanconia senza nostalgia, di dolore storico, di lotta di classe subita o esercitata, di meraviglia davanti all’arte proteiforme dell’ingegnere, di coscienza di dignità, di corsa con il tempo, di rispetto per le cose, di umiltà, di cancellazione, che non ho che una cosa da dire: è grande arte, arte di cui è inutile proteggere l’appello mettendola nel museo, poiché appartiene d’ora in poi alla memoria collettiva. Mi piace il fatto che l’inventario che hanno intrapreso i Becher abbia qualcosa di interminabile — dato che lo si continua a costruire, che il mondo è tanto grande e che la vita è tanto breve — e mi piace che questa impresa titanica non abbia nulla di quei lavori di Sisifo che caratterizzano tante ricerche ripetitive nell’arte contemporanea. Amo l’ammirevole cancellazione delle foto dei Becher, il loro modo unico di essere senza stile, la loro uniformità formale. Amo il fatto che la loro estetica sia l’estetica moderna della fedeltà al medium e non l’estetica postmoderna dell'appropriazione. Amo che essa sia anche una morale che porta all’incandescenza l’umiltà di fondo della fotografia. Amo che queste foto riescano a non attirare mai l’attenzione su se stesse, ma su ciò che mostrano. Amo che esse cerchino di rendere saggi, anche me, stolto che corro per le gallerie.
Appese ai muri delle gallerie e dei musei, dove figurano come "arte", o allineate sulle pagine dei cataloghi, in cui sfiorano il documento etnografico, le foto dei Becher si mostrano. Ma in un caso come nell’altro, dato che sono foto e non quadri dipinti o tavole incise, esse si mostrano sul punto di mostrare ciò che mostrano. Pur essendo inevitabile, dato che le si vede fare un gesto di indicazione, che il dito si mostri mostrando la luna, comunque, è inerente ad ogni foto che essa si mostri mostrando la cosa che un raggio luminoso è venuto ad impressionare sulla sua pellicola. Charles Sander Peirce collocava la fotografia fra i "segni per connessione fisica", i quali — come il fumo rispetto al fuoco, o l’impronta dei passi sulla neve — sono sia l’indice (traccia) della cosa alla quale rinviano, sia l’indicatore (il dito) che punta verso di essa. Tali segni attestano l’esistenza effettiva dei loro referenti, poiché vi sono collegati per un legame causale che può aver effetto in una contiguità spazio-temporale (niente fumo senza fuoco) o in una contiguità spezzata (la traccia dei passi o il fossile di un tempo trascorso). Alcuni di questi segni (come il fumo) non somigliano affatto al loro referente, altri (come l’impronta dei passi) gli somigliano e dunque sono, nella classificazione di Peirce, delle icone tanto quanto degli indici. Questo è il caso della fotografia. Consideriamo una foto di un certo bacino d’acqua. La foto lo mostra, ovvero essa lo rappresenta; essa lo mostra, vale a dire, lo indica. Essa lo rappresenta come farebbe un disegno, eccetto che la causalità fotochimica lo lega punto per punto, a questo silos, precisamente, e che questo silos ha dovuto esistere, anche se ora forse non esiste più. La foto vi si riferisce come farebbe il dito teso a designare questo silos all’attenzione di chi guarda, a parte il fatto che al termine del dito non vi è nessun silos d’acqua. È proprio esso che guardo, eppure il silos reale è altrove, alla fine di un altro dito teso, linguistico e fatto di nomi propri: Lübeck, D 1980 (per citare la didascalia della foto n°89 dal libro dei Becher intitolato: Wassertürme — Silos d’acqua).
Beninteso: ogni fotografia tratta della qualità e chi guarda, davanti a una foto qualsiasi, è di volta in volta saggio e stolto. Saggio nel guardare la luna e stolto nel guardare il dito; ma anche: saggio nel comprendere che la luna non sta alla fine del dito e dunque stupido, istupidito dalla realtà di questo indicatore che assomiglia a ciò che indica; ma anche saggio nell’attaccarsi alla specificità di questo indice/indicatore, e stupido nell’incatenarvisi. È questo il cerchio che fa precipitare senza posa chi guarda da un uso transitivo ad un uso riflessivo dell’immagine e viceversa. Se egli considera la foto come trasparente, e vede attraverso essa la testimonianza del reale, si dirà che la guarda per il suo valore documentario; ma egli non recepisce questo valore che dal documento che tiene in mano e da cui il reale documentato è assente. E se chi guarda considera la foto come opaca e la contempla per se stessa, si dirà che la guarda per il suo valore estetico; ma questo valore non è quello della foto, in quanto foto, che come tale attesta la sua dipendenza faccia-a-faccia col reale. Ogni foto, sia firmata dai Becher o scattata da voi o da me, incarna il "paradosso semiotico e fenomenologico" che rimanda alla sua natura di icona indessicale.
Se le loro foto fanno semplicemente ciò che fa qualunque foto, e se lo fanno meglio, il modo più puro e più fedele alla natura del mezzo, perché si esita a definire i Becher fotografi? Non lo sono forse profondamente? Non appartengono forse alla linea dei Maxime Du Camp, dei Timothy O'Sullivan, degli Atget e dei Sander? Ciò che le loro foto hanno di notevole non è forse il loro modo di non farsi notare, di non rivendicare alcuna estetica né alcuno statuto artistico, di essere come le foto di Atget, dei semplici "documenti per artisti" piuttosto che delle "foto d'arte"? Sì, no. I Becher potrebbero passare come gli eredi diretti di Atget se fosse ancora possibile definirli naive, inconsapevoli o istintivi nel loro uso del mezzo, se la pura strumentalità della loro pratica non fosse contaminata di riflessività, se il luogo che avrebbe potuto essere assegnato loro da John Szarkowski in una storia della fotografia considerata "in termini di presa di coscienza crescente da parte dei fotografi delle caratteristiche e dei problemi inerenti al mezzo" non fosse già stato preso da lungo tempo proprio da personaggi come Adget.
Ma i Becher impediscono questa identificazione a torto o a ragione il loro posto nella storia dell'arte contemporanea se lo sono guadagnato fianco a fianco agli artisti concettuali. Quando cominciano ad essere riconosciuti negli ambienti della stright photography è tardivamente, e solo dopo essersi fatti conoscere in un ambiente che li considera non come fotografi ma come artisti. A rigore artisti "che si servono della fotografia". Fanno fotografia, ma non sono fotografi. Se dobbiamo credere alla giuria della Biennale di Venezia sono scultori. Tuttavia non fanno scultura. I Becher non fanno affatto scultura, la fotografano. Inoltre, ciò che fotografano non è scultura se non una volta fotografata, inquadrata dalla macchina fotografica, estratta dal suo contesto con l'inquadratura, separata dal suo uso e dalla sua utilità trasferita su pellicola e preparata per il consumo estetico e, infine, intitolata: Anonyme Skulpturen. Questo il titolo di una delle loro prime raccolte di foto (una serie di torri di raffreddamento ed una serie di pozzi minerari), il cui sottotitolo annuncia Eine Tipologye Technischer Bauten. Così l'operazione è esplicita: nel mezzo della foto i Becher impongono alla nostra attenzione degli edifici industriali, delle "costruzioni", delle "strutture", degli "oggetti" — come diavolo dobbiamo chiamarli? — che compongono una tipologia dell'edificio tecnico e che essi ribattezzano sculture. A dispetto di Shakespeare, non c'è dubbio che questi oggetti stanno meglio con il loro nuovo nome: profumano d'arte.
Queste sculture profumano d'arte, ma restano comunque anonime, nessuno le ha firmate, nessuno ne rivendica la paternità. Il libro è firmato, ma questo significa che i Becher si assumono la responsabilità di essere gli autori delle foto e nient'altro. Intitolando il libro Anonyme Skulpturen, essi si sottraggono alla responsabilità di essere gli autori delle sculture che le foto contengono e designano. Immagino che debbano farlo non avendo né concepito né generato quelle sculture che, senza di loro, non sarebbero esistite come tali e che senza la fotografia non sarebbero altro che delle costruzioni tecniche. Esse sono sculture, ma senza autori. In questo le poverette condividono il triste destino di orfane che Valéry attribuisce alla scultura in genere.
Ma di chi la Pittura e la Scultura sarebbero orfane? La loro madre Architettura è morta, risponde Valéry. Lui non pensava evidentemente alle costruzioni tecniche, che le foto dei Becher mostrano, se non morte, almeno sconsacrate. Valéry doveva avere in mente l'architettura con la A maiuscola, qualcosa come la scenografia legittima e sacra del potere, che si incarnava nel tempio greco nella cattedrale gotica o nel palazzo rinascimentale. Un grande classico ipersensibile alla modernità, non avrebbe dovuto deplorare la sua morte che a metà. Lo immagino, negli anni '20 discutere di architettura con un altro grande moderno dotato di sensibilità classica, Walter Gropius, e immagino che Gropius gli risponda: Pittura e Scultura sono nel limbo dell'anonimato, poiché la loro madre Architettura non è ancora nata. Valéry sarebbe stato d'accordo.
Architettura morta, architettura che deve ancora nascere. Non è la stessa cosa. Per Valéry ciò che si costruisce attorno a lui non merita più il nome di Architettura, per Gropius non lo merita ancora. Evidentemente non sono le stesse costruzioni. Nel frattempo il nome è ipotetico, indegno, inutilizzabile. Io l'ho messo in bocca a Gropius per fargli rispondere a Valéry, ma Gropius si sarebbe astenuto superstiziosamente di pronunciarlo. La parola che utilizza, in verità, è der Bau. Parola infinitamente più umile, ma carica di una ambizione pari a quella dell'Architettura con la A maiuscola, come testimonia la prima frase del Manifesto del Bauhaus: "Das Endziel aller bildnerischen Tätigkeit ist der Bau" ("La finalità di ogni attività creatrice è der Bau"). Bisognerebbe tradurre: la costruzione, l'edificio, l'edificare. A questo Bau egli erige una casa- non un museo ma una scuola, che incarica di mettere al sicuro la gestazione della pittura e della scultura dell'avvenire. Le orfane di oggi cresceranno domani nella casa della loro madre quando der Bau avrà riacquistato il suo titolo di architettura moderna.
È una storia chiusa, da un bel po’ di tempo. È una storia chiusa quando Bernd e Hilla Becher, alla fine degli anni '50 hanno iniziato la loro Typologie Technischer Bauten. All'espressione "architettura moderna" è facile dare come referenti le opere di Gropius, naturalmente, di Breuer, di Mies, di Le Corbusier. Esse hanno la stessa legittimità del tempio greco, della cattedrale gotica o del palazzo rinascimentale. Ma nel 1922, quando Le Corbusier cerca la via che lo porta Vers une architecture, o nel '19, quando Gropius crea il Bauhaus, che referenti danno al Bau, quali modelli a quest'architettura ancora a venire? Conosciamo il più celebre, tratto dall'America industriale ed esaltato da Le Corbusier come da Gropius: il Silos di grano. Aggiungetevi il deposito, la fabbrica, il ponte, la torre d'acqua, la torre di raffreddamento, il gasometro, ed avrete una Typologie Technischer Bauten fatta di "fabbricati industriali", "costruzioni", "strutture" — come diavolo chiamare tutta questa architettura anonima e inconsapevole di se stessa — che va ad aggiungersi al Crystal Palace di Paxton, alla Torre Eiffel, ai ponti di Maillard, a tutte le opere d'arte firmate che hanno fatto la preistoria dell'architettura moderna per offrire un referente all'espressione der Bau. Nel procedere dei Becher vi è una infinita tenerezza per i Technischer Bauten che fotografano, insieme ad una grande volontà di riabilitazione. I Silos di grano e le torri d'acqua non hanno mai avuto accesso all'architettura, tantomeno allo statuto di opera d'arte firmata. L'architettura moderna ha conquistato la sua legittimità e il suo successo, si potrebbe dire, sulle loro spalle; il concetto di Bau ha conquistato il suo statuto di architettura a spese dell'anonimato dei suoi referenti. I Becher gli restituiscono una dignità, e giustamente coloro che erano preoccupati della salvaguardia del patrimonio industriale hanno visto in essi degli alleati. Ma invano si cercherebbe nella loro opera questa nostalgia un po' posticcia, questo idealismo retrospettivo, questa estetizzazione del passato, questo romanticismo feticista che sono un po' la sigla dell'archeologia industriale. E invano si cercherebbe qui un tentativo revisionista di riscrivere la storia dell'architettura. Ne vedo un segno infallibile nel termine sculture con cui ribattezzano gli edifici che fotografano. Esso spande un profumo d'arte, certo, ma un po' stantio; le mostra in disuso (cosa spesso vera) anche quando sono ancora in funzione; rifiuta loro il diritto di issare l'estetica funzionalista come una bandiera, una ideologia, una utopia. Se per Corbusier o Gropius, nel 1920, era troppo presto perché un silos o una torre d'acqua meritassero di essere chiamati architettura, per i Becher è troppo tardi. Nel frattempo l'estetica funzionalista ha generato l'idioma moderno, l'idioma moderno è divenuto l'international style.
Questo è ciò che registra l'arte di Bernd e Hilla Becher.
Essa non perde di vita né il successo, né lo scacco del modernismo architettonico. Essa parla della sua fede funzionalista, del suo entusiasmo per la macchina, della sua esaltazione prometeica per la tecnologia; ma parla anche della sua indifferenza alla miseria e della sua incapacità a considerare i guasti causati. Ma se ne tiene anche a distanza, o meglio in disparte, come se fosse indecente sostenere una causa. È difficile non vedere nell'interminabile inventario dei Becher un ritratto crudele di ciò che l'industria ha collocato nell'ambiente di più assurdo, di meno progettato, di meno bello, di meno rispettoso della natura, di meno umano. Ma è altrettanto difficile leggerla come una requisitoria politica o ecologica. L'opera si tiene a eguale distanza dal rimpianto e dalla denuncia, pudica constatazione.
Tuttavia il sentimento principale che si sviluppa da queste foto non è una fredda constatazione. Bisognerebbe essere insensibili alle attenzioni di cui la coppia circonda le sue foto — o le sue sculture — per non sentire tutto l'amore rispettoso che essi portano loro. Bisognerebbe essere ciechi alla profonda motivazione del loro lavoro per non vedere che essi non eliminano dalle loro fotografie — dalle loro sculture — ogni stile personale se non per meglio liberarne l'estetica impersonale. Una volta divenuti sensibili, ecco la meraviglia, il piacere della scoperta, la gioia di capire e di paragonare. Sfogliare un catalogo dei Becher è prendere una lezione di estetica vernacolare, è imparare a leggere le differenze di composizione, di ritmi, di soluzioni formali laddove la distrazione quotidiana non ci lascia vedere che indifferenza e standardizzazione. Significa godere intensamente della propria capacità di discriminazione. Significa soffrire perché essa non è sostenuta da un vocabolario tecnico adeguato che vi permetterebbe di leggere l'architettura di un gasometro come se si trattasse di una cattedrale. In altre parole è riportarsi ai sentimenti e alle emozioni che devono aver sentito Le Corbusier e Gropius all'epoca in cui in un silos si profilava il modello dell'architettura a venire. Senza averlo voluto ma non senza saperlo. Posso esserne stupito, i Becher non mi hanno autorizzato a farlo. È perché l'architettura con la A maiuscola è morta che l'ingegnere si è momentaneamente sostituito all'architetto. L'architettura moderna, che l'arte dell'ingegnere aveva ispirato non ha ancora ripreso il suo posto; il Bauhaus non è ancora riuscito ad essere la casa del Bau in cui pittura e scultura troveranno un nuovo focolare; e il silos o la torre d'acqua non sono ancora architettura. Grazie ai Becher io li ho comunque guardati, contemplati, studiati come se lo fossero. In questo come se, si colloca un piacere più segreto della meraviglia, qualcosa come una lucida innocenza, la coscienza di ritrovare intatto e senza macchia, un ideale. Penso spesso che la posta in gioco in questa fine secolo, per l'arte e la cultura, è di cercare i mezzi per ritrovare una certa innocenza, ma è un'innocenza con scaltrezza, con disincanto e con ironia. E per me è sempre fonte di riflessione incontrare un'opera che non promette niente ma che suscita un sentimento inedito, una specie di giubilazione che fa rovesciare come un guanto il programma della modernità, una specie di avvenire paradossale che apre uno sguardo deliberatamente retrospettivo . L'opera dei Becher è di quel tipo, essa riconduce là dove l'utopia dell'architettura moderna è cominciata e dove la Città Radiosa resta portatrice della memoria dell'utopia. Essa riconduce alla meraviglia di Le Corbusier e di Gropius e prima di loro di van De Velde, di Muthesius, di Behrens, di Loos, di Sullivan, davanti all'estetica immanente, involontaria, forse inconsapevole, irriflessa in ogni caso, dei prodotti dell'ingegneria. Essa riconduce dunque alle fonti dell'architettura moderna.
È il vocabolario dell’architettura, sono le forme e i criteri dell’architettura, la storia e la memoria dell’architettura che le foto dei Becher evocano e convocano. Non sono certo il vocabolario, le forme la storia della scultura. Tuttavia, assai curiosamente, non è grazie ad un cambiamento di nome che il ritorno alle fonti dell’architettura moderna al quale i Becher invitano è un autentico ritorno e non una regressione. È grazie al nome di scultura con cui i Becher hanno ribattezzato i silos o i castelli d’acqua grazie al profumo d’arte con cui questo nome li circonda e che li mostra disfunzionalizzati, grazie al divieto che essi gli intimano di inalberare l’estetica funzionalista come un’utopia, che io posso guardarli come se fossero architettura, e come se proprio io fossi Le Corbusier o Gropius mentre scoprono la loro bellezza.
Questo nome, scultura, non tuttavia l’ultima parola dell’arte dei Becher. Esso è sempre accompagnato dall’aggettivo "anonima" come per ricordare che la scultura resta orfana. Una matrigna li ha raccolti, ed ha per nome fotografia. Essa è più ospitale dell’orfanotrofio del museo, ed è in ogni caso ciò a cui ha forse pensato più di uno scultore, Brancusi in testa. Essa però non è che una madre sostitutiva: e non ha più il potere di concepire e di generare, essa non ha che quello di prendere in carico ciò che esiste già. Con i Becher essa spinge l’umiltà fino al punto da venir considerata come semplice constatazione, documento, registro. Come il saggio del proverbio cinese, essa si indirizza allo spettatore esortandolo a guardare il dito per vedere la luna non il dito per vedere il dito. Lungi dal replicarla riflessività del mezzo fotografico auto referenza, come fa buona parte dell’arte concettuale alla quale essa è stata a torto associata, l’opera dei Becher fa un uso morale della svolta che precipita il fruitore da un uso transitivo ad un uso estetico dell’immagine e viceversa. Essa fa in modo che alla fine del dito vi sia un mondo, un mondo che è in tutto il mondo esteriore, quello nel quale gli uomini vivono e muoiono, amano e lavorano, ma che non è tuttavia il mondo fotografico.
Non ha senso situare fuori dalla fotografia il mondo che accoglie le sculture anonime dei Becher, poiché al di fuori nulla li identifica come sculture. Ed è tuttavia fuori che esse esistono e che una volta accolte nel mondo fotografico esse esistono in quanto sculture. L’album attesta che là, nel Ruhrgebiet, esiste un pozzo minerario e che laggiù, in Pennsylvania, ne esiste un altro. Ecco i documenti che provano la loro esistenza. Ma, anche se esse non sono intitolate Anonyme Skulpturen (titolo che i Becher non hanno utilizzato che una volta, e quasi come una boutade), è chiaro che l’album fa di più: esso trae questi pozzi minerari dalla negligenza in cui essi stagnavano e li eleva allo statuto di autentici monumenti. È là dove sono, certo, nella Ruhrgebiet o in Pennsylvania, che essi sono dei monumenti, tuttavia è al semplice documento fotografico che essi devono il loro esser monumenti. Inversamente, il fatto di essere stati fotografati non conferisce loro, tuttavia, là dove sono, alcuna monumentalità che essi non possedessero già dapprima. Ci si arena nel descrivere l’operazione assai particolare che i Becher fanno subire alle costruzioni che inventariano quando si pensa che la loro fotografia riprende dallo stretto genere documentario e non fa che riprendere una qualità monumentale già presente nel reale, ma inavvertita. Ma non si raggiunge un risultato migliore se si immagina che la loro scultura sia investita da uno statuto concettuale o istituzionale di monumentalità dalla fotografia. Sarebbe meglio dire, al prezzo di un neologismo, che i Becher hanno forse inventato il genere monumentario in fotografia.
Io non oserei giurare che lo hanno inventato, benché abbia a fatica trovato altri praticanti al di fuori dei loro allievi.
Oserei ancor meno giurare che si tratta di un genere, benché il documentario ne sia uno. Si tratta piuttosto di un regime che non mi pare applicabile che alla fotografia, e alla fotografia in quanto madre — o piuttosto suocera — della scultura. Il monumentario sta al monumentale come il documentario sta al reale in genere. Nel regime monumentario, la monumentalizzazione non è mai effettiva, ma anche non è mai semplicemente conferita, come uno statuto nominale. In altre parole, essa non è né dell’ordine del reale, né solo dell’ordine del simbolico; essa riguarda il referente, vale a dire il reale in quanto punta del simbolico (la luna, in quanto essa sta alla fine del dito; il mondo in quanto fotografato).
Più che un genere estetico, il regime monumentario è, nell’opera dei Becher, un codice morale. Un codice puritano, certo, e che non soffre ironie, ma un codice di cui, personalmente, sento personalmente il bisogno storico nel momento in cui l’ironia, arma romantica, e dunque moderna per eccellenza, si è spuntata a forza di non prendere per bersaglio nient’altro che il piccolo mondo incestuoso dell’arte. E questo codice etico ha i suoi segni estetici. Ogni fotografia, soprattutto il ritratto, intimo o ufficiale, la foto di gruppo o di famiglia, l’album di souvenir o il libro delle storie, in breve la fotografia imparata come "posa", trasforma gli esseri e le cose in monumenti personali, familiari, o su scala sociale. Si dice allora che la foto immortala l’evento, il che significa al contrario: che essa lo dichiara defunto e che si presenta come un oggetto sostitutivo grazie al quale elaborare il suo lutto. Questi monumenti grandi e piccoli sono, in tedesco, dei Denkmäler, in inglese dei memorials. Beh, io trovo questa dimensione memoriale stranamente assente dalle foto dei Becher. Anche se abbandonate, e per metà in rovina, queste architetture vivono. Le immagini che i Becher ce ne offrono non sono destinate a consolarci della loro sparizione. Viceversa, anche se nuove ed ancora in attività, queste architetture sono già sparite. La loro vita nelle immagini che i Becher ce ne offrono non è già più una vita terrena. È come se esse esigessero da parte nostra un atto di fede, di una fede che costringe all’ammirazione, anche se non dovessimo condividerla. Esse non ci risparmiano il dolore del lutto, ma esigono che si pratichi la gioia davanti alla morte. Non è quella di cui parla Bataille, piuttosto quella che comunica la musica di Bach. C’è del Bach nell’arte dei Becher: ciò che di meglio ha prodotto la cultura germanica.