Appunti di lavoro


D a n   C a m e r o n
Il Cotto e il Crudo — Temi e storia di una mostra

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Una delle ragioni principali per cui la mostra Il Cotto e il Crudo doveva essere realizzata in questo preciso momento storico, è che un punto nodale è stato finalmente raggiunto alcuni anni fa quando alcune persone (di cui rispetto l'opinione) hanno cominciato a contestare che fra le proposte contestuali caratteristiche della scena dell'arte internazionale dominante negli anni Ottanta, la mostra collettiva, realizzata e organizzata indipendentemente, sopravviveva alla propria utilità.
All'inizio, non fu difficile capire come fossero giunti a questa conclusione. Agli albori degli anni Ottanta, la mostra Les Magiciens de la Terre aveva gettato una bomba nella piazza del villaggio della comunità dell'arte internazionale, proponendosi di definire qualcosa noto come "arte globale", all'interno di un contesto curatoriale che tentava di esplorare questa "nube panculturale" in cui l'arte occidentale più "avanzata" veniva contrastata dalle opere create da artisti che lavoravano in strutture sociali definite dall'Occidente in termini di "diversità". Sebbene il legame comune fra le due posizioni fosse l'implicita qualità di sciamanismo dichiarata già nel titolo, la debolezza del progetto sembrava risiedere nell'incapacità di resistere al porre in primo piano la retorica dell'identità, in una costruzione dialettica che coinvolgeva l'"Io" e l'"Altro". In altre parole, per mostrare una "autentica" esperienza d'arte, l'intero processo creativo veniva ridotto ad una specie di vaga celebrazione dello spirito umano, con i super inflazionati artisti occidentali che facevano del loro meglio per stare al passo coi loro colleghi più "genuini" (leggi: "primitivi"), ma non riuscivano che a dimostrare il limite di uno spirito autoimposto con dignità.
Con l'infrangere certi precedenti, l'impatto di Les Magiciens de la Terre si estese ben al di là della sua capacità di gestire (o semplicemente partecipare) il discorso che aveva iniziato, soprattutto perché annullava la maggior parte dei miti più influenti e solidi dell'Occidente, soprattutto non sarebbe più stato lo scopo dominante la sua implicita abilità di descrivere con obiettività un futuro per l'arte con cui servire i propri stessi interessi. Nel suo atto di stabilire la simultaneità geografica della pratica artistica come un problema centrale attorno al quale l'arte degli anni Novanta continua a gravitare, Les Magiciens ha assunto veramente la responsabilità primaria di aver reso d'un colpo obsolete molte mostre internazionali. Istituzioni considerate precedentemente sacrosante dalla coscienza artistica del tardo ventesimo secolo, quali Documenta e la Biennale di Venezia, sono diventate ampiamente inefficaci nei loro vani tentativi di giostrarsi tra gli interessi dei Paesi più potenti, gallerie e artisti, e lo scopo dichiarato di rappresentare il lavoro di artisti emergenti o meno noti del mondo.
Il motivo principale del fallimento di questa formula di lavoro, è che si fonda su certi precetti neo coloniali di guerra fredda che continuano a codificare significati culturali non occidentali in termini di un presunto desiderio dei loro autori di assimilarsi al sistema di valori dell'Occidente. Comunque, poiché gran parte delle pratiche artistiche più interessanti degli ultimi cinque anni è basata sulla speranza di rivalutare e rinegoziare esattamente quei precisi valori, ogni tentativo a metà di contestualizzare questo lavoro all'interno di una cornice di continuità con il passato — anche il passato recente degli anni Sessanta e Settanta — è destinato a risultare un confuso e autocontraddittorio spettacolo in cui una mano letteralmente non sa quello che sta facendo l'altra.
Mettendo da parte per un momento la questione se questa stagnazione del mandato curatoriale sia dovuta più a una debole difesa del ruolo intellettuale che, semplicemente, a vigliaccheria morale, si è fortemente tentati di chiedersi che cosa succederebbe se le tante mostre che pretendono di dare una panoramica internazionale non fossero più basate su una presunta egemonia della sensibilità occidentale, ma prendessero come punto di partenza l'incapacità dell'Occidente di sostenere il suo scopo di autoarricchimento attraverso la cultura senza sacrificare il proprio ruolo storico di arbitro globale dei valori artistici.
In altre parole, se la comunità culturale si convincesse della necessità di rinunciare a nutrirsi di codici predigeriti, di esperienza collettive reincanalate tramite le mostre, e cominciasse invece a sostenere la nozione di mostra di gruppo come un luogo di contatto tra situazioni culturali differenti, potrebbe cominciare a far sentire la sua presenza un diverso modello di significato artistico.
Comunque, è proprio su questo punto cruciale che le paure e le insicurezze della comunità artistica hanno cominciato a convergere attorno al punto focale della politica. Poiché la ben nota difesa del bisogno di allargare le definizioni sociali di espressione artistica tende ad emergere dal dibattito di centro sinistra sulla diversità e dal dibattito dell'estrema sinistra sulla giustizia sociale, una notevole confusione è sorta riguardo al fatto che lo sviluppo della pratica artistica sia divenuto o meno ostaggio dei conflitti ideologici in cui la primarietà dell'atto creativo non è altro che sacrosanto.
Se dovessimo giudicare in senso stretto la Whitney Biennal of American Art del 1993, che sposava un inconsueta forma di pio liberalismo, o la Biennale di Venezia del 1993, in cui il volere curatoriale di de-nazionalizzare l'arte rapidamente si dissolveva in meandri populisti, forse dovremmo dire che queste paure sono basate su qualche fosco, ma nondimeno presente, pericolo. Comunque — se scegliamo di non seguire il disimpegno di moda contro il multiculturalismo e la politically correctness — possiamo cominciare ad apprezzare che il paradigma proposto da Les Magiciens, strutturalmente non fosse collegato a cause di radice politica, tranne che nell'ovvio senso che i curatori che avevano scelto di vedere due mondi, uno fatto da loro e l'altro no, fossero intrinsecamente incapaci di trascendere il loro stesso incipiente neo colonialismo, e che il "contenuto" della mostra (qualunque fossero le intenzioni dei curatori) fosse perciò drammaticamente alterato. La possibilità, ad esempio, che artisti non occidentali potessero essere stimolati dalla possibilità di realizzare delle opere che incorporavano il desiderio del primo mondo di ascrivere i propri valori su di essi come parte del suo significato, pare non essere stato disponibile a quel tempo come un'opzione curatoriale.
Per ragioni che potrebbero risultare più chiare oggi, ogni descrizione di artisti non occidentali, così consci ed attenti allo sguardo compulsivo dell'Occidente, sarebbe stata in grado, in quel momento, di minare certe illusioni vitali sulla legittimità delle pretese espresse da coloro che "possiedono" quello sguardo — ad esempio, le istituzioni culturali delle nazioni-membro della Comunità Europea quanto quelle degli Stati Uniti. E vedendo che l'invito a presentare il proprio lavoro ad un vasto pubblico non si materializza senza la collaborazione delle istituzioni stesse, è difficile immaginarli come attivi partecipanti in un processo che considera come uno dei suoi scopi principali un energico smantellamento del loro stesso ruolo di depositari di "verità" culturali indiscutibili.
Ma c'è un'altra verità che sembra anche più fondamentale di quella di mantenere il controllo dei danni per il bene della propria immagine nazionale: il fatto che l'arte in questi luoghi sembri già diretta verso un completo rinnovamento delle sue stesse definizioni, e non solo riguardo alle tradizionali questioni di forma, stile e contenuto. Dopo il collasso dell'era del fare arte a cui di solito ci si riferisce definendola come "moderna" — che comincia all'incirca nei tardi anni Sessanta-primi anni Settanta — lo snodo è stato vieppiù caratterizzato da un costante autoesame dei problemi soggiacenti di autorità, teoria, produzione, distribuzione, significato e contesto del lavoro, tanto che la manifestazione fisica del lavoro si realizza all'interno di una rete di circostanze contestuali, in cui il significato non appare tanto come parte di un risultato stabilito, ma come forma di mutua considerazione delle condizioni che condussero alla sua creazione.
Questo graduale liberarsi delle trappole dell'idea di "arte senza condizionamenti" indica un profondo cambiamento rispetto allo spirito di avanguardia dei primi due terzi del secolo, durante i quali l'unica verità assoluta era che la manifestazione dell'arte sarebbe stata un argomento visivo a supporto del proprio indiscutibile stato culturale, sia come grande livellatrice che come grande accentratrice. Oggi, la sfida non è di giustificare la pratica artistica facendo dei paragoni con quel che non è arte, ma piuttosto quella di usare lo "stato condizionato" dell'arte come un modo per parlare del destino di ogni altra cosa (e di tutti noi).
Considerato da questa prospettiva, l'assunto più positivo messo in evidenza da Les Magiciens de la Terre — quello della simultaneità del comportamento creativo attraverso linee culturali diverse — può essere applicato alla nostra situazione attuale solo se presentato assieme allo sviluppo di una critica sociale che non consente che i problemi di "differenza" vengano superficialmente convertiti in una descrizione di contrasti tra bianco e nero. In altre parole, è solo rifiutandosi di definire l'autorevolezza del messaggio dell'artista in base alle sue personali origini socio-culturali, e resistendo alla relativizzazione di tutte le forme di pratica artistica come parte di un'infinita catena di casi di differenza, che possiamo imparare a smettere di penalizzare gli artisti che appartengono a minoranze etniche, religiose o sessuali, o il cui sesso è femminile, o i cui punti primari di referenza culturale risiedano in situazioni che non fanno parte delle alleanze dell'Europa occidentale o del Nord America. Se questo pare sollevare la nozione paradossale del nostro cercare di non essere consci di qualcosa per esserne più consci, è perché il ventesimo secolo ci ha resi troppo compiaciuti nella nostra accettazione del fatto che i nostri bisogni sono più importanti di quelli degli altri, nonostante non manchino consistenti prove del contrario.
Oggi l'arte si trova sull'orlo di un precipizio, con il rischio di essere fatta a pezzi in una moltitudine di linguaggi, attività ed attitudini coesistenti, ciascuno con il proprio bagaglio di critica e riferimenti culturali che lo lega ad altre discipline, i cui soggetti attivi sono coinvolti solo marginalmente (o magari per niente) nel dibattito sul futuro dell'arte.
Al tempo stesso, l'arte è anche invasa dai bisogni, talvolta conflittuali, di una crescente fascia di pubblico che è stata incoraggiata a credere che molte delle aspirazioni umane, connesse con la ricerca di un significato al di là delle ormai crollanti strutture sociali di fede collettiva (la Chiesa, il progresso scientifico, la rivoluzione), potrebbero ora essere dirette verso la contemplazione della mortale affermazione articolata dagli artisti attraverso i secoli.
Si potrebbe estrapolare da questa premessa che la fase successiva possa essere un'arte al servizio delle istituzioni, seguita da un suo utilizzo come elemento di promozione dell'individualismo occidentale. Ma l'unica definizione possibile di arte, per ora, è quella che comprende e celebra uno scopo al di fuori delle capacità, sia dell'individuo che delle istituzioni, di contenerla e controllarla, e che cerca di descrivere un livello di umanità che è fondamentalmente incapace di escludere le aspirazioni di ciascuno verso il proprio completamento. Quando questa discussione viene allontanata dal contesto dell'arte, si può apprezzare che la fine del XX secolo pare ci fornisca un nuovo punto da cui apprezzare vantaggiosamente fino a che misura questa tanto sbandierata era dell'individuo è degenerata in un'era di isolamento, egoismo, intolleranza e disumanità. Una sempre crescente porzione della nostra evoluzione come esseri tecnoletterati sembra venire investita sia nello scoprire modi in cui attrarre altri nel separarsi del loro denaro, oppure cullando noi stessi in un torpore autoindotto elettrodigitalizzato. L'uso del nostro ambiente elettronico o meta-elettronico, che ci isola dai nostri simili, può essere facilmente ricollegato alla fastidiosa coscienza del fatto che la loro sofferenza è reale. Sentendo più profondamente come individui, corriamo anche il rischio di sentire una maggiore empatia verso coloro che non sono fortunati come noi, a meno che naturalmente non ci formiamo un’idea del mondo che ci permetta di vedere il nostro coinvolgimento nel continuare un sistema che, in ultima analisi, sa meglio come risolvere i problemi del resto del mondo di quanto possiamo fare noi.
Molti degli artisti più noti degli anni Ottanta si arrovellavano in un ritorno ai valori "tradizionali" del lato più materialistico dell'arte, anche quando sposavano un credo che consisteva nell'affrontare problemi sociali da cui nascevano le loro idee. Proprio il prefisso neo, che non si può scindere dai nomi delle correnti stesse, indicava un movimento all'indietro verso il passato, come se qualcosa fosse stato lasciato dietro per essere poi recuperato prima di fare un ulteriore progresso. Il lavoro stesso sembrava combattere più per un'estetica sincretista che per una stratificazione complessa di tendenze stilistiche multiple.
Quando Claude Lévi-Strauss intitolò Il Crudo e il Cotto il suo trattato sull'antropologia strutturale ed il suo ruolo nel documentare i gruppi di indiani in Brasile, stava stabilendo un'accoppiata dialettica di due forze estremamente opposte: la sfortunata tendenza da parte delle società "avanzate" dell'Occidente a definire se stesse in relazione a un altro a cui non è permesso di negoziare alcuno dei termini del paragone, e l'ancora nascente coscienza verso uno stato di scambio interattivo di situazioni culturali, in cui entrambe le parti partecipano nel negoziare le condizioni sotto cui la percezione di realtà di ciascuno è rappresentata anche da coloro che non la condividano già. Il cotto e il crudo rappresenta l'impossibilità da parte di un gruppo privilegiato di studiarne uno considerato primitivo senza voler in qualche modo influenzarne e condizionarne la cultura.
Lo scambio tra posizioni culturali multiple è lo scopo primario di questa mostra, che vuole indicare, il più chiaramente possibile la proposta di un'alternativa alla dicotomia dell'occidente di cotto contro crudo, e questa alternativa può venire segnalata attraverso un tentativo di degerarchizzare il punto di vista di colui che parla. È stato necessario eliminare l'ingrediente cotto per lasciare il crudo, e concentrarsi invece sull'attività implicita degli elementi della nostra investigazione. Ultimo tema, ma non meno importante, mantenendo la metafora culinaria all'interno del titolo, creare una certa ambiguità per il ruolo dell'artista come colui che scopre e poi ricontestualizza materiali trovati, immagini, fonti e situazioni. È questa una figura di sciamano, o una specie di grande chef per il pubblico? O forse significa che l'artista è colui il quale preferisce mantenere distinto il suo ruolo da chi agisce direttamente sulle situazioni e chi registra e interpreta quelle azioni? In ogni caso, il titolo sembra atto ad incorporare una vastità di possibilità interpretative all'interno della sua visione, e sembra atto a non limitare l'immaginazione di colui che vede ad un numero finito di significati. Una delle più importanti funzioni espletate dal titolo Il Cotto e il Crudo è che ci permette di spostare il fuoco dal fatto che il Paese di origine, il sesso, la razza, i legami etnici o le preferenze sessuali di un artista siano centrali per il significato del suo lavoro, sull'idea che l'arte interessante riesca sempre ad essere sia locale che universale al tempo stesso.
Forse è un cliché precisare che tutti noi veniamo da un qualche punto di vista o situazione che aumenta il significato con l'essere divisa o spartita con la comunità di appartenenza, ma che è precisamente uno dei particolari universali che l'arte contemporanea pare cerchi fortissimamente di sottolineare. Così rovesciati rispetto al titolo su cui sono basati, il cotto e il crudo sembrano fare riferimento alla possibilità che tali categorie necessitino di ricadere l'una nell'altra, che un concetto non possa esistere senza la vicinanza dell'altro. In molte opere esposte, i problemi e i trabocchetti del trasmettere concetti e impressioni da un essere umano all'altro, fornisce un potente sottotesto all'atto di adattare il lavoro ai confini di un dato spazio. Eppure attraverso questi indovinelli pare che questi artisti dimostrino che questo contatto sia effettivamente avvenuto. Le investigazioni di questi artisti cercano di ricordarci che anche i più significativi contatti interculturali devono essere fatti con piena coscienza del rischio che corrono: che il momento può molto facilmente esaurire il suo significato prima che tutti siano davvero soddisfatti.