R a s h e e d   A r a e e n
Dall Rinnovazione alla decostruzione: la mia storia personale

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Oggi è ormai comune parlare di identità culturale, in particolare di artisti provenienti da culture extra-europee, e di come l'identità culturale sia divenuta essenziale per la loro pratica artistica. Ma questo recente dibattito non tiene conto del contributo storico realizzato dalla generazione precedente di artisti extra-europei nel mondo occidentale. Nella mia presentazione odierna vorrei mostrare, attraverso il mio lavoro personale, che l'identità culturale non è stata un problema o un punto essenziale per la generazione di artisti che giunsero in Europa negli anni '50 o '60 dall'Asia o dall'Africa. Il loro interesse precipuo era rivolto al Moderno e ai suoi sviluppi storici, e la loro migrazione verso le città europee non è stata diversa dalla migrazione di Picasso, Brancusi o Mondrian, ad esempio, a Parigi. Per gli artisti della periferia coloniale č stato essenziale entrare nella metropoli per entrare nella storia moderna, e facendo cosė essi hanno sfidato il concetto e la struttura eurocentrici del Moderno.
La mia storia personale è la storia di un tentativo del genere. Questa storia iniziò a Karachi, in Pakistan, dove sono nato. A metà degli anni '50 cominciai ad interessarmi all'arte e all'architettura moderne, il che mi condusse a una serie di lavori sperimentali in architettura, pittura e scultura.

(diapositive)

Benchè il mio lavoro di questo periodo fosse in germe, non mi fu possibile svilupparlo ulteriormente. In un ambiente culturale neocoloniale in cui tutto veniva giudicato e valutato secondo quanto già stabilito a Londra, Parigi o New York, non era facile sviluppare idee radicalmente nuove. Così, lasciai il mio paese per cercare fortuna in Europa. Dopo il mio arrivo a Londra nel 1964 vidi il lavoro di Anthony Caro e ne fui affascinato, in particolare per il modo in cui utilizzava materiali industriali quali travi d'acciaio.

(una diapositiva del lavoro di Caro)

La scelta che mi si poneva allora era tra l'accettare di farmi influenzare da lui, così come Caro era stato influenzato da David Smith, o cercare un modo diverso di fare scultura. Malgrado la mia grande ammirazione per Caro non potevo accettare le tendenze già stabilite. La mia ambizione è sempre stata quella di produrre qualcosa di radicalmente nuovo, di aprire nuovi orizzonti. Quindi cominciai a riconsiderare il tutto criticamente. Una posizione critica non garantisce per l'emergere del nuovo. Ma fui fortunato. Nel 1965, mentre lavoravo come disegnatore di ingegneria civile, mi venne l'idea di disporre travi di acciaio in un ordine simmetrico; e questa è stata la mia prima scultura minimale.

(diapositive di sculture con travi)

Successivamente sviluppai un sistema modulare basato su una struttura a traliccio, parallelamente a quanto stava succedendo allora a New York.

(diapositive di sculture)

Il mio primo incontro con il minimalismo americano fu alla fine del '68. Una mia amica, che ora è mia moglie, mi scrisse da Parigi dicendo che aveva visto una scultura che assomigliava alle mie. Si riferiva ovviamente al lavoro di Sol LeWitt alla mostra Arte del Reale a Parigi che successivamente giunse in Gran Bretagna all'inizio del 1969.
Poco dopo, i minimalisti americani cominciarono a esporre a Londra; ma il mio lavoro non ricevette alcun riconoscimento, nonostante il fatto che si trattasse di una realizzazione britannica storicamente importante. Anche dopo 30 anni la posizione istituzionale in Gran Bretagna (e ovviamente all'estero) è che non vi fu minimalismo in Gran Bretagna. Non posso esagerare l'importanza del mio lavoro degli anni '60; dietro il suo formalismo si trova un'importante lotta culturale del soggetto postcoloniale. Esso cerca di sgonfiare il mito della supremazia intellettuale bianca sul quale si basa la storiografia della storia dell'arte moderna, e sfida l'idea stessa di alterità e la sua costruzione nel discorso occidentale decentrando il soggetto moderno prodotto dall'eurocentrismo. Perciò non sono molto sorpreso che questo lavoro non trovasse spazio nella genealogia storica della scultura dopo Anthony Caro.
Tuttavia, ritrovandomi escluso dalla struttura istituzionale del riconoscimento e della legittimazione, cominciai a soffrire di una crisi di fiducia in me stesso. Cominciai anche a sentirmi limitato dall'aspetto formale del minimalismo. All'interno dei suoi limiti non potevo assorbire ed esprimere la mia esperienza sociale vissuta; e l'intero concetto di separazione tra pura esperienza estetica e realtà sociale iniziò a crollare. Di conseguenza fui lentamente attratto verso le lotte anticoloniali dell'epoca, e cominciai a leggere letteratura antimperialista. Franz Fanon di fatto mi fornì la soluzione. Nel 1972 entrai a far parte delle Black Panthers a Londra, e successivamente lavorai anche con David Medalla formando un'alleanza artistica a sostegno delle lotte antimperialiste in tutto il mondo, in particolare in Vietnam.

(diapositive)

Il mio lavoro politico di questo periodo fu utile, ma non mi aiutò nella ricerca come artista. Non si può fare arte al servizio della politica. Presto mi resi conto che si doveva lottare nell'ambito della propria professione; vi erano strutture dominanti e repressive all'interno del discorso artistico che erano discriminanti e che dovevano essere messe in discussione. Dovevo sviluppare una nuova pratica artistica, che non implicasse solo ciò di cui volevo occuparmi come parte dell'esperienza sociale, ma dovevo anche trovare un nuovo linguaggio critico.

(diapositive)

Il mio lavoro degli anni '70 è stato molto legato al mio lavoro politico, in cui la questione dell'identità e delle radici culturali svolgeva un ruolo importante, ma al di sotto di tutti questi cosiddetti lavori politici il mio interesse rimaneva la ricerca di un linguaggio critico che avrebbe articolato la mia esperienza estetica come pure l'esperienza sociale del vivere in una società che continuava ad aspirare al suo passato imperialista, e le cui strutture istituzionali o i discorsi intellettuali rimanevano imprigionati nel retaggio del colonialismo.
All'inizio degli anni '80 ho sviluppato un sistema a griglia di 9 pannelli. Da allora la maggior parte del mio lavoro è stato costruito all'interno di questo sistema. Per me questo sistema rappresenta il nostro mondo diviso, il centro - bianco, maschio, cristiano, e globalmente dominante - e la periferia che aspira al centro ma non può giungervi a causa di questa divisione. Eppure il centro e la periferia sono legati tra loro, in un nesso violento. Dipendono uno dall'altra. Il centro definisce la periferia e a sua volta ne è definito.

(diapositive)

Ciò che è importante in questo sistema non è la presenza di immagini o la rappresentazione iconica, ma la loro collocazione spaziale nell'insieme della configurazione. Come ho già detto altrove, questa configurazione sovverte la separazione tra centro e periferia e consente alla periferia di penetrare nel centro e inquinarlo. Penetrando, rompendo e inquinando lo spazio del Moderno puro con qualcosa che di fatto vi appartiene - ossia, la sua violenza - spero di sgonfiare il mito che il Moderno rappresenti solo il lato sublime dell'Umanesimo.

Londra, novembre 1995