Appunti di lavoro


A r t h u r   D a n t o

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Non intendo presentare delle nuove teorie ma, in linea di massima, quello che è stato il mio percorso. Uno degli aspetti più importanti nel parlare di arte per me è stata la prossimità con New York e con la sua scena artistica. Se questo periodo è stato molto importante per l’arte, è stato altrettanto favorevole per la teoria dell’arte, perché mai in nessuna epoca vi è stata un’arte che si prestasse così bene ad essere trasfusa in una filosofia e che desse il fianco alla possibilità di compiere uno studio teorico.
Il punto di partenza è un mio testo del 1984, The Philosophical Disenfranchisement of Art, La destituzione filosofica dell’arte. Il concetto di fine dell’arte può suonare come una cattiva notizia, ma contemporaneamente esso porta con sé una buona notizia. Sempre nel 1984 Hans Belting pubblicò un testo La fine della storia dell’arte? e quindici anni dopo ha ripubblicato un testo dallo stesso titolo, ma senza il punto di domanda. Recentemente mi è capitato di incontrare Belting a New York, e con lui si notava come fosse singolare che tutti e due avessimo scritto un testo sulla fine dell’arte, e che a tutti e due fosse capitato che le rispettive figlie sposassero dei pittori... Anche questo aspetto si lega assai bene, in fondo, al concetto di fine dell’arte.
Belting ha scritto un altro testo che si chiama, Bilds und Kunst, L’immagine e l’arte, e che ha un meraviglioso sottotitolo, L’immagine prima dell’era dell’arte. È un libro che parla di alcune immagini sacre del primo Medio Evo, dell’arte dei secoli bui, immagini che per la maggior parte sono conservate qui in Italia, a Roma, e appartengono al X secolo. Una caratteristica di queste immagini è che pur essendo considerabili arte, allo stesso tempo erano dai loro contemporanei percepite e fruite in una maniera molto diversa. Questa definizione dell’immagine prima dell’era dell’arte può trovare un proprio corrispondente nell’immagine dopo l’era dell’arte, che corrisponde al periodo in cui stiamo vivendo noi, cioè all’arte post-storica. Dunque, posto che il periodo dell’era dell’arte cominci nel ’400, adesso potremmo dire di trovarci pienamente in un periodo post-storico, in cui il modo di guardare, di percepire e di fruire l’immagine è molto diverso da come lo è stato nell’era dell’arte.
Io credo che l’idea della fine dell’arte si possa definire anche come fine della narrativa, cioè la fine della presenza, all’interno dell’arte, di una struttura narrativa precisa, per cui si può parlare di una ascensione dell’arteverso una forma di autocoscienza sempre maggiore. Può suonare hegeliano; e in effetti Hegel aveva parlato già nelle sue Lezioni di Estetica del 1821 della fine dell’arte come di un momento che si raggiungeva con una presa di coscienza da parte dell’arte e con un riconoscimento della propria natura interna. Questo fenomeno della fine della narrativa e della fine del racconto all’interno dell’arte, si può collocare all’incirca nei tardi anni Sessanta, cioè quel momento in cui l’arte moderna, dopo aver attraversato una storia molto travagliata, rivolta soprattutto verso l’autocoscienza, determina una forma diversa di narrativa in cui la presa di coscienza della struttura interna è molto più importante. In un certo senso questo spostamento è simile a ciò che accade nel bildsdung roman tedesco, che è quella forma di romanzo che rappresenta una tendenza del personaggio ad una presa di coscienza della propria identità e della propria natura dopo la quale può cominciare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo.
Nel mio senso ciò che individuo come cambiamento radicale della forma dell’arte, della presa di coscienza dell’arte, lo percepii per la prima volta ad una mostra di Andy Warhol nel 1964, a New York, alla Stable Gallery, sulla 74a Strada — mostra in cui erano esposte tra l’altro delle Brillo Boxes. Di questa mostra ho continuato a scrivere per molto tempo; era una mostra delle scatole di quel detersivo per piatti (che non so se esista anche qui in Italia). Mi aveva colpito perché, in realtà, la filosofia da sempre si era occupata del problema della natura dell’arte, cioè di che cos’è la natura dell’arte, però in nessun caso questa questione era stata posta in maniera così diretta ed esplicita come in questo lavoro di Andy Warhol.
Normalmente la questione filosofica si pone sempre con questa struttura: ci sono due oggetti che esteriormente possono rassomigliarsi, ma la cui natura è diversa, e la stessa questione si pone nei confronti delle Brillo Boxes di Warhol, cioè come mai una Brillo Box che apparentemente è totalmente simile a quella che si può trovare in un supermarket è arte, mentre quella che si trova effettivamente in un supermarket non è arte. E quindi questo è il primo momento in cui il problema si è posto nel modo più chiaro. Non è stato solo Warhol a proporre questa questione, anche se questo caso era estremamente singolare — ma anche in Europa i nouveau realistes ponevano un problema simile, ad esempio si pensi a Klein o Arman.
Vorrei aggiungere due corollari a questa affermazione. Il primo — dichiarato con grande limpidezza da Warhol — è che l’opera d’arte non deve avere una forma particolare; in realtà e solo in questo momento che questo corollario viene definito come certo; in tutto lo studio della filosofia dell’arte, da Hegel a Platone a Heidegger la gente continuava ad avere un paradigma molto preciso sulla forma che doveva avere l’opera d’arte e su alcune proprietà caratteristiche che le competevano. Quindi quello che cambia profondamente con la mostra di Warhol, in quel momento storico, è che all’opera d’arte non viene richiesta nessuna forma particolare e che le analisi dell’opera d’arte non si fa attraverso la vista ma attraverso l’analisi filosofica.
Vediamo un paio di esempi relativi al secondo corollario. Esso afferma che la sola informazione puramente visuale è impossibilitata a dire se un’opera sia d’arte o no, e inoltre non può dire quale tipo di interpretazione bisogna dare ad un’opera d’arte. Recentemente stavo sfogliando delle vecchie riviste d’arte americane. Su un numero di Art in America c’era una foto di Walker Evans, la foto di una contadina, che è una delle immagini classiche del XX secolo. Non ho pensato immediatamente a Walker Evans, guardando a quell’immagine, quanto a Sherrie Levine. La Levine è un’artista che si è totalmente appropriata della proprietà autoriale delle fotografie di Evans. Sherrie Levine infatti ha rifotografato queste fotografie come un proprio lavoro intitolato After Walker Evans — dopo Walker Evans, o secondo Walker Evans.
Le differenze di senso tra le due immagini, tra quelle di Evans e quelle delle di Levine, è astronomica. Le immagini di Evans parlano di umanità, foto nelle quali il lavoro e la fatica sono scolpiti nel viso di questa contadina. L’immagine di Sherrie Levine invece riguarda le immagini, e parla della proprietà delle immagini, del problema di a chi appartengano, ma anche della solitudine e dell’intimità — e questa è un’interpretazione che l’informazione visiva da sola non può dare, ci vuole un altro tipo di informazione.
Un secondo esempio è il seguente. Prima di venire qui a Milano ho tenuto una conferenza alla Kunsthaus di Zurigo dove c’è una galleria, Bruno Bischofberger. Lì c’era una mostra di Mike Bidlo, intitolata Not Andy Warhol. Cosa aveva fatto Bidlo? Aveva riprodotto delle Brillo Boxes di Warhol e le aveva presentate nello stesso modo in cui erano state presentate al Museum of Art di Pasadena, in California. In questo caso in realtà l’informazione visiva anche in questo secondo esempio è totalmente insufficiente, anche se è difficile, e non sono ancora riuscito a capire quale informazione voglia comunicare Bidlo con questo lavoro. Diciamo che se le Brillo Boxes di Warhol sono un’opera di filosofia pura, le Brillo Boxes di Bidlo sono un’opera di filosofia applicata, e non so fino a che punto approfondita.
Bidlo è un esempio estremamente interessante da avvicinare per contrasto a Warhol. Warhol aveva uno stile preciso e ben definito; aveva in questo qualcosa dell’artista classico, Bidlo ne è invece totalmente privo. Bidlo è un appropriazionista. Da quando ha iniziato la propria carriera Bidlo ha dipinto sempre opere di altri; ha inizialmente dipinto dei Morandi, dei Picasso e dei Léger, fino ad avere dei problemi legali con la Fondation Léger, a causa di queste riproduzioni.
Bidlo potrebbe rifare anche un Piero della Francesca, una Madonna del Parto, o La storia della vera Croce; ma con la differenza che i Piero della Francesca di Bidlo non avrebbero nessuna risonanza e rassomiglianza stilistica con le opere degli artisti contemporanei di Piero della Francesca mentre hanno delle risonanze e delle assonanze stilistiche molto forti nei confronti di opere di artisti a lui contemporanei, come Cindy Sherman, o Jenny Holzer, o Eva Hesse, anche se formalmente possono essere altrettanto belli che un Piero della Francesca.
Il mondo dell’arte di oggi non ha un’unità stilistica che si possa verificare con l’occhio.
Non tutto è possibile in ogni tempo. Wöllflin, nelle sue tesi sulla storia dell’arte, ha definito le leggi di queste possibilità; egli parla di una successione di stili nel tempo. Anche artisti che operano nello stesso periodo come per esempio Terbourg fiammingo e Bernini, in realtà, se messi a paragone e esaminati, presentano delle caratteristiche comuni, e sono, come diceva Wöllflin, malerish, cioè pittorici. Allo stesso modo, Botticelli e Lorenzo da Credi pur sembrando a prima vista totalmente lontani, in realtà si può verificare come, pur appartengano allo stesso periodo stilistico e come Botticelli e Bernini invece appartengano a due periodi stilistici totalmente diversi, per cui un artista al tempo di Botticelli non aveva la possibilità di produrre delle opere come quelle di Bernini e viceversa. Questa è quella che si definisce legge delle possibilità.
In questo particolare momento, cioè oggi, quello che io intendo per fine dell’arte è che in questo momento tutto è possibile, e che la legge delle possibilità non esiste e non vi è niente e nessuna forma di cui un artista non si possa appropriare. Bidlo è solo un esempio paradigmatico di questo; non voglio dare un giudizio di valore: anche se parliamo di fine dell’arte, in realtà è un periodo che trovo molto interessante; ma questo è il primo periodo della storia in cui non vi è una direzione precisa, e in cui ogni scelta è possibile.
Abbiamo parlato di un momento in cui tutte le possibilità sono aperte: in realtà, un momento molto simile a quello di cui parla Hegel nella sua filosofia della politica, una fine della storia in cui tutti sono liberi, quindi la storia è vista come un processo graduale di liberazione degli uomini, partendo ad un momento in cui i liberi sono pochi fino ad uno in cui tutti sono liberi che egli identificava con il momento in cui viveva. Così per la storia dell’arte, in questo momento; il momento attuale è molto diverso da quello che trovai a New York quando cominciai a interessarmi di arte. Quello fu un periodo, durato tutti gli anni 40-50 e in parte prolungatosi fino agli anni 60 caratterizzato dalla presenza di un famoso critico, che scriveva per il Nation — di cui sono corrispondente da molti anni — cioè Clement Greenberg.
La visione di Greenberg della storia dell’arte era profondamente diversa da quella che ora vi andrò proponendo. Egli aveva una teoria del modernismo secondo la quale la pittura svolge un processo verso la presa di coscienza della propria natura, che Greenberg identificava con alcune caratteristiche: la pittura deve presentarsi come piatta, non deve essere illustrativa, deve lasciare uno spazio sufficiente alla scultura e all’architettura, e vi sono dunque degli aspetti relativi allo spazio e alla superficie che sono assolutamente centrali. Il processo che portava al modernismo, e dunque ad una forma d’arte ortodossa era quella di una presa di coscienza della propria essenza che poi doveva dare forma a degli esempi puri di se stessa. Naturalmente questa era una visione molto dogmatica, in base alla quale vi era una sola possibilità di fare arte; tutto il resto dell’arte era retrogrado, tutto il resto dell’arte non si poteva fare, e ciò implicava un distacco tra i generi e tra le singole forme d’arte totale, senza nessuna comunicazione; una situazione molto diversa da quella che si troviamo di fronte oggi.
Nell’ispirazione greenberghiana e nel suo approccio ebbero una grande influenza nel mondo dell’arte.
Un buon esempio di ciò fu Ad Reinhardt. Era molto forte la sensazione di essere arrivati alla fine di un progetto; Reinhardt dipinse quello che doveva rappresentare l’ultimo quadro, una tela quadrata, 50 inches x 50 molto belli, indubbiamente. Egli morì molto giovane e forse avrebbe continuato a produrre quei bellissimi "ultimi quadri" neri se i musei avessero continuato a comprarne.
Ci furono molti altri artisti che fecero propria questa sensazione di essere arrivati alla fine di un progetto; tra essi Robert Ryman, ad esempio, che ebbe invece come caratteristica quella di produrre dei quadrati bianchi, da quando ha iniziato a dipingere. Naturalmente ci sono delle variazioni, in questi quadri che ha prodotto per trent’anni, però si potrebbero descrivere in modo abbastanza sintetico come quadri bianchi. Altri artisti invece dopo aver visto Ryman e aver visto che egli era arrivato alla fine di un progetto artistico, hanno pensato che fosse loro concesso di staccarsi dal paradigma, e di poter fare quello che veramente volevano fare. Tra essi un artista nero, che amo molto: Robert Colescott, che ha dichiarato di voler mettere dei neri nella storia dell’arte. Per questo ha ridipinto molti capolavori; per esempio i Mangiatori di patate di Van Gogh con dei contadini neri, intitolando la nuova opera Eaten potatoes, che in gergo significa "negro" in senso spregiativo; o il famoso quadro di Larner George Washington crossing the Delaware, modificato mettendo dei neri al posto degli eroi della Guerra di Indipendenza. Poi ci sono altri artisti come Jenny Holzer; all’inizio lei era piuttosto brava a dipingere delle strisce e ad un certo punto si è stufata e ha detto: "Voglio provare a fare qualcosa di diverso, magari non sarà arte, ma voglio fare dei testi". In realtà dunque questo dogmatismo in cui il paradigma era fondamentale, è stato necessario affinché si giungesse successivamente ad uno stadio in cui non vi è più una scelta obbligata, ma in cui si è liberi, senza più una direzione.
Si sarà capito che la mia idea dell’arte che arriva alla propria fine è molto diversa dal paradigma di Greenberg. Se Greenberg vedeva l’arte che giunge alla propria fine come un momento in cui gli artisti producevano delle forme pure, conformandosi a dei canoni molto precisi, quindi un quadrato bianco o un quadrato nero, per me è molto diverso. Secondo la mia idea l’arte che giunge alla propria fine è l’arte che arriva alla comprensione filosofica della propria identità, è la Brillo box di Warhol, cioè un oggetto che è totalmente simile ad un altro oggetto che però è arte, mentre l’altro oggetto, quello reale non lo è.
Per questo la fine della storia dell’arte porta come conseguenza un distacco tra l’arte e la filosofia, secondo cui i filosofi si occuperanno di fare il proprio lavoro, mentre gli artisti si dedicheranno a fare quello che vogliono senza doversi conformare a nessun paradigma, a nessun progetto, a nessuno schema prestabilito.